Cottolengo, altro che "mostri deformi" tenuti in vita ad oltranza
Porta Palazzo, Torino sembra una casba, un mercato mediorientale ondeggiante di chador, vociante di richiami maghrebini. Poi giri a destra, e ti si para davanti il Cottolengo con le sue imponenti interminabili facciate. La strada si fa silenziosa. Caritas Christi urget nos, è scolpito sull’ingresso, la carità di Cristo ci sprona. Entri. Sotto ai tigli secolari ti sembra d’essere in una città diversa. 112 mila metri quadri di padiglioni, 3000 pasti al giorno, una mensa per i poveri, una scuola per infermieri, un monastero di clausura, il seminario, l’ospedale, e poi le case per disabili e anziani, in tutto oltre seicento letti. Una città, davvero. Ti inoltri per i viali in un viavai di suore in veste bianca – ce ne sono oltre seicento qui – e di ospiti che camminano adagio, claudicanti, o in carrozzella. La reazione istintiva del visitatore è di inquietudine – quella che provi quando immagini di dover vedere da vicino il dolore. Del resto, un’aura di mistero gravava un tempo su questa Piccola casa della Provvidenza. «Laggiù stanno i mostri», si diceva a Torino. Lo dice ancora del resto, sull’Espresso, Giorgio Bocca, che ha scritto di «un culto della vita ad ogni costo che lascia perplessi i visitatori della pia istituzione del Cottolengo, dove tengono in vita esseri mostruosi e deformi». E dunque chi entra immagina una immersione nel dolore. Belli i viali alberati, ma, dietro quelle finestre? Don Carmine Arice, responsabile della Pastorale della Casa, è un pugliese arrivato qui da oltre vent’anni. Ci porterà per i reparti, in un labirinto infinito di corridoi e stanze e sotterranei dove, ti fa notare, un uomo in carrozzella può andare ovunque senza incontrare un gradino: e sì che l’anno di fondazione della casa precede di 150 anni le leggi sulle 'barriere architettoniche'. Quel prete, san Giuseppe Cottolengo, ci aveva già pensato. Passi per l’ospedale con gli ambulatori affollati , riesci di nuovo, verso la chiesa. Qui il via vai delle suore si fa più intenso. Allo scadere dell’ora vanno e vengono le sorelle che si alternano per tutto il giorno nella laus perennis. C’è sempre qualcuno, in questa chiesa, che prega. Sentinelle, che s’alternano alla guardia. Perché pregare, diceva il fondatore, è 'il primo lavoro'. Quando aveva bisogno di nuove strutture, fondava un nuovo monastero di clausura. Quasi che veramente fondante fosse il pregare. Singolare logica, pensa fra sé il visitatore del 2009, a tutt’altro sguardo abituato; ma si direbbe, a giudicare dall’allargarsi prodigioso di questa casa dal 1832, che funziona. E siamo arrivati ai Santi innocenti, il reparto dei 'mostri' nella leggenda popolare. 122 ricoverati, quasi tutti disabili gravi. Morti ormai i macrocefali dalla testa enorme, gli ospiti qui sono quasi tutti handicappati anziani, età media 65 anni ( da quando esistono le ecografie, certi figli raramente vengono al mondo. Li individuano, e vengono eliminati). Ai Santi innocenti i ricoverati sono divisi in dieci 'famiglie', ciascuna con una propria casa. Grandi stanze luminose, odore di pulito. Qualche ospite passeggia e risponde al saluto degli infermieri con un gesto di familiare consuetudine. Una, ancora giovane, esile, un moncone al posto di una mano, all’abbraccio di una suora risponde prima con uno scuotersi spastico del busto; poi le si calma fra le braccia. Le ricoverate qui, anche le più vistosamente colpite da una disabilità che ne annebbia lo sguardo o rende incerto il movimento delle mani, lavorano. Il lavorare con un senso, e uno scopo, al Cottolengo è considerato essenziale per l’uomo.Allora al pomeriggio trovi le donne ai tavoli dei laboratori, intente ad assemblare lentamente pezzi di giocattoli. O, le più abili, a lavorare all’uncinetto, le mani che con lucida precisione tramano pizzi elaborati. Una legge da un quaderno spalancato: 'VII93XC2P', e tutta la pagina è un susseguirsi di formule astruse, scritte a mano. È l’ordine dei punti del merletto, spiega la suora; e rimani attonita a contemplare il lavorio di quelle mani. Splendidi, degni di un altare, i pezzi finiti. Le donne riconoscono don Carmine, gli sorridono. Pare un convivio di vecchie di paese intente ad antichi femminei mestieri. Dov’è, ti domandi, il dolore cocente che paventavi entrando in queste stanze? Le donne sembrano serene nel loro lavorare, in una dimestichezza affettuosa con le assistenti. Forse che il problema di queste persone, ti domandi, stia più negli occhi di chi li guarda che in loro? Perché noi dobbiamo essere efficienti, autonomi, capaci; e allora ci sembra un povero niente, quel faticoso lavorio di dita per assemblare una scatola di matite. Ma loro, le donne dei Santi innocenti, ti dicono: «L’ho fatto io», e ne sono contente. Ci han messo un’ora, a ordinare quei pastelli. Ma qui, dice don Carmine, «il tempo è al servizio degli uomini, e non gli uomini al servizio del tempo». Armadi colmi di giochi ad incastro per bambini. Banchi incrostati di anni di pitture. I quadri dei disabili sembrano opere di impressionisti, sgargianti, tracimanti di colore. Un grande foglio appeso al muro è tutto nero: le ospiti lo hanno dipinto così. per raccontare la morte. Un altro è un’esplosione di luce: quello, spiega la suora, è, secondo loro, il Paradiso. Vai avanti e parli meno, e resti assorta a guardare. Certo, nelle mani tremanti, negli sguardi persi riconosci come un piegarsi della vita sotto al giogo di un antica condanna. Una ferita oscura, originaria, in queste donne è evidente. «Dove la ferita è più grande, la domanda è più grande. Queste perso- ne sono come un grido, una più forte domanda di Cristo», dice don Carmine, intuendo ciò che ti stai chiedendo. (Forse per questo, per questa domanda evidente portata dalla sofferenza, oggi i figli malformati si sopprimono?) No, non ci sono creature 'metà cavallo e metà uomo' qui al Cottolengo, come fantasticavano una volta nei paesi del Torinese. Ma solo uomini con un 'di meno', che agli occhi dei sani è insopportabile. ( E accadeva che li lasciassero qui con l’inganno. Li portavano per una visita e li abbandonavano, perché quella diversità era onta fra i sani). Eppure Angela, sorda, muta e cieca, si alza di scatto nell’avvertire la voce amica del prete, gli afferra le mani, inizia un intenso discorso di gesti che la suora che le è accanto – grossa, benigna, materna – capisce. Le risponde. Ridono fra di loro. Oltre la maschera che, fuori, noi sani portiamo, qui dentro intravvedi cos’è davvero un uomo. Oltre a ogni apparenza. «Vede – dice don Arice – questo giardino, come è perfettamente curato. Le finestre di fronte sono quelle dei malati di Alzheimer. Ecco, questo giardino lo curiamo così perché ognuno dei malati che lo guarda ha per noi un valore infinito». È una concezione dell’uomo molto grande, quella che regge questo allargarsi di case e stanze da 170 anni nel cuore di Torino. Quando un canonico quarantenne si trovò di fronte allo scandalo della ingiustizia e del dolore: una donna incinta e malata respinta da due ospedali e lasciata morire in una stalla. Don Giuseppe Cottolengo cambiò vita. Le sue case nacquero una dopo l’altra, senza un progetto,rispondendo al quotidiano bisogno. I soldi, all’occorrenza, arrivavano. Si mostrava evidente, quasi in un’eco di ciò che il Manzoni proprio in quegli anni scriveva, che «la c’è, la Provvidenza». Malati segregati, poveri 'mostri' da imboccare e amare, confluirono nella Casa. Oggi nuovi poveri premono alle porte della cittadella dietro a Porta Palazzo. Vecchi dementi, lasciati soli in case vuote: la nuova emergenza, sono i vecchi. La Piccola Casa resta nel cuore della Torino del Duemila, crocevia di mille etnie, come un segno. Giovanni Paolo II qui disse: «Se non si comincia da questa accettazione dell’altro, comunque egli si presenti, in lui riconoscendo un’immagine vera anche e offuscata di Cristo, non si può dire di amare veramente ». Tutto un altro amore. Tutta un’altra logica, da quella di cui scrivono i giornali
martedì 26 maggio 2009
CHIESA E GALILEO OCCASIONE PERDUTA?
Galileo, occasione fallita o proficua lezione?
