Ruanda, la guerra sporca dei media
In una mano il machete, nell’altra una radio a pile. È andata così in Ruanda. Almeno 937 mila persone trucidate nella mattanza dei cento giorni. Con la radio statale a fare da colonna sonora di un genocidio che l’Occidente non voleva vedere. «Senza armi da fuoco, machete o altri oggetti, voi avete provocato la morte di migliaia di civili innocenti». Così l’allora giudice Navanathem Pilay introdusse il verdetto nel processo internazionale ai mass-media ruandesi, per la prima volta nella storia riconosciuti colpevoli di genocidio al pari degli organizzatori e degli esecutori materiali dell’olocausto africano.«Sfruttando i media (soprattutto la radio, in un Paese dove circa 66 per cento della popolazione era analfabeta e viveva nelle zone rurali, in cui nessun altro mezzo d’informazione poteva arrivare facilmente), i responsabili del genocidio poterono rendere la carneficina una cosa di cui parlare senza vergogna». L’osservazione è dello studioso camerunense Fonju Ndemesah Fausta, che ha appena pubblicato in Italia La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio in Ruanda (Infinito edizioni, pp. 144, euro 12). «Servendosi della lingua parlata in tutto il Paese, il Kinyarwanda, e abusando del grande rispetto che i ruandesi avevano per le informazioni date dalle radio importanti, i genocidari – spiega Ndemesah Fausta – produssero un mondo dove il pensiero genocidario era la norma, sia per le vittime che per gli assassini». Nel 1994 il sistema informativo contava l’emittente governativa Radio Rwanda e nove periodici. Unica voce libera erano erano i giornali della Chiesa cattolica, Kinyamateka e Dialogue, diretti dai Padri bianchi. Era dal 1980 che padre Sylvio Sindambiwe, direttore del mensile Kinyamateka, criticava la politica del governo. Seguirono pressioni e minacce. Non tutti nella Chiesa gli stettero a fianco. Il 28 dicembre 1985 Sindambiwe lasciò l’incarico. Due anni dopo morì in un mai chiarito incidente. Le battaglie dei giornalisti cattolici però non si fermarono. Furono proprio i redattori di Kinyamateka a captare per primi le voci dell’odio. «Nell’ottobre 1988 André Sibomana, laureato in giornalismo all’Università Cattolica di Lione, fu nominato direttore. Approfittando della protezione della Chiesa cattolica – ricostruisce Fonju Ndemesah Fausta –, iniziò a criticare aspramente la politica del governo chiedendo più libertà». Poco dopo fu arrestato insieme ad altri tre giornalisti, liberati solo in seguito alle forti pressioni internazionali. Fu allora che nacque il giornale filogovernativo Kangura. Le intenzioni furono chiare da subito: «La voce che cerca di risvegliare e guidare il popolo maggioritario», c’era scritto sotto alla testata. Il «popolo maggioritario » era l’etnia hutu. Nel suo numero dell’inizio di dicembre 1990 Kangura pubblicò «I dieci comandamenti degli hutu». Il primo: «I tutsi hanno sete di sangue e di potere. Vogliono imporre la loro egemonia sulla gente del Rwanda con cannoni e spade». E l’ultimo: «Gli hutu non devono più avere pietà dei tutsi». Quattro anni dopo accadrà davvero. Intanto i seminatori di rancore decisero di compiere il passo decisivo. L’apertura di una radio che parlasse il dialetto locale. Diventerà l’oracolo della distruzione. «I giornalisti della Rtlm – spiega il ricercatore camerunense – sapendo che la maggioranza dei ruandesi era cattolica, caricarono i loro messaggi di simboli della religione cristiana». Parlavano dei tutsi come di «fratelli che non hanno imparato a costruire, che non capiscono altro che la distruzione». E poi citazioni bibliche strumentalizzate per colpire i nemici. Lo sterminio, secondo l’Onu fu «programmato » e accuratamente preparato da un gruppo organizzato di estremisti dell’etnia bantu degli hutu. Il segnale di avvio fu l’attentato del 6 aprile 1994 contro l’aereo su cui viaggiavano l’allora presidente ruandese, Juvenal Habyarimana e il suo omologo burundese Cyprien Ntaryamira. Meno di trenta minuti dopo, e prima ancora che il presidente Habyarimana – considerato dagli estremisti un hutu moderato – fosse morto si scatenarono i massacri. In soli cento giorni furono uccise, secondo le autorità locali, quasi un milione di persone. Le milizie hutu diventarono autentiche macchine da guerra. Perpetrarono in tutto il Paese razzie, stupri e massacri sistematici. La comunità internazionale, traumatizzata dalla disfatta della missione Onu dell’anno precedente in Somalia, assistette senza intervenire. La gran parte della stampa mondiale secondo l’autore de La radio e il machete affrontò la questione adoperando i soliti stereotipi dell’Africa arretrata e barbara. Solo il 16 maggio, per la prima volta sui giornali apparve la parola «genocidio». Non era merito di una intuizione giornalistica. Il giorno prima, mentre i leader delle potenze mondiali facevano a gara per non lasciarsi trascinare in un possibile Vietnam africano, Karol Wojtyla durante il Regina Coeli fu il primo a usare otto parole che cambieranno in tutto il mondo il modo di guardare agli avvenimenti di quei giorni: «Si tratta di un vero e proprio genocidio». Ma questa notizia la radio ruandese non la trasmise mai.
Nello Scavo
venerdì 26 giugno 2009
venerdì 12 giugno 2009
PAPA PIO XII LE BUGIE, HANNO LE GAMBE CORTE
Pio XII, operazione verità
Che ci sia stata cattiva coscienza storica su Pio XII, più va avanti il dibattito più appare evidente; proprio per questo In difesa di Pio XII, l’agile saggio curato da Giovanni Maria Vian sposta la questione: per lo storico è importante adesso spiegare non tanto e non più l’infondatezza del giudizio riservato a questo Pontefice, quanto perché sia nata la leggenda nera che vuole Papa Pacelli nientemeno che il «Papa di Hitler». Il libro, edito da Marsilio, è stato presentato a Roma alla presenza degli autori che hanno offerto il loro contributo e del Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, per il quale è ingiusto « per una cattiva coscienza storica ridurre un Papa della statura di Pio XII, per gli atti che ha compiuto e per la visione complessiva che aveva della Chiesa, in un angolo così ristretto per i suoi presunti silenzi». Per Giovanni Maria Vian, storico e direttore dell’Osservatore Romano, il rovesciamento d’immagine di Papa Pacelli si spiega in due modi: per la sua scelta anticomunista e per la contrapposizione che si crea con il suo successore, Giovanni XXIII, che non fu il Papa di transizione che tutti avevano creduto. «La questione del silenzio del Papa – afferma Vian – è diventata preponderante, spesso tramutandosi in polemica accanita. Così l’interminabile guerra sul suo silenzio ha finito per oscurare l’obiettiva rilevan- za di un pontificato importante, anzi decisivo nel passaggio dall’ultima tragedia bellica mondiale a un’epoca nuova». La cattiva coscienza ha perfino (fatto insolito trattandosi di un elemento così complesso) una data di nascita che corrisponde con la messa in scena di quell’indigesto dramma di Rolf Hochhuth, Der Stellvertreter( «Il Vicario»), che, dopo Berlino, fu messo in scena in mezza Europa. Negli anni Sessanta, però, nasce anche un moda culturale che – dice Roberto Pertici – «tra mille virgolette può chiamarsi progressista. La posta in gioco non era Pio XII – spiega – ma il ruolo della Chiesa nella storia contemporanea, per cui gli equivoci creati dalla cattiva coscienza servivano a mettere in una lista tutto quanto avrebbe favorito il progresso e in un’altra, invece, quello e quelli che l’avrebbero ostacolato». Il gioco è fatto, e i sussurri diventano grida. «Nessuno nota – continua Pertici – che