La condanna di Galileo non poteva accadere in un momento meno propizio: le ultime due generazioni avevano di fatto assistito ad una rivoluzione culturale senza precedenti, di cui la Chiesa cattolica era stata il promotore e il diffusore. Nel 1582 il papato aveva proposto al mondo la riforma del calendario: era stata così dimostrata la perizia degli astronomi cattolici. Il calendario gregoriano (da papa Gregorio XIII) era opera della stupenda ricerca matematica accolta e sviluppata dalla Chiesa, soprattutto dai padri gesuiti del Collegio romano. Rimane come un monumento permanente della Controriforma cattolica. Gli interlocutori incontrati da Galileo a Roma – che l’avevano festeggiato con molti onori – erano convinti di avere ammaestrato il tempo: avevano dotato il mondo di un calendario 'perpetuo', con la più esatta (e quasi perfetta) misura del tempo. Le potenze protestanti avevano respinto una tale riforma, che rendeva manifesto ai loro occhi quanto la Roma papale fosse la sede dell’Anticristo, la nuova Babilonia, che voleva sostituirsi a Dio stesso nel dominio del tempo, cancellando la datazione pasquale stabilita dal Concilio di Nicea e sottraendo dieci giorni alla durata del mondo, anticipando così il regno del Anticristo. La riforma del calendario è stato il segno più patente della dominante competenza degli scienziati cattolici. Ma era inserita in tutta una serie di misure decise dal Concilio di Trento per incrementare la formazione del clero – seminari maggiori creati dai vescovi, collegi dei gesuiti e di altre congregazioni e ordini, accademie scientifiche: Roma aveva moltiplicato le istituzioni di insegnamento e di ricerca, con un vigore educativo che voleva essere la risposta alle riforme universitarie dei protestanti (basta ricordare Melantone, «il precettore della Germania»). Numerosi religiosi erano impegnati nel campo della ricerca scientifica, scambiandosi dati sperimentali, osservazioni astronomiche, documenti vari, nel proficuo «commercio epistolare» della respublica litteraria. All’inizio della Controriforma la Chiesa si è voluta dotare dei mezzi disciplinari ed educativi idonei per combattere e bloccare l’estensione del movimento riformatore. Questa politica si è rivelata feconda, e ha contributo a gran parte de la riconquista cattolica (soprattutto nella Germania meridionale e nell’Europa centrale).Dal canto loro, i pontefici romani si sono affermati come mecenati delle scienze e degli arti, ad un livello mai uguagliato. Galileo stava tra i lumi di questa scienza cattolica, era stato festeggiato dai gesuiti romani e godeva dell’amicizia di tanti cardinali, tra i quali Maffeo Barberini (papa Urbano VIII dal 1623 al 1644). G li studiosi hanno ricostruito i motivi della sua condanna: sono di natura politica, diplomatica, disciplinare (il non avere obbedito alla cosiddetta «ingiunzione del 1616» di non pubblicare nulla sull’eliocentrismo), personale (aveva perso la fiducia del papa). La dimensione dottrinale del reato è scarsa, e i giudici non hanno insistito su questo aspetto. Il «caso» non ha suscitato dibattiti teologici, si trattava per i contemporanei di un caso disciplinare. Tanto più che i decreti delle congregazioni romane non erano ricevuti nella maggior parte dell’Europa cattolica, dove i regni (Spagna, Francia, Sacro Impero) e tanti altri Stati (Venezia) erano molto gelosi della propria indipendenza dalle decisioni romane: Index non viget era la parola d’ordine della maggioranza dei Paesi cattolici. Eppure i danni dalla sentenza del 1633 sono stati cospicui: si è consumata la rottura tra la Chiesa e la visione moderna, scientifica, del mondo. Si è detto che la condanna di Fénelon, nel 1699, era stata «il tramonto dei mistici» (Louis Cognet), allo stesso modo, la condanna di Galileo è stata il tramonto della scienza cattolica. Le sequele del decreto si sono allargate ben al di là del semplice fatto di una messa all’Indice. La scienza moderna si è da allora in poi sviluppata spesso senza la Chiesa e spesso contro di lei. Il colpo tirato nel campo della cosmologia ha fatto tante vittime collaterali nella critica storica e filologica e nel campo dell’erudizione. Il modernismo del primo Novecento, la cui ombra ha coperto la storia intellettuale cattolica per mezzo secolo, mi pare una lontana eppure genuina sequela di questa condanna del 1632. È palese che Galileo Galilei rimane un eroe scomodo per gli zelanti dello scientismo laicista; non era certo un metafisico e, nonostante le prove subite dalla sua Chiesa, è rimasto un buon cristiano. Arthur Koestler ha ricordato le debolezze del grand’uomo: non ha inventato il cannocchiale, né il microscopio, né il pendolo isocrono, ha sbagliato in diversi campi (le maree), non ha rilevato le macchie solari e non ha potuto provare il copernicanesimo. Eppure, è stato il padre della dinamica – e questo basterebbe perché sia considerato tra i padri della scienza nuova. La sua condanna ingiustificata ne ha fatto il martire del oscurantismo clericale e il simbolo dell’autonomia del pensiero scientifico. Le Chiese ortodosse sono rimaste a lungo anti-copernicane; i grandi riformatori protestanti si sono opposti all’eliocentrismo. Purtroppo, il caso Galileo è rimasto come una macchia per la sola Chiesa cattolica e ha inquinato le relazioni tra la Chiesa e la scienza per due secoli. Invano la condanna è stata cancellata, la Chiesa si è voluta riconciliare con la scienza contemporanea (basta ricordare l’abate agostiniano Gregor Mendel o, nel secolo scorso, il canonico belga Georges Lemaître), «ha invitato i premi Nobel al Vaticano» (si ricorda il bel libro di Regis Ladous), ha incoraggiato le istituzioni scientifiche (la Specola vaticana, l’Accademia pontificia): ci vorranno parecchie generazioni, e gli sforzi meritevoli di tanti papi (tra quali Pio XI e Pio XII), per riconciliare pienamente la Chiesa e la scienza moderna e ricucire i loro legami, senza mai allontanare totalmente il sospetto di opportunismo (in parte verificato, negli ambienti romani, intorno alla figura di Teilhard de Chardin). Eppure, nonostante i danni, non si può dare del caso Galileo un giudizio del tutto negativo. Si può sostenere pure che questa condanna fatale è stata di fatto molto utile nella storia del pensiero dottrinale e dell’insegnamento magisteriale della Chiesa cattolica. La memoria della condanna e delle sue sequele ha lasciato una traccia segnata: un atteggiamento di grande cautela nei confronti di ogni giudizio sulle nuove teorie scientifiche. Si è avverata una chiara distinzione di ordine tra le verità rivelate e quelle inventate dall’ingegno umano. Può darsi che la causa sia il timore di sbagliarsi di nuovo, di non volere aprire un 'nuovo caso Galileo', o la convinzione dei piani diversi della scienza e della Rivelazione. I due libri, quello delle Scritture e quello della Natura (per proporre un’immagine familiare, dal Medioevo in poi, alla mente occidentale), richiedono un’ermeneutica diversa, con delle regole proprie; la loro lettura non si può mescolare. L’evoluzionismo, avversato dalle Chiese fondamentaliste americane, non è stato condannato. Sempre attenti alle norme morali e al rispetto della dignità umana, i pontefici romani hanno accolto con interesse e benevolenza i progressi della genetica, delle neuroscienze, le grandi tesi della cosmologia. I nuovi dati scientifici sono insegnati nelle scuole cattoliche; da mezzo secolo, non c’è più un Indice, e Sigmund Freud non è stato anatematizzato... L’ apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio, voluta dall’attuale pontefice, ha svelato un’amministrazione molto preoccupata della disciplina interna e cosciente della sua debolezza nel controllare la produzione intellettuale. Galileo era troppo noto agli ambienti romani (e curiali) e la sua 'disubbidienza' troppo patente per rimanere illeso. Ma la Chiesa ha approfittato del caso: questa occasione fallita è stata una proficua lezione, che ha facilitato nel Novecento l’aggiornamento cattolico nei confronti dei nuovi orizzonti scientifici.
*Ordinario di Storia delle idee religiose e scientifiche nell’Europa moderna presso l’Ecole pratique des hautes études alla Sorbona
di Jean-Robert Armogathe*
La condanna di Galileo non poteva accadere in un momento meno propizio: le ultime due generazioni avevano di fatto assistito ad una rivoluzione culturale senza precedenti, di cui la Chiesa cattolica era stata il promotore e il diffusore. Nel 1582 il papato aveva proposto al mondo la riforma del calendario: era stata così dimostrata la perizia degli astronomi cattolici. Il calendario gregoriano (da papa Gregorio XIII) era opera della stupenda ricerca matematica accolta e sviluppata dalla Chiesa, soprattutto dai padri gesuiti del Collegio romano. Rimane come un monumento permanente della Controriforma cattolica. Gli interlocutori incontrati da Galileo a Roma – che l’avevano festeggiato con molti onori – erano convinti di avere ammaestrato il tempo: avevano dotato il mondo di un calendario 'perpetuo', con la più esatta (e quasi perfetta) misura del tempo. Le potenze protestanti avevano respinto una tale riforma, che rendeva manifesto ai loro occhi quanto la Roma papale fosse la sede dell’Anticristo, la nuova Babilonia, che voleva sostituirsi a Dio stesso nel dominio del tempo, cancellando la datazione pasquale stabilita dal Concilio di Nicea e sottraendo dieci giorni alla durata del mondo, anticipando così il regno del Anticristo. La riforma del calendario è stato il segno più patente della dominante competenza degli scienziati cattolici. Ma era inserita in tutta una serie di misure decise dal Concilio di Trento per incrementare la formazione del clero – seminari maggiori creati dai vescovi, collegi dei gesuiti e di altre congregazioni e ordini, accademie scientifiche: Roma aveva moltiplicato le istituzioni di insegnamento e di ricerca, con un vigore educativo che voleva essere la risposta alle riforme universitarie dei protestanti (basta ricordare Melantone, «il precettore della Germania»). Numerosi religiosi erano impegnati nel campo della ricerca scientifica, scambiandosi dati sperimentali, osservazioni astronomiche, documenti vari, nel proficuo «commercio epistolare» della respublica litteraria. All’inizio della Controriforma la Chiesa si è voluta dotare dei mezzi disciplinari ed educativi idonei per combattere e bloccare l’estensione del movimento riformatore. Questa politica si è rivelata feconda, e ha contributo a gran parte de la riconquista cattolica (soprattutto nella Germania meridionale e nell’Europa centrale).Dal canto loro, i pontefici romani si sono affermati come mecenati delle scienze e degli arti, ad un livello mai uguagliato. Galileo stava tra i lumi di questa scienza cattolica, era stato festeggiato dai gesuiti romani e godeva dell’amicizia di tanti cardinali, tra i quali Maffeo Barberini (papa Urbano VIII dal 1623 al 1644). G li studiosi hanno ricostruito i motivi della sua condanna: sono di natura politica, diplomatica, disciplinare (il non avere obbedito alla cosiddetta «ingiunzione del 1616» di non pubblicare nulla sull’eliocentrismo), personale (aveva perso la fiducia del papa). La dimensione dottrinale del reato è scarsa, e i giudici non hanno insistito su questo aspetto. Il «caso» non ha suscitato dibattiti teologici, si trattava per i contemporanei di un caso disciplinare. Tanto più che i decreti delle congregazioni romane non erano ricevuti nella maggior parte dell’Europa cattolica, dove i regni (Spagna, Francia, Sacro Impero) e tanti altri Stati (Venezia) erano molto gelosi della propria indipendenza dalle