Stalin una sola volta cita gli ebrei e lo sterminio, ma del resto la storiografia occidentale del dopoguerra aveva già preferito dedicarsi ai silenzi del Papa e agli atteggiamenti acquiescenti delle democrazie occidentali ». Paolo Mieli ( coautore con Saul Israel, Andrea Riccardi, Rino Fisichella, Gianfranco Ravasi e Tarcisio Bertone del libro che registra anche giudizi di Benedetto XVI) riprende questo tema nel suo breve saggio: «Prendere per buone le accuse a Pacelli – dice – equivale a trascinare sul banco dei presunti rei, con gli stessi capi di imputazione, Roosevelt e Churchill, accusandoli di non aver pronunciato parole più chiare nei confronti delle persecuzioni antisemite». Mieli vanta sangue ebraico nelle sue vene e si dice colpito direttamente dalla Shoah per i familiari che ha perso nella persecuzione e nello sterminio nazista, ma aggiunge con forte convincimento: «Io non ci sto a mettere i miei morti sul conto di una persona che non ne ha responsabilità ». Lo storico, superata l’emozione, aggiunge: «La Chiesa mise a disposizione degli israeliti tutta se stessa: quasi ogni basilica, ogni chiesa, ogni seminario, ogni convento ospitò e aiuto gli ebrei. Tant’è che a Roma, a fronte dei duemila ebrei deportati, diecimila loro correligionari riuscirono a salvarsi». Come appunto Saul Israel, nato a Salonicco, biologo, medico e scrittore che ottenne la cittadinanza italiana nel 1919 e della quale fu poi privato con le leggi razziali. Israel è morto nel 1981; suo figlio Giorgio ha offerto nel libro un suo inedito: è una lettera scritta nel 1941 quando, con altri ebrei, aveva trovato rifugio nel convento di Sant’Antonio di via Merulana. E così si salvò la vita. È una pagina struggente. «Non fu qualche convento o il gesto di pietà di pochi – dice Giorgio Israel – e nessuno può pensare che tutta questa solidarietà che offrirono le chiese e i conventi avvenisse all’insaputa del Papa o addirittura senza il suo consenso. Quella su Pio XII resta la leggenda più assurda che si sia fatta circolare». Come suo padre, tanti si salvarono proprio per la scelta di Pio XII che – spiega Tarcisio Bertone – «scelse quell’atteggiamento non per paura né per connivenza, ma per un calcolo preciso, finalizzato a salvare la vita del numero maggiore possibile di ebrei». Bertone ha invitato gli storici a studiare tutti i documenti vaticani di quando Eugenio Pacelli fu Segretario di Stato con Pio XI. Aiuterebbero – in attesa di rendere pubblici anche quelli che vanno dal 1939 al 1945 – a capire come e perché può nascere una cattiva coscienza storica. E bene farebbero ad aprire i loro archivi anche tutti gli altri che li posseggono.
Che ci sia stata cattiva coscienza storica su Pio XII, più va avanti il dibattito più appare evidente; proprio per questo In difesa di Pio XII, l’agile saggio curato da Giovanni Maria Vian sposta la questione: per lo storico è importante adesso spiegare non tanto e non più l’infondatezza del giudizio riservato a questo Pontefice, quanto perché sia nata la leggenda nera che vuole Papa Pacelli nientemeno che il «Papa di Hitler». Il libro, edito da Marsilio, è stato presentato a Roma alla presenza degli autori che hanno offerto il loro contributo e del Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, per il quale è ingiusto « per una cattiva coscienza storica ridurre un Papa della statura di Pio XII, per gli atti che ha compiuto e per la visione complessiva che aveva della Chiesa, in un angolo così ristretto per i suoi presunti silenzi». Per Giovanni Maria Vian, storico e direttore dell’Osservatore Romano, il rovesciamento d’immagine di Papa Pacelli si spiega in due modi: per la sua scelta anticomunista e per la contrapposizione che si crea con il suo successore, Giovanni XXIII, che non fu il Papa di transizione che tutti