decisioni romane: Index non viget era la parola d’ordine della maggioranza dei Paesi cattolici. Eppure i danni dalla sentenza del 1633 sono stati cospicui: si è consumata la rottura tra la Chiesa e la visione moderna, scientifica, del mondo. Si è detto che la condanna di Fénelon, nel 1699, era stata «il tramonto dei mistici» (Louis Cognet), allo stesso modo, la condanna di Galileo è stata il tramonto della scienza cattolica. Le sequele del decreto si sono allargate ben al di là del semplice fatto di una messa all’Indice. La scienza moderna si è da allora in poi sviluppata spesso senza la Chiesa e spesso contro di lei. Il colpo tirato nel campo della cosmologia ha fatto tante vittime collaterali nella critica storica e filologica e nel campo dell’erudizione. Il modernismo del primo Novecento, la cui ombra ha coperto la storia intellettuale cattolica per mezzo secolo, mi pare una lontana eppure genuina sequela di questa condanna del 1632. È palese che Galileo Galilei rimane un eroe scomodo per gli zelanti dello scientismo laicista; non era certo un metafisico e, nonostante le prove subite dalla sua Chiesa, è rimasto un buon cristiano. Arthur Koestler ha ricordato le debolezze del grand’uomo: non ha inventato il cannocchiale, né il microscopio, né il pendolo isocrono, ha sbagliato in diversi campi (le maree), non ha rilevato le macchie solari e non ha potuto provare il copernicanesimo. Eppure, è stato il padre della dinamica – e questo basterebbe perché sia considerato tra i padri della scienza nuova. La sua condanna ingiustificata ne ha fatto il martire del oscurantismo clericale e il simbolo dell’autonomia del pensiero scientifico. Le Chiese ortodosse sono rimaste a lungo anti-copernicane; i grandi riformatori protestanti si sono opposti all’eliocentrismo. Purtroppo, il caso Galileo è rimasto come una macchia per la sola Chiesa cattolica e ha inquinato le relazioni tra la Chiesa e la scienza per due secoli. Invano la condanna è stata cancellata, la Chiesa si è voluta riconciliare con la scienza contemporanea (basta ricordare l’abate agostiniano Gregor Mendel o, nel secolo scorso, il canonico belga Georges Lemaître), «ha invitato i premi Nobel al Vaticano» (si ricorda il bel libro di Regis Ladous), ha incoraggiato le istituzioni scientifiche (la Specola vaticana, l’Accademia pontificia): ci vorranno parecchie generazioni, e gli sforzi meritevoli di tanti papi (tra quali Pio XI e Pio XII), per riconciliare pienamente la Chiesa e la scienza moderna e ricucire i loro legami, senza mai allontanare totalmente il sospetto di opportunismo (in parte verificato, negli ambienti romani, intorno alla figura di Teilhard de Chardin). Eppure, nonostante i danni, non si può dare del caso Galileo un giudizio del tutto negativo. Si può sostenere pure che questa condanna fatale è stata di fatto molto utile nella storia del pensiero dottrinale e dell’insegnamento magisteriale della Chiesa cattolica. La memoria della condanna e delle sue sequele ha lasciato una traccia segnata: un atteggiamento di grande cautela nei confronti di ogni giudizio sulle nuove teorie scientifiche. Si è avverata una chiara distinzione di ordine tra le verità rivelate e quelle inventate dall’ingegno umano. Può darsi che la causa sia il timore di sbagliarsi di nuovo, di non volere aprire un 'nuovo caso Galileo', o la convinzione dei piani diversi della scienza e della Rivelazione. I due libri, quello delle Scritture e quello della Natura (per proporre un’immagine familiare, dal Medioevo in poi, alla mente occidentale), richiedono un’ermeneutica diversa, con delle regole proprie; la loro lettura non si può mescolare. L’evoluzionismo, avversato dalle Chiese fondamentaliste americane, non è stato condannato. Sempre attenti alle norme morali e al rispetto della dignità umana, i pontefici romani hanno accolto con interesse e benevolenza i progressi della genetica, delle neuroscienze, le grandi tesi della cosmologia. I nuovi dati scientifici sono insegnati nelle scuole cattoliche; da mezzo secolo, non c’è più un Indice, e Sigmund Freud non è stato anatematizzato... L’ apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio, voluta dall’attuale pontefice, ha svelato un’amministrazione molto preoccupata della disciplina interna e cosciente della sua debolezza nel controllare la produzione intellettuale. Galileo era troppo noto agli ambienti romani (e curiali) e la sua 'disubbidienza' troppo patente per rimanere illeso. Ma la Chiesa ha approfittato del caso: questa occasione fallita è stata una proficua lezione, che ha facilitato nel Novecento l’aggiornamento cattolico nei confronti dei nuovi orizzonti scientifici.
*Ordinario di Storia delle idee religiose e scientifiche nell’Europa moderna presso l’Ecole pratique des hautes études alla Sorbona
di Jean-Robert Armogathe*
sabato 23 maggio 2009
SUICIDI GIOVANILI, PERCHE'?
Suicidi giovanili, strazio che interroga
Lui, un quindicenne di origine indiana, adottato da una famiglia di Potenza, ha forse deciso di farla finita per una delusione d’amore. Così si è dato fuoco ed è morto. Lei, stessa età, milanese, si è gettata sotto il metrò. È stata salvata in extremis, ma perderà un braccio. Perché? Forse non aveva accettato la separazione dei genitori. Forse, forse, forse... Occorre ripeterlo mille volte quando si tenta di indagare le ragioni che portano un adolescente a scegliere di 'chiamarsi fuori', di non vivere più. Perché anche quando la motivazione sembrerebbe evidente – il giovane lucano aveva inviato un sms per spiegare il suo gesto – in realtà non c’è mai una sola ragione, un solo impulso. Dietro quella scelta di morte si intrecciano e si sovrappongono decine di sollecitazioni negative, di pensieri distorti e fuorvianti. Forse, neppure loro, i ragazzi che non vogliono più vivere, potrebbero dire spiegare cosa c’era davvero dietro quel loro, terribile, innaturale, tragico salto nel nulla. Ieri Pransath Folliero, aveva mandato tre messaggini alla sorella, a un vicino di casa e a un amico: «Non ce la faccio più, sto per buttarmi. Mi troverete sull’asfalto», Così, per una delusione d’amore, si è suicidato dandosi fuoco con la benzina e gettandosi poi da una scalinata. Era stato adottato nel 1996 da una famiglia di Pignola (Potenza). Ieri mattina ha preso un autobus e invece di dirigersi al Liceo scientifico «Galilei», dove fre- quentava la IH, ha raggiunto una scalinata in centro. Dopo aver posato lo zainetto, in cui aveva messo una bottiglia piena di benzina, ha preso il cellulare e ha inviato i tre sms. Poi il gesto fatale. Poco dopo l’arrivo della madre e della sorella (di due anni più grande). La ragazza era a scuola, all’istituto tecnico commerciale «Nitti», alla periferia della città. In centro è stata accompagnata da un collaboratore scolastico a cui, durante il tragitto in automobile, aveva raccontato che Prasanth da alcuni giorni era triste, non mangiava. Tutto a causa di «una cotta» sfortunata. Null’altro. Almeno in apparenza. I due fratelli, infatti, erano perfettamente integrati, benvoluti e amati dai genitori. Lui frequentava la parrocchia con un passato da chierichetto, si divertiva con chitarra e tastiere, non disdegnava lo sport. Senza particolari problemi né di studio né di amicizie. Molto simile la vicenda della ragazzina milanese che ha tentato di togliersi la vita. Ieri mattina, invece di andare a scuola, è scesa nella stazione Primaticcio della Linea 1 del metro e si è gettata sotto il treno. Un gesto, avrebbe spiegato la mamma, mai preannunciato prima. Qualche difficoltà l’aveva già incontrata: una bocciatura scolastica, i genitori separati, forse un po’ di gelosia verso il fratello più piccolo. «La mamma - hanno riferito i carabinieri - ha detto che la figlia l’anno scorso era stata bocciata e che era seguita da uno psicologo». Ma il nonno, Pietro V., ha smentito categoricamente che soffrisse di problemi psichici. «Non aveva mai assorbito il colpo della separazione dei genitori, ma non c’era nessun segnale che facesse presagire un gesto simile». Suor Roberta Vinerba«Anche il dolore dà senso alla vita ma nessuno lo insegna ai ragazzi»Lucia BellaspigaMorire facendo rumore. Gettarsi sotto un metrò nell’ora di punta o diventare una torcia umana nella piazza centrale, per dire a tutti «io esisto». Un comportamento incomprensibile, che però trova una spiegazione nell’analisi di chi di adolescenza è esperto: «A questa età i ragazzi non concepiscono il futuro, sono travolti dalle emozioni del presente, bello o brutto che sia, e quindi le vivono in maniera totalizzante», spiega suor Roberta Vinerba, docente di teologia morale, studiosa dell’affettività negli adolescenti e autrice del libro "Se questo è amore" (ed. Paoline).L’impulsività è tipica dei ragazzi, ma come si arriva ad eccessi tanto violenti?Non esiste disagio adolescenziale senza una responsabilità da parte di noi adulti. Abbiamo sottratto loro la capacità di decodificare le emozioni, di inserirle in un progetto di vita che preveda un domani e nel quale entri in gioco anche la capacità di portare un dolore...E così qualsiasi sofferenza diventa insormontabile, al punto da uccidersi?Nessuno tempra più i ragazzi, non gli si insegna che la sofferenza si può sopportare e addirittura può dare un senso alla vita, può essere preziosa per crescere. E d’altra parte i cattivi maestri, tra gli adulti, sono un po’ ovunque e danno l’esempio.A chi si riferisce?A una cultura dilagante. Vorrei precisare che non conosco queste due povere famiglie e certo non addosso a loro alcuna responsabilità: è la società intera che inganna gli adolescenti. Oggi gli adulti sono i primi a comportarsi da adolescenti, si lasciano travolgere dal presente davanti ai figli, fanno vedere che ogni passione nel momento in cui la provi è totalizzante e padrona di noi, del nostro agire, e non c’è freno razionale che tenga. Lo si predica in tivù, nei salotti che contano, e i ragazzi sono continuamente chiamati a dare le dimissioni dalla vita. Non gli si insegna l’onore, la responsabilità, la parola data, il fare della propria vita una sfida preziosa, tutte cose che i giovani avrebbero in sé, poiché detestano la mediocrità e amano i sogni...Troppa protezione e poca palestra di vita, insomma.Oggi l’ossessione degli adulti è evitare qualsiasi croce per i figli. Io da venti anni tengo corsi per centinaia di adolescenti e li porto in montagna: fa parte della mia pedagogia. Al mattino, prima dell’escursione, è normale per chiunque sentire l’ansia del salire e perciò lamentare un dolorino chiedendo di restare a valle. In realtà poi, salendo con il gruppo, l’ostacolo si supera: si chiama "la forza della cordata" ed è educativa. Ma da qualche anno assisto a padri e madri che quel mattino mi chiamano, da casa loro, per raccontarmi che il figlio ha male a un ginocchio e non salirà. Così si perde un’esperienza fondamentale: scoprire che in sé esistono le forze per superare l’ostacolo, stringendo i denti, guardando la meta da lontano.Una meta dura, che può essere l’amore, o il successo scolastico...Esattamente. Quante volte arriva giugno e sentiamo di ragazzini che si impiccano per una banale bocciatura? E le pare possibile che ogni anno dobbiamo sopportare che il ministro dell’Istruzione di turno vada al tg con schiere di psicologi a spiegare ai ragazzi che l’esame di maturità non è una tragedia? No, non è colpa dell’adolescente, che non voglia faticare o soffrire è normale, ma non c’è più l’adulto, la sponda contro cui possa andare a frangersi la marea di ansia giovanile. Manca qualcuno che gli dica chiaro dov’è la verità con la quale fare i conti, anche per rifiutarla.
Anna Oliverio Ferraris«Dobbiamo ricondurre l’impulso a un ragionamento razionale»Adolescenti, ovvero impulsivi: in un istante decidono e mettono in atto. E a spingerli verso l’estremo può bastare quello che all’occhio adulto sembra un nonnulla, ma che per loro significa tragedia: «Una delusione da parte degli amici o della persona amata, una brutta figura di fronte al mondo, che poi magari è solo un brutto voto preso a scuola. Ma sempre più spesso emerge anche una depressione giovanile, legata magari alla situazione familiare che genera infelicità...». C’è un po’ di tutto nell’analisi proposta da Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dell’età evolutiva alla Sapienza di Roma e autrice di un recente libro dedicato ai suicidi adolescenziali ("Chiamarsi fuori", ed. Giunti), quasi un riassunto delle due vicende avvenute ieri.Due casi molto diversi, comunque.Entrambi hanno scelto una morte plateale, ma poi ogni storia è sempre a sé. Il ragazzino di Potenza, pare deluso per un amore finito, si è ucciso per rimanere sempre nella memoria della sua ragazzina: come a dirle tu mi volevi scordare e io entrerò per sempre nella tua memoria. Inoltre era stato adottato e questo potrebbe comportare nel suo passato fratture antiche con una figura di riferimento... ma va detto che certo non tutti i figli adottivi reagiscono così. Certo è che in entrambi i casi di ieri si vede la propensione a vivere le difficoltà della vita come drammi insostenibili.È un atteggiamento tipico degli adolescenti, un aspetto fondamentale della loro impulsività: a questa età si decide tutto in tempi brevi e un qualsiasi fatto negativo riempie il loro orizzonte attuale, non si vede altro. A una ragazzina fragile può bastare il considerarsi bruttina in un mondo che valorizza l’aspetto estetico, per sentirsi infelice... Per questo bisognerebbe che ci fosse sempre una persona adulta pronta a mostrare loro l’altra faccia della medaglia, che riconduca l’impulsività a un ragionamento razionale. Che insomma dia loro la forza per superare il disagio.Ma come può essere che un ragazzino non abbia la forza per dimenticare un amore perduto o la vergogna della bocciatura, ma poi trovi il coraggio per gettarsi sotto il metrò o darsi fuoco?Sono adolescenti che non hanno la percezione del dolore cui andranno incontro, si buttano sotto il treno che arriva senza pensare all’impatto. Vivono davvero solo l’istante presente, agiscono d’impulso, infatti di solito non premeditano. La ragazzina di Milano ha agito così...Non il ragazzo di Potenza, però.Il suo invece è un gesto certamente preparato, ha persino scelto lo scenario al centro del quale urlare la sua autoaffermazione.Secondo la sua inchiesta, c’è qualche differenza tra ragazzi e ragazze che arrivano a scelte estreme?I ragazzi riescono più spesso a morire, le ragazze frequentemente si fermano al tentativo di suicidio ma sopravvivono: agiscono con meno determinazione perché non cercano di morire, la loro è invece una richiesta di aiuto, comunicano che stanno male. Non è però il caso della adolescente milanese: lei ha scelto un metodo "maschile", drastico, era determinata...<+nero>C’è una recrudescenza di questi casi?<+tondo>In Italia minima, non significativa. D’altronde si sa che l’adolescenza è una fase critica. Poi, verso i vent’anni, l’impulsività cala anche per motivi fisiologici: prima di quell’età la corteccia prefrontale nel cervello, quella che appunto regola questo agire improvviso, non è ancora del tutto mielinizzata. Si capisce bene, allora, quanto sia fondamentale la vicinanza di un adulto che nel momento critico, del dolore, sappia ragionare con e per loro.
Lui, un quindicenne di origine indiana, adottato da una famiglia di Potenza, ha forse deciso di farla finita per una delusione d’amore. Così si è dato fuoco ed è morto. Lei, stessa età, milanese, si è gettata sotto il metrò. È stata salvata in extremis, ma perderà un braccio. Perché? Forse non aveva accettato la separazione dei genitori. Forse, forse, forse... Occorre ripeterlo mille volte quando si tenta di indagare le ragioni che portano un adolescente a scegliere di 'chiamarsi fuori', di non vivere più. Perché anche quando la motivazione sembrerebbe evidente – il giovane lucano aveva inviato un sms per spiegare il suo gesto – in realtà non c’è mai una sola ragione, un solo impulso. Dietro quella scelta di morte si intrecciano e si sovrappongono decine di sollecitazioni negative, di pensieri distorti e fuorvianti. Forse, neppure loro, i ragazzi che non vogliono più vivere, potrebbero dire spiegare cosa c’era davvero dietro quel loro, terribile, innaturale, tragico salto nel nulla. Ieri Pransath Folliero, aveva mandato tre messaggini alla sorella, a un vicino di casa e a un amico: «Non ce la faccio più, sto per buttarmi. Mi troverete sull’asfalto», Così, per una delusione d’amore, si è suicidato dandosi fuoco con la benzina e gettandosi poi da una scalinata. Era stato adottato nel 1996 da una famiglia di Pignola (Potenza). Ieri mattina ha preso un autobus e invece di dirigersi al Liceo scientifico «Galilei», dove fre- quentava la IH, ha raggiunto una scalinata in centro. Dopo aver posato lo zainetto, in cui aveva messo una bottiglia piena di benzina, ha preso il cellulare e ha inviato i tre sms. Poi il gesto fatale. Poco dopo l’arrivo della madre e della sorella (di due anni più grande). La ragazza era a scuola, all’istituto tecnico commerciale «Nitti», alla periferia della città. In centro è stata accompagnata da un collaboratore scolastico a cui, durante il tragitto in automobile, aveva raccontato che Prasanth da alcuni giorni era triste, non mangiava. Tutto a causa di «una cotta» sfortunata. Null’altro. Almeno in apparenza. I due fratelli, infatti, erano perfettamente integrati, benvoluti e amati dai genitori. Lui frequentava la parrocchia con un passato da chierichetto, si divertiva con chitarra e tastiere, non disdegnava lo sport. Senza particolari problemi né di studio né di amicizie. Molto simile la vicenda della ragazzina milanese che ha tentato di togliersi la vita. Ieri mattina, invece di andare a scuola, è scesa nella stazione Primaticcio della Linea 1 del metro e si è gettata sotto il treno. Un gesto, avrebbe spiegato la mamma, mai preannunciato prima. Qualche difficoltà l’aveva già incontrata: una bocciatura scolastica, i genitori separati, forse un po’ di gelosia verso il fratello più piccolo. «La mamma - hanno riferito i carabinieri - ha detto che la figlia l’anno scorso era stata bocciata e che era seguita da uno psicologo». Ma il nonno, Pietro V., ha smentito categoricamente che soffrisse di problemi psichici. «Non aveva mai assorbito il colpo della separazione dei genitori, ma non c’era nessun segnale che facesse presagire un gesto simile». Suor Roberta Vinerba«Anche il dolore dà senso alla vita ma nessuno lo insegna ai ragazzi»Lucia BellaspigaMorire facendo rumore. Gettarsi sotto un metrò nell’ora di punta o diventare una torcia umana nella piazza centrale, per dire a tutti «io esisto». Un comportamento incomprensibile, che però trova una spiegazione nell’analisi di chi di adolescenza è esperto: «A questa età i ragazzi non concepiscono il futuro, sono travolti dalle emozioni del presente, bello o brutto che sia, e quindi le vivono in maniera totalizzante», spiega suor Roberta Vinerba, docente di teologia morale, studiosa dell’affettività negli adolescenti e autrice del libro "Se questo è amore" (ed. Paoline).L’impulsività è tipica dei ragazzi, ma come si arriva ad eccessi tanto violenti?Non esiste disagio adolescenziale senza una responsabilità da parte di noi adulti. Abbiamo sottratto loro la capacità di decodificare le emozioni, di inserirle in un progetto di vita che preveda un domani e nel quale entri in gioco anche la capacità di portare un dolore...E così qualsiasi sofferenza diventa insormontabile, al punto da uccidersi?Nessuno tempra più i ragazzi, non gli si insegna che la sofferenza si può sopportare e addirittura può dare un senso alla vita, può essere preziosa per crescere. E d’altra parte i cattivi maestri, tra gli adulti, sono un po’ ovunque e danno l’esempio.A chi si riferisce?A una cultura dilagante. Vorrei precisare che non conosco queste due povere famiglie e certo non addosso a loro alcuna responsabilità: è la società intera che inganna gli adolescenti. Oggi gli adulti sono i primi a comportarsi da adolescenti, si lasciano travolgere dal presente davanti ai figli, fanno vedere che ogni passione nel momento in cui la provi è totalizzante e padrona di noi, del nostro agire, e non c’è freno razionale che tenga. Lo si predica in tivù, nei salotti che contano, e i ragazzi sono continuamente chiamati a dare le dimissioni dalla vita. Non gli si insegna l’onore, la responsabilità, la parola data, il fare della propria vita una sfida preziosa, tutte cose che i giovani avrebbero in sé, poiché detestano la mediocrità e amano i sogni...Troppa protezione e poca palestra di vita, insomma.Oggi l’ossessione degli adulti è evitare qualsiasi croce per i figli. Io da venti anni tengo corsi per centinaia di adolescenti e li porto in montagna: fa parte della mia pedagogia. Al mattino, prima dell’escursione, è normale per chiunque sentire l’ansia del salire e perciò lamentare un dolorino chiedendo di restare a valle. In realtà poi, salendo con il gruppo, l’ostacolo si supera: si chiama "la forza della cordata" ed è educativa. Ma da qualche anno assisto a padri e madri che quel mattino mi chiamano, da casa loro, per raccontarmi che il figlio ha male a un ginocchio e non salirà. Così si perde un’esperienza fondamentale: scoprire che in sé esistono le forze per superare l’ostacolo, stringendo i denti, guardando la meta da lontano.Una meta dura, che può essere l’amore, o il successo scolastico...Esattamente. Quante volte arriva giugno e sentiamo di ragazzini che si impiccano per una banale bocciatura? E le pare possibile che ogni anno dobbiamo sopportare che il ministro dell’Istruzione di turno vada al tg con schiere di psicologi a spiegare ai ragazzi che l’esame di maturità non è una tragedia? No, non è colpa dell’adolescente, che non voglia faticare o soffrire è normale, ma non c’è più l’adulto, la sponda contro cui possa andare a frangersi la marea di ansia giovanile. Manca qualcuno che gli dica chiaro dov’è la verità con la quale fare i conti, anche per rifiutarla.
Anna Oliverio Ferraris«Dobbiamo ricondurre l’impulso a un ragionamento razionale»Adolescenti, ovvero impulsivi: in un istante decidono e mettono in atto. E a spingerli verso l’estremo può bastare quello che all’occhio adulto sembra un nonnulla, ma che per loro significa tragedia: «Una delusione da parte degli amici o della persona amata, una brutta figura di fronte al mondo, che poi magari è solo un brutto voto preso a scuola. Ma sempre più spesso emerge anche una depressione giovanile, legata magari alla situazione familiare che genera infelicità...». C’è un po’ di tutto nell’analisi proposta da Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dell’età evolutiva alla Sapienza di Roma e autrice di un recente libro dedicato ai suicidi adolescenziali ("Chiamarsi fuori", ed. Giunti), quasi un riassunto delle due vicende avvenute ieri.Due casi molto diversi, comunque.Entrambi hanno scelto una morte plateale, ma poi ogni storia è sempre a sé. Il ragazzino di Potenza, pare deluso per un amore finito, si è ucciso per rimanere sempre nella memoria della sua ragazzina: come a dirle tu mi volevi scordare e io entrerò per sempre nella tua memoria. Inoltre era stato adottato e questo potrebbe comportare nel suo passato fratture antiche con una figura di riferimento... ma va detto che certo non tutti i figli adottivi reagiscono così. Certo è che in entrambi i casi di ieri si vede la propensione a vivere le difficoltà della vita come drammi insostenibili.È un atteggiamento tipico degli adolescenti, un aspetto fondamentale della loro impulsività: a questa età si decide tutto in tempi brevi e un qualsiasi fatto negativo riempie il loro orizzonte attuale, non si vede altro. A una ragazzina fragile può bastare il considerarsi bruttina in un mondo che valorizza l’aspetto estetico, per sentirsi infelice... Per questo bisognerebbe che ci fosse sempre una persona adulta pronta a mostrare loro l’altra faccia della medaglia, che riconduca l’impulsività a un ragionamento razionale. Che insomma dia loro la forza per superare il disagio.Ma come può essere che un ragazzino non abbia la forza per dimenticare un amore perduto o la vergogna della bocciatura, ma poi trovi il coraggio per gettarsi sotto il metrò o darsi fuoco?Sono adolescenti che non hanno la percezione del dolore cui andranno incontro, si buttano sotto il treno che arriva senza pensare all’impatto. Vivono davvero solo l’istante presente, agiscono d’impulso, infatti di solito non premeditano. La ragazzina di Milano ha agito così...Non il ragazzo di Potenza, però.Il suo invece è un gesto certamente preparato, ha persino scelto lo scenario al centro del quale urlare la sua autoaffermazione.Secondo la sua inchiesta, c’è qualche differenza tra ragazzi e ragazze che arrivano a scelte estreme?I ragazzi riescono più spesso a morire, le ragazze frequentemente si fermano al tentativo di suicidio ma sopravvivono: agiscono con meno determinazione perché non cercano di morire, la loro è invece una richiesta di aiuto, comunicano che stanno male. Non è però il caso della adolescente milanese: lei ha scelto un metodo "maschile", drastico, era determinata...<+nero>C’è una recrudescenza di questi casi?<+tondo>In Italia minima, non significativa. D’altronde si sa che l’adolescenza è una fase critica. Poi, verso i vent’anni, l’impulsività cala anche per motivi fisiologici: prima di quell’età la corteccia prefrontale nel cervello, quella che appunto regola questo agire improvviso, non è ancora del tutto mielinizzata. Si capisce bene, allora, quanto sia fondamentale la vicinanza di un adulto che nel momento critico, del dolore, sappia ragionare con e per loro.
venerdì 22 maggio 2009
PERCHE' LA SCIENZA NACQUE CRISTIANA
Perché la scienza nacque cristiana (e non nella Mezzaluna)
I Paesi musulmani più importanti stanno ormai da decenni attuando uno sforzo concertato per portarsi in pari con la tecnologia e la scienza occidentale, e non a caso niente sta più a cuore ad Israele del mantenimento di una superiorità scientifica e tecnologica insormontabile rispetto ad ogni e qualsiasi paese musulmano. Ma i musulmani non possono ignorare che né la scienza né la tecnologia (di cui hanno un grande bisogno per sfruttare le loro vaste risorse petrolifere) sono state prodotte dai musulmani, anche se questo fatto non causa grande imbarazzo al tipico intellettuale musulmano, il quale preferisce sottolineare l’abuso della scienza fatto dagli occidentali, attraverso il suo utilizzo come strumento di colonizzazione e dominazione economica. Da questo punto di vista la reazione degli indù moderni è molto diversa. Alcuni fra loro, Nehru ne fu un esempio, hanno cercato di trovare le ragioni per cui la scienza non è nata nella loro terra. Costoro non trovano niente di meglio (e in questo sono simili ai cinesi da due generazioni sotto l’indottrinamento marxista) dell’affermare che un’alba democratica fu seguita da un sistema feudale di produzione. Sia gli Indù che i cinesi dovrebbero leggere attentamente i loro antichi testi, sia sacri che filosofici, per rendersi conto della vacuità di simili scuse. Tutti quegli scritti testimoniano una visione del mondo panteista e organicista dove tutto si ripeteva ciclicamente ed era guidato da strane volizioni. Lo stesso era il caso per gli antichi Egizi e Babilonesi e perfino per gli antichi greci. Quanti hanno per passatempo l’immaginare diversi corsi della storia dovrebbero considerare uno scenario che comincia con un Copernico indù o un Newton cinese. Tali scenari ed altri simili si possono ipotizzare per tutte le culture dell’antichità, ma specialmente per quella indù e cinese, le sole a sopravvivere nei tempi moderni come potenze politiche di prima grandezza. Il caso della civiltà musulmana è diverso, in parte perché, in confronto con le altre culture citate è un po’ una nuova venuta sul palcoscenico della storia.È inoltre importante, notare il fatto che c’è nel Corano una cosmologia che, anche se parzialmente animista, non è certamente ciclica. Il Corano è totalmente allineato con la visione biblica del cosmo come qualcosa che è iniziato con la creazione di tutto, e che sta procedendo in linea retta verso una consumazione assoluta, la cui venuta niente può fermare. Come la visione del mondo biblica, la visione del mondo musulmana ha la sua migliore rappresentazione in una freccia, così diversa da un cerchio, per non parlare della svastica, questo simbolo classico della visione ciclica del mondo nella maggior parte delle culture antiche. Una freccia rappresenta un processo lineare rettilineo che non devia dal suo corso. Ora se si afferma che un siffatto modello cosmologico ha favorito il sorgere della scienza nell’Occidente cristiano, allora sorge la domanda: perché i musulmani non ci sono arrivati prima di quell’Occidente? […] Questo non vuol dire che nessun musulmano abbia mai fatto esperimenti. Fecero esperi- menti in medicina, specialmente nell’oftalmologia. I mercanti arabi scoprirono presto i vantaggi del sistema decimale indù, che l’Occidente apprese attraverso canali arabi. I musulmani coltivarono avidamente l’astronomia tolemaica, il che implicava una buona conoscenza di forme avanzate della geometria euclidea. L’utilizzo degli epicicli, comunque, non permetteva di spingersi oltre una certa precisione nel rilevamento del moto dei pianeti. Naturalmente, per quanto riguarda l’astrologia, che era basata sulla predizione delle posizioni dei pianeti, la precisione della astronomia tolemaica era più che sufficiente.Ma per poter ottenere il controllo delle cose in moto sulla Terra, quell’astronomia non era di molto aiuto. Una scienza genuina delle leggi del moto era necessaria e qui gli studiosi musulmani fallirono nonostante fossero molto vicini alla meta. Per capire questo si deve sapere che la scienza del movimento è quella che si può costruire sulle tre leggi del moto che si trovano per la prima volta insieme nei Principia di Newton. Ma la prima e più importante di esse, la legge dell’inerzia, fu formulata secoli prima di Newton. Anche la formulazione di un’altra legge, per cui ad ogni azione corrisponde una reazione, precede Newton di circa 60 anni, essendo stata formulata per la prima volta da Cartesio. Cartesio ancora sospettava che la legge del moto inerziale avesse origini medioevali, ma non diede credito a nessuno. Newton stesso non era incline a dar credito di qualcosa a Cartesio, il cui nome egli cancellò dai suoi manoscritti. Newton non sapeva quasi nulla dei medievali, salvo che avevano costruito delle magnifiche cattedrali. Si sarebbe stupito moltissimo nell’apprendere che i medievali avevano costruito anche le fondamenta della sua fisica. Perché la legge della forza, formulata da Newton, è inconcepibile senza la legge del moto inerziale. Newton sarebbe stato altrettanto stupito se avesse saputo che era stato un famoso musulmano medievale, Avicenna, a concepire per primo la legge di inerzia, ma senza percepirne l’importanza, come se avesse indossato dei paraocchi. I suoi paraocchi erano le leggi fondamentali della cosmologia aristotelica che Avicenna, essendo un panteista in fondo al cuore ed un musulmano solo in apparenza, accettava completamente. Secondo il panteismo aristotelico l’universo era divinamente perfetto, quindi sferico e in un movimento circolare perenne. Siccome un cerchio non contiene un punto diverso dagli altri, un movimento circolare non evoca un punto di partenza assoluto. Imprigionato da questa visione del mondo Avicenna non poté trovare in essa un invito ad applicarvi la sua idea di moto inerziale. Fu così che il mondo musulmano perse la sua occasione d’oro di arrivare per primo a formulare una fisica che gli avrebbe permesso il controllo del mondo fisico.
Stanley L. Jaki
I Paesi musulmani più importanti stanno ormai da decenni attuando uno sforzo concertato per portarsi in pari con la tecnologia e la scienza occidentale, e non a caso niente sta più a cuore ad Israele del mantenimento di una superiorità scientifica e tecnologica insormontabile rispetto ad ogni e qualsiasi paese musulmano. Ma i musulmani non possono ignorare che né la scienza né la tecnologia (di cui hanno un grande bisogno per sfruttare le loro vaste risorse petrolifere) sono state prodotte dai musulmani, anche se questo fatto non causa grande imbarazzo al tipico intellettuale musulmano, il quale preferisce sottolineare l’abuso della scienza fatto dagli occidentali, attraverso il suo utilizzo come strumento di colonizzazione e dominazione economica. Da questo punto di vista la reazione degli indù moderni è molto diversa. Alcuni fra loro, Nehru ne fu un esempio, hanno cercato di trovare le ragioni per cui la scienza non è nata nella loro terra. Costoro non trovano niente di meglio (e in questo sono simili ai cinesi da due generazioni sotto l’indottrinamento marxista) dell’affermare che un’alba democratica fu seguita da un sistema feudale di produzione. Sia gli Indù che i cinesi dovrebbero leggere attentamente i loro antichi testi, sia sacri che filosofici, per rendersi conto della vacuità di simili scuse. Tutti quegli scritti testimoniano una visione del mondo panteista e organicista dove tutto si ripeteva ciclicamente ed era guidato da strane volizioni. Lo stesso era il caso per gli antichi Egizi e Babilonesi e perfino per gli antichi greci. Quanti hanno per passatempo l’immaginare diversi corsi della storia dovrebbero considerare uno scenario che comincia con un Copernico indù o un Newton cinese. Tali scenari ed altri simili si possono ipotizzare per tutte le culture dell’antichità, ma specialmente per quella indù e cinese, le sole a sopravvivere nei tempi moderni come potenze politiche di prima grandezza. Il caso della civiltà musulmana è diverso, in parte perché, in confronto con le altre culture citate è un po’ una nuova venuta sul palcoscenico della storia.È inoltre importante, notare il fatto che c’è nel Corano una cosmologia che, anche se parzialmente animista, non è certamente ciclica. Il Corano è totalmente allineato con la visione biblica del cosmo come qualcosa che è iniziato con la creazione di tutto, e che sta procedendo in linea retta verso una consumazione assoluta, la cui venuta niente può fermare. Come la visione del mondo biblica, la visione del mondo musulmana ha la sua migliore rappresentazione in una freccia, così diversa da un cerchio, per non parlare della svastica, questo simbolo classico della visione ciclica del mondo nella maggior parte delle culture antiche. Una freccia rappresenta un processo lineare rettilineo che non devia dal suo corso. Ora se si afferma che un siffatto modello cosmologico ha favorito il sorgere della scienza nell’Occidente cristiano, allora sorge la domanda: perché i musulmani non ci sono arrivati prima di quell’Occidente? […] Questo non vuol dire che nessun musulmano abbia mai fatto esperimenti. Fecero esperi- menti in medicina, specialmente nell’oftalmologia. I mercanti arabi scoprirono presto i vantaggi del sistema decimale indù, che l’Occidente apprese attraverso canali arabi. I musulmani coltivarono avidamente l’astronomia tolemaica, il che implicava una buona conoscenza di forme avanzate della geometria euclidea. L’utilizzo degli epicicli, comunque, non permetteva di spingersi oltre una certa precisione nel rilevamento del moto dei pianeti. Naturalmente, per quanto riguarda l’astrologia, che era basata sulla predizione delle posizioni dei pianeti, la precisione della astronomia tolemaica era più che sufficiente.Ma per poter ottenere il controllo delle cose in moto sulla Terra, quell’astronomia non era di molto aiuto. Una scienza genuina delle leggi del moto era necessaria e qui gli studiosi musulmani fallirono nonostante fossero molto vicini alla meta. Per capire questo si deve sapere che la scienza del movimento è quella che si può costruire sulle tre leggi del moto che si trovano per la prima volta insieme nei Principia di Newton. Ma la prima e più importante di esse, la legge dell’inerzia, fu formulata secoli prima di Newton. Anche la formulazione di un’altra legge, per cui ad ogni azione corrisponde una reazione, precede Newton di circa 60 anni, essendo stata formulata per la prima volta da Cartesio. Cartesio ancora sospettava che la legge del moto inerziale avesse origini medioevali, ma non diede credito a nessuno. Newton stesso non era incline a dar credito di qualcosa a Cartesio, il cui nome egli cancellò dai suoi manoscritti. Newton non sapeva quasi nulla dei medievali, salvo che avevano costruito delle magnifiche cattedrali. Si sarebbe stupito moltissimo nell’apprendere che i medievali avevano costruito anche le fondamenta della sua fisica. Perché la legge della forza, formulata da Newton, è inconcepibile senza la legge del moto inerziale. Newton sarebbe stato altrettanto stupito se avesse saputo che era stato un famoso musulmano medievale, Avicenna, a concepire per primo la legge di inerzia, ma senza percepirne l’importanza, come se avesse indossato dei paraocchi. I suoi paraocchi erano le leggi fondamentali della cosmologia aristotelica che Avicenna, essendo un panteista in fondo al cuore ed un musulmano solo in apparenza, accettava completamente. Secondo il panteismo aristotelico l’universo era divinamente perfetto, quindi sferico e in un movimento circolare perenne. Siccome un cerchio non contiene un punto diverso dagli altri, un movimento circolare non evoca un punto di partenza assoluto. Imprigionato da questa visione del mondo Avicenna non poté trovare in essa un invito ad applicarvi la sua idea di moto inerziale. Fu così che il mondo musulmano perse la sua occasione d’oro di arrivare per primo a formulare una fisica che gli avrebbe permesso il controllo del mondo fisico.
Stanley L. Jaki
PLATONE ERA IL TEORICO DEL TOTALITARISMO NON DEL LIBERISMO
Macché illuminista, Platone era totalitario
I due volumi de La società aperta e i suoi nemici apparvero il primo nel dicembre del 1973 e il secondo nel gennaio del 1974. E quella dell’accoglienza da parte dell’intellighenzia italiana dell’opera politica di Popper è un’altra triste storia. L’opera non venne criticata su di un punto o su un altro e con argomentazioni di tipo scientifico; essa, sostanzialmente, venne o ignorata ovvero, il più delle volte, coperta di insulti: cosa poteva mai insegnare ai tanti possessori di modelli di società perfetta, di verità incontrovertibili e di ineluttabili sensi della storia un «reazionario» come Popper, un «maccartista», difensore delle società capitalistiche occidentali?Al «Platone totalitario» di Popper sono contrari anche noti antichisti italiani come Margherita Isnardi Parente, Giovanni Reale e Mario Vegetti, che è tornato sul tema venerdì scorso su La Repubblica, presentando il suo nuovo volume Un paradigma in cielo (Carocci). A partire da Aristotele sino ai nostri giorni, precisa Vegetti, la tradizione del pensiero liberale ha con grande decisione respinto il progetto politico di Platone. Fa presente Vegetti che «Popper vedeva in Platone il primato assoluto dello Stato sull’individuo, e, all’interno dello Stato stesso, la consegna di un potere assoluto a una minoranza che si proclamava depositaria di un sapere assoluto, i cui metodi e i cui fondamenti non potevano però venir resi pubblicamente espliciti: che cosa ci può garantire, diceva Popper, che questa minoranza (di filosofi in Platone, ma magari anche di dirigenti di partiti quali quello giacobino, comunista o nazista) non eserciti di fatto una dittatura sottratta a ogni controllo democratico?».Di fronte ad attacchi del genere, prosegue Vegetti, i difensori di Platone si sono divisi in due gruppi. Da una parte si trovano coloro che, da posizioni liberal-democratiche, hanno sostenuto che il progetto utopico proposto da Platone nella Repubblica non deve venire preso alla lettera. Diversamente dai simpatizzanti di posizioni liberal-democratiche, «i simpatizzanti del pensiero socialista e comunista, come Pohlmann, hanno visto in Platone uno dei precursori di questa tradizione. Non sono mancati, infine, negli anni Venti e Trenta del nostro secolo, usi di Platone in senso fascista e nazista: essi apprezzavano il primato che Platone indubbiamente assegna allo Stato, rispetto ai cui interessi le libertà e i diritti individuali vengono in secondo piano». Ebbene, quel che va sottolineato è che, ad avviso di Vegetti, «Platone ritiene che la costruzione della società descritta nella Repubblica è difficile ma non impossibile. Si tratta dunque di un "mondo possibile" che deve venire progettato, desiderato e, se le circostanza sono favorevoli, costruito; di un dovere etico-politico». Ora, però – viene da chiedere a Vegetti – se il progetto politico di Platone non è un gioco intellettuale, un sogno, un castello sulle nuvole, ma è il tentativo di trasformare in mondo reale un mondo ideato e guidato da una pattuglia di filosofi che sanno che cosa è il Bene e che, di conseguenza, saranno divorati dallo zelo – dal diritto e dovere – di imporre questo Bene a ogni costo, attraverso quali argomenti un simile progetto potrà distinguersi da una concezione totalitaria del potere politico?«Platone fu il giuda di Socrate e la Repubblica fu per lui non soltanto Il capitale, ma anche il suo Mein Kampf» – così Gilbert Ryle sintetizzò nel 1948 su "Mind" l’intepretazione popperiana di Platone. Nel 1951 uno studioso di Platone come Richard Robinson scrisse: «Popper sostiene che Platone ha pervertito l’insegnamento di Socrate. Platone, ad avviso di Popper, è in politica una forza perniciosissima, mentre Socrate è una forza estremamente benefica». Ancora nel 1959 Popper afferma: «La mia opinione che Platone sia stato il più grande di tutti i filosofi non è per nulla mutata. Ma i grandi uomini possono commettere grandi errori»; il grande errore di Platone fu che egli incoraggiò «il perenne attacco contro la libertà e la ragione».Un altro durissimo e ben argomentato – sebbene meno noto – attacco contro Platone l’aveva formulato nel 1937 Alfred Hoernlé. La pretesa dei dittatori del suo tempo, ad avviso di Hoernlé, era proprio quella di essere dei filosofi-re: «Uomini con una Weltanschauung, con un piano per la salvezza spirituale dei loro popoli, con una esplicita teoria su quel che è bene per i loro popoli, addirittura per l’umanità tutta; uomini che giustificano per se stessi un uso brutale della forza, la spietatezza nel plasmare i soggetti secondo lo standard dei loro ideali e nello schiacciare qualsiasi opposizione, e questo esattamente in vista del bene che essi cercano di realizzare, non a beneficio personale, quanto piuttosto a beneficio dei popoli che loro governano». I filosofi-re di Platone, prosegue Hoernlé, governano con un’autorità assoluta: «Essi non consultano il popolo; non vengono eletti dal popolo; non possono venir rimossi dal popolo; non sono, tanto per usare il linguaggio delle democrazie parlamentari, "responsabili" davanti al popolo. Son un corpo che si autoperpetua reclutando i propri membri tramite cooptazione tra più giovani uomini e donne la cui educazione è stata da loro controllata per circa trent’anni; uomini e donne che loro hanno plasmato e messi a prova, più duramente di quanto il ferro sia provato sul fuoco, come dice lo stesso Platone». Ebbene, conclude Hoernlé, «i filosofi-re e i loro ausiliari (le due classi più alte nello Stato di Platone) sono sostanzialmente l’analogo del dittatore moderno e del fedele, disciplinato Partei (sia il partito comunista in Russia, il partito fascista in Italia, o il partito nazionalsocialista in Germania), per mezzo del quale il dittatore domina».
Dario Antiseri
I due volumi de La società aperta e i suoi nemici apparvero il primo nel dicembre del 1973 e il secondo nel gennaio del 1974. E quella dell’accoglienza da parte dell’intellighenzia italiana dell’opera politica di Popper è un’altra triste storia. L’opera non venne criticata su di un punto o su un altro e con argomentazioni di tipo scientifico; essa, sostanzialmente, venne o ignorata ovvero, il più delle volte, coperta di insulti: cosa poteva mai insegnare ai tanti possessori di modelli di società perfetta, di verità incontrovertibili e di ineluttabili sensi della storia un «reazionario» come Popper, un «maccartista», difensore delle società capitalistiche occidentali?Al «Platone totalitario» di Popper sono contrari anche noti antichisti italiani come Margherita Isnardi Parente, Giovanni Reale e Mario Vegetti, che è tornato sul tema venerdì scorso su La Repubblica, presentando il suo nuovo volume Un paradigma in cielo (Carocci). A partire da Aristotele sino ai nostri giorni, precisa Vegetti, la tradizione del pensiero liberale ha con grande decisione respinto il progetto politico di Platone. Fa presente Vegetti che «Popper vedeva in Platone il primato assoluto dello Stato sull’individuo, e, all’interno dello Stato stesso, la consegna di un potere assoluto a una minoranza che si proclamava depositaria di un sapere assoluto, i cui metodi e i cui fondamenti non potevano però venir resi pubblicamente espliciti: che cosa ci può garantire, diceva Popper, che questa minoranza (di filosofi in Platone, ma magari anche di dirigenti di partiti quali quello giacobino, comunista o nazista) non eserciti di fatto una dittatura sottratta a ogni controllo democratico?».Di fronte ad attacchi del genere, prosegue Vegetti, i difensori di Platone si sono divisi in due gruppi. Da una parte si trovano coloro che, da posizioni liberal-democratiche, hanno sostenuto che il progetto utopico proposto da Platone nella Repubblica non deve venire preso alla lettera. Diversamente dai simpatizzanti di posizioni liberal-democratiche, «i simpatizzanti del pensiero socialista e comunista, come Pohlmann, hanno visto in Platone uno dei precursori di questa tradizione. Non sono mancati, infine, negli anni Venti e Trenta del nostro secolo, usi di Platone in senso fascista e nazista: essi apprezzavano il primato che Platone indubbiamente assegna allo Stato, rispetto ai cui interessi le libertà e i diritti individuali vengono in secondo piano». Ebbene, quel che va sottolineato è che, ad avviso di Vegetti, «Platone ritiene che la costruzione della società descritta nella Repubblica è difficile ma non impossibile. Si tratta dunque di un "mondo possibile" che deve venire progettato, desiderato e, se le circostanza sono favorevoli, costruito; di un dovere etico-politico». Ora, però – viene da chiedere a Vegetti – se il progetto politico di Platone non è un gioco intellettuale, un sogno, un castello sulle nuvole, ma è il tentativo di trasformare in mondo reale un mondo ideato e guidato da una pattuglia di filosofi che sanno che cosa è il Bene e che, di conseguenza, saranno divorati dallo zelo – dal diritto e dovere – di imporre questo Bene a ogni costo, attraverso quali argomenti un simile progetto potrà distinguersi da una concezione totalitaria del potere politico?«Platone fu il giuda di Socrate e la Repubblica fu per lui non soltanto Il capitale, ma anche il suo Mein Kampf» – così Gilbert Ryle sintetizzò nel 1948 su "Mind" l’intepretazione popperiana di Platone. Nel 1951 uno studioso di Platone come Richard Robinson scrisse: «Popper sostiene che Platone ha pervertito l’insegnamento di Socrate. Platone, ad avviso di Popper, è in politica una forza perniciosissima, mentre Socrate è una forza estremamente benefica». Ancora nel 1959 Popper afferma: «La mia opinione che Platone sia stato il più grande di tutti i filosofi non è per nulla mutata. Ma i grandi uomini possono commettere grandi errori»; il grande errore di Platone fu che egli incoraggiò «il perenne attacco contro la libertà e la ragione».Un altro durissimo e ben argomentato – sebbene meno noto – attacco contro Platone l’aveva formulato nel 1937 Alfred Hoernlé. La pretesa dei dittatori del suo tempo, ad avviso di Hoernlé, era proprio quella di essere dei filosofi-re: «Uomini con una Weltanschauung, con un piano per la salvezza spirituale dei loro popoli, con una esplicita teoria su quel che è bene per i loro popoli, addirittura per l’umanità tutta; uomini che giustificano per se stessi un uso brutale della forza, la spietatezza nel plasmare i soggetti secondo lo standard dei loro ideali e nello schiacciare qualsiasi opposizione, e questo esattamente in vista del bene che essi cercano di realizzare, non a beneficio personale, quanto piuttosto a beneficio dei popoli che loro governano». I filosofi-re di Platone, prosegue Hoernlé, governano con un’autorità assoluta: «Essi non consultano il popolo; non vengono eletti dal popolo; non possono venir rimossi dal popolo; non sono, tanto per usare il linguaggio delle democrazie parlamentari, "responsabili" davanti al popolo. Son un corpo che si autoperpetua reclutando i propri membri tramite cooptazione tra più giovani uomini e donne la cui educazione è stata da loro controllata per circa trent’anni; uomini e donne che loro hanno plasmato e messi a prova, più duramente di quanto il ferro sia provato sul fuoco, come dice lo stesso Platone». Ebbene, conclude Hoernlé, «i filosofi-re e i loro ausiliari (le due classi più alte nello Stato di Platone) sono sostanzialmente l’analogo del dittatore moderno e del fedele, disciplinato Partei (sia il partito comunista in Russia, il partito fascista in Italia, o il partito nazionalsocialista in Germania), per mezzo del quale il dittatore domina».
Dario Antiseri
martedì 5 maggio 2009
FINALMENTE PADRONI A CASA LORO!
Scattata in Brasile l'esecuzione di una sentenza che difende le terre degli Indios
Per la prima volta sono i latifondisti a essere cacciati dall'Amazzonia
Tensione per l'allontanamento forzato dei grandi coltivatori. Il governatore: «Diventerà uno zoo umano»
NOTIZIE CORRELATE
La scheda sui popoli indigeni che abitano nella zona di Raposa-Serra do Sol
VIDEO: Uno degli assalti nella riserva da parte dei mercenari al soldo dei coltivatori
La strage dei popoli indigeni non si è mai fermata
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Un gruppo di Makuxi (F. Watson/Survival)Prima di lasciare le loro proprietà bruciano tutto, per non lasciare niente agli Indios. L'ultimo a farlo è stato Paulo Cesar Quartiero. Per la prima volta a essere cacciati dalla loro terra, nell'Amazzonia brasiliana, non saranno gli indigeni: sono loro ad avere vinto, per la prima volta, una battaglia legale che riconosce i loro diritti e vieta ai latifondisti di frazionare un'altra fetta di foresta. A dover fare le valige, con le buone o con le cattive, sono i bianchi. Scaduta la data limite di 45 giorni per il ritiro volontario dei non-indios, la polizia federale brasiliana ha infatti cominciato le operazioni di espulsione dei grandi coltivatori di riso (arrozeiros), dei latifondisti e dei contadini che ancora occupano abusivamente la terra indigena Raposa/Serra do Sol, nello stato amazzonico settentrionale di Roraima.
LA RESISTENZA DEI LATIFONDISTI - Il capo degli "arrozeiros", Paulo Cesar Quartiero, accusato di molteplici episodi di violenza contro i nativi locali e di danni all’ambiente, ha resistito quasi 12 ore allo sgombero opponendosi a una pattuglia di 25 agenti. La sua Fazenda Providencia, riferiscono i giornali brasiliani, è stata assegnata dal "tuxaua" (capo indigeno) Avelino Pereira della comunità di Santa Rita a dieci famiglie di nativi che vivranno di agricoltura. Le autorità locali stimano che il ritiro forzato degli occupanti da Raposa si protrarrà, tra le tensioni, almeno per due settimane.
LA DECISIONE DELLA CORTE - Con una decisione che avrà ripercussioni anche sulle terre indigene ancora da demarcare, il Supremo tribunale federale brasiliano si era pronunciato a metà marzo per l’allontanamento dei bianchi confermando l’omologazione in area continua e senza frazionamenti di Raposa, 1,7 milioni di ettari abitati da 17.000 indigeni Macuxi, Wapixana, Ingariko, Patamona e Taurepang, già firmata dal presidente Lula nel 2005 a conclusione di un iter legale durato quasi 30 anni.
IL GOVERNATORE: «DIVENTERA' UNO ZOO UMANO» - A peggiorare le cose è intervenuto anche il governatore di Roraima, José de Anchieta Júnior, da sempre contrario ai diritti degli Indios. Nelle dichiarazioni al quotidiano "Globo" non ha certo nascosto il suo disappunto per la decisione della Corte suprema: « Non pretendo nè voglio discutere oltre. Ne abbiamo già parlato a fondo. La riserva indigena di Roraima si trasformerà in un autentico zoo umano. Senza contatto con i Bianchi, quelli che vedremo vivere là saranno animali umani».
NUOVE INSIDIE PER GLI INDIOS - Nella sentenza ci sono comunque alcune clausole che potrebbero avere gravi conseguenze per gli Indiani in tutto il Brasile. I giudici della Corte Suprema hanno infatti stabilito che i governi federali dello stato brasiliano – alcuni dei quali notoriamente anti-
Un indios di Raposa durante la visita al Papa a Roma Indiani – dovrebbero essere coinvolti in modo più attivo nei processi di demarcazione dei territori indigeni. La loro partecipazione potrebbe rendere le demarcazioni più lente e difficoltose. La sentenza sancisce anche che i popoli indigeni non debbano essere consultati su progetti di sviluppo che, pur riguardando le loro terre, vengano dichiarati “di interesse nazionale”. I giudici hanno anche stabilito che i territori indigeni che sono già stati demarcati (e mappati) non devono essere ampliati. Questo preoccupa in modo particolare tribù come i Guarani, a cui sono state riconosciute legalmente solo piccole aree di terra prima della costituzione del 1988 che garantisce i loro “diritti originali” sulle terre ancestrali. Ana Paula Souto Maior, avvocato della ONG brasiliana ISA (Istituto Socio Ambientale), ha commentato: «Alcune di queste condizioni sono allarmanti e non resta che vedere che tipo di impatto potranno avere sui numerosi territori che ancora aspettano di essere demarcati o ampliati».
Stefano Rodi 05 maggio 2009
DAL CORRIERE DELLA SERA
Per la prima volta sono i latifondisti a essere cacciati dall'Amazzonia
Tensione per l'allontanamento forzato dei grandi coltivatori. Il governatore: «Diventerà uno zoo umano»
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Un gruppo di Makuxi (F. Watson/Survival)Prima di lasciare le loro proprietà bruciano tutto, per non lasciare niente agli Indios. L'ultimo a farlo è stato Paulo Cesar Quartiero. Per la prima volta a essere cacciati dalla loro terra, nell'Amazzonia brasiliana, non saranno gli indigeni: sono loro ad avere vinto, per la prima volta, una battaglia legale che riconosce i loro diritti e vieta ai latifondisti di frazionare un'altra fetta di foresta. A dover fare le valige, con le buone o con le cattive, sono i bianchi. Scaduta la data limite di 45 giorni per il ritiro volontario dei non-indios, la polizia federale brasiliana ha infatti cominciato le operazioni di espulsione dei grandi coltivatori di riso (arrozeiros), dei latifondisti e dei contadini che ancora occupano abusivamente la terra indigena Raposa/Serra do Sol, nello stato amazzonico settentrionale di Roraima.
LA RESISTENZA DEI LATIFONDISTI - Il capo degli "arrozeiros", Paulo Cesar Quartiero, accusato di molteplici episodi di violenza contro i nativi locali e di danni all’ambiente, ha resistito quasi 12 ore allo sgombero opponendosi a una pattuglia di 25 agenti. La sua Fazenda Providencia, riferiscono i giornali brasiliani, è stata assegnata dal "tuxaua" (capo indigeno) Avelino Pereira della comunità di Santa Rita a dieci famiglie di nativi che vivranno di agricoltura. Le autorità locali stimano che il ritiro forzato degli occupanti da Raposa si protrarrà, tra le tensioni, almeno per due settimane.
LA DECISIONE DELLA CORTE - Con una decisione che avrà ripercussioni anche sulle terre indigene ancora da demarcare, il Supremo tribunale federale brasiliano si era pronunciato a metà marzo per l’allontanamento dei bianchi confermando l’omologazione in area continua e senza frazionamenti di Raposa, 1,7 milioni di ettari abitati da 17.000 indigeni Macuxi, Wapixana, Ingariko, Patamona e Taurepang, già firmata dal presidente Lula nel 2005 a conclusione di un iter legale durato quasi 30 anni.
IL GOVERNATORE: «DIVENTERA' UNO ZOO UMANO» - A peggiorare le cose è intervenuto anche il governatore di Roraima, José de Anchieta Júnior, da sempre contrario ai diritti degli Indios. Nelle dichiarazioni al quotidiano "Globo" non ha certo nascosto il suo disappunto per la decisione della Corte suprema: « Non pretendo nè voglio discutere oltre. Ne abbiamo già parlato a fondo. La riserva indigena di Roraima si trasformerà in un autentico zoo umano. Senza contatto con i Bianchi, quelli che vedremo vivere là saranno animali umani».
NUOVE INSIDIE PER GLI INDIOS - Nella sentenza ci sono comunque alcune clausole che potrebbero avere gravi conseguenze per gli Indiani in tutto il Brasile. I giudici della Corte Suprema hanno infatti stabilito che i governi federali dello stato brasiliano – alcuni dei quali notoriamente anti-
Un indios di Raposa durante la visita al Papa a Roma Indiani – dovrebbero essere coinvolti in modo più attivo nei processi di demarcazione dei territori indigeni. La loro partecipazione potrebbe rendere le demarcazioni più lente e difficoltose. La sentenza sancisce anche che i popoli indigeni non debbano essere consultati su progetti di sviluppo che, pur riguardando le loro terre, vengano dichiarati “di interesse nazionale”. I giudici hanno anche stabilito che i territori indigeni che sono già stati demarcati (e mappati) non devono essere ampliati. Questo preoccupa in modo particolare tribù come i Guarani, a cui sono state riconosciute legalmente solo piccole aree di terra prima della costituzione del 1988 che garantisce i loro “diritti originali” sulle terre ancestrali. Ana Paula Souto Maior, avvocato della ONG brasiliana ISA (Istituto Socio Ambientale), ha commentato: «Alcune di queste condizioni sono allarmanti e non resta che vedere che tipo di impatto potranno avere sui numerosi territori che ancora aspettano di essere demarcati o ampliati».
Stefano Rodi 05 maggio 2009
DAL CORRIERE DELLA SERA
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