avevano creduto. «La questione del silenzio del Papa – afferma Vian – è diventata preponderante, spesso tramutandosi in polemica accanita. Così l’interminabile guerra sul suo silenzio ha finito per oscurare l’obiettiva rilevan- za di un pontificato importante, anzi decisivo nel passaggio dall’ultima tragedia bellica mondiale a un’epoca nuova». La cattiva coscienza ha perfino (fatto insolito trattandosi di un elemento così complesso) una data di nascita che corrisponde con la messa in scena di quell’indigesto dramma di Rolf Hochhuth, Der Stellvertreter( «Il Vicario»), che, dopo Berlino, fu messo in scena in mezza Europa. Negli anni Sessanta, però, nasce anche un moda culturale che – dice Roberto Pertici – «tra mille virgolette può chiamarsi progressista. La posta in gioco non era Pio XII – spiega – ma il ruolo della Chiesa nella storia contemporanea, per cui gli equivoci creati dalla cattiva coscienza servivano a mettere in una lista tutto quanto avrebbe favorito il progresso e in un’altra, invece, quello e quelli che l’avrebbero ostacolato». Il gioco è fatto, e i sussurri diventano grida. «Nessuno nota – continua Pertici – che Stalin una sola volta cita gli ebrei e lo sterminio, ma del resto la storiografia occidentale del dopoguerra aveva già preferito dedicarsi ai silenzi del Papa e agli atteggiamenti acquiescenti delle democrazie occidentali ». Paolo Mieli ( coautore con Saul Israel, Andrea Riccardi, Rino Fisichella, Gianfranco Ravasi e Tarcisio Bertone del libro che registra anche giudizi di Benedetto XVI) riprende questo tema nel suo breve saggio: «Prendere per buone le accuse a Pacelli – dice – equivale a trascinare sul banco dei presunti rei, con gli stessi capi di imputazione, Roosevelt e Churchill, accusandoli di non aver pronunciato parole più chiare nei confronti delle persecuzioni antisemite». Mieli vanta sangue ebraico nelle sue vene e si dice colpito direttamente dalla Shoah per i familiari che ha perso nella persecuzione e nello sterminio nazista, ma aggiunge con forte convincimento: «Io non ci sto a mettere i miei morti sul conto di una persona che non ne ha responsabilità ». Lo storico, superata l’emozione, aggiunge: «La Chiesa mise a disposizione degli israeliti tutta se stessa: quasi ogni basilica, ogni chiesa, ogni seminario, ogni convento ospitò e aiuto gli ebrei. Tant’è che a Roma, a fronte dei duemila ebrei deportati, diecimila loro correligionari riuscirono a salvarsi». Come appunto Saul Israel, nato a Salonicco, biologo, medico e scrittore che ottenne la cittadinanza italiana nel 1919 e della quale fu poi privato con le leggi razziali. Israel è morto nel 1981; suo figlio Giorgio ha offerto nel libro un suo inedito: è una lettera scritta nel 1941 quando, con altri ebrei, aveva trovato rifugio nel convento di Sant’Antonio di via Merulana. E così si salvò la vita. È una pagina struggente. «Non fu qualche convento o il gesto di pietà di pochi – dice Giorgio Israel – e nessuno può pensare che tutta questa solidarietà che offrirono le chiese e i conventi avvenisse all’insaputa del Papa o addirittura senza il suo consenso. Quella su Pio XII resta la leggenda più assurda che si sia fatta circolare». Come suo padre, tanti si salvarono proprio per la scelta di Pio XII che – spiega Tarcisio Bertone – «scelse quell’atteggiamento non per paura né per connivenza, ma per un calcolo preciso, finalizzato a salvare la vita del numero maggiore possibile di ebrei». Bertone ha invitato gli storici a studiare tutti i documenti vaticani di quando Eugenio Pacelli fu Segretario di Stato con Pio XI. Aiuterebbero – in attesa di rendere pubblici anche quelli che vanno dal 1939 al 1945 – a capire come e perché può nascere una cattiva coscienza storica. E bene farebbero ad aprire i loro archivi anche tutti gli altri che li posseggono.
mercoledì 10 giugno 2009
LA PAURA DI SAPERE CHE DIO ESISTE
Scienza e fede, il flop dei «nuovi atei»
I «nuovi atei»? Sono l’alter ego «laico» dei creazionisti, i cristiani fondamentalisti convinti che il racconto della Genesi sia un dato scientifico assodato. Richard Dawkins, Sam Harris e Christopher Hitchens (i 'neo laici' di maggior successo) sono 'illogici e incoerenti' rispetto ai grandi pensatori atei del passato, ad esempio Nietzsche e Camus. Alterna il fioretto dell’argomentazione e la sciabola della polemica John Haught, teologo americano di vaglia, nel suo ultimo convincente lavoro, Dio e il nuovo ateismo (Queriniana, pp. 167, euro 13,80). Senior Fellow al Science & Religion Woodstock Theological Center della Georgetown University di Washington, nei giorni scorsi Haught ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, per la sua pluridecennale ricerca sul rapporto tra teologia e scienza. Professor Haught, nel suo saggio distingue l’ateismo 'hard-core' di Sartre, Camus e Marx, da quello 'soft-core' di Hitchens, Dawkins e Harris: qual la principale differenza? «Gli atei 'duri' volevano che si pensasse in maniera logica alle implicazioni dell’ateismo. Nietzsche, Sartre e Camus insistevano sul fatto che Dio non esiste e quindi non c’è una base eterna ai nostri valori etici. Se Dio non c’è, non esistono nemmeno gli assoluti! Ogni cosa è relativa e noi siamo i creatori dei nostri propri valori. Perciò gli atei 'duri' pensavano che ci volesse una coerenza enorme per essere un ateo, visto che non esiste più un appoggio morale. Per questo Sartre definiva l’ateismo 'un affare crudele'. La maggior parte della gente non sarebbe capace di essere veramente atea perché troppo debole nel vivere senza valori incondizionati. I 'nuovi atei' credono che certi principi siano assoluti, come la ricerca della verità scientifica oppure i diritti civili. Ma gli atei 'duri' direbbero che questi 'neo-atei' sono deboli e codardi come i credenti in Dio, dato che si aggrappano a valori assoluti». Lei considera 'simili' i 'nuovi atei' e i creazionisti. Qual è il loro comune errore nell’approcciare il 'problema-Dio'? «Come i creazionisti, anche Dawkins, Harris e Hitchens considerano la Bibbia incompatibile con la scienza moderna, in particolare con l’evoluzione. Al pari dei cristiani fondamentalisti essi si approcciano ai testi religiosi antichi per provare la loro pertinenza in quanto fonti di informazioni scientifiche. Ma la Bibbia non ha mai voluto essere all’origine di verità scientifiche. Ad Hitchens, ad esempio, fanno problema i racconti dell’infanzia di Gesù in Matteo e Luca. La maggior parte degli studiosi cristiani resta affascinata dall’irriducibilità narrativa di tali passi. Questi ultimi riconoscono che gli evangelisti stanno introducendo con quei testi alcuni temi poi ampliati nel corso delle loro opere. Tali racconti si preoccupano di trasformazioni spirituali, non di informazioni scientifiche. Ma Hitchens si domanda: come possono essere ispirati queste narrazioni se Matteo e Luca non concordano sui fatti storici? E finisce per definirli 'una frode immorale'. Anche Dawkins condivide con Hitchens un certo gusto litteralistico a livello esegetico. Egli però non vedrebbe nessun contrasto tra la Genesi e l’evoluzione se non condividesse con i creazionisti l’aspettativa che una Bibbia veramente ispirata potrebbe essere una fonte di affidabili informazioni scientifiche. Ancora più penoso il caso di Harris, il quale si domanda come mai la Bibbia, se è 'scritta da Dio', non possa essere 'la fonte più ricca a livello matematico che l’umanità abbia mai conosciuto'. Per lui, se la Bibbia è ispirata, avrebbe dovuto dirci qualcosa 'sull’elettricità, sul Dna o sull’attuale misura dell’universo'». È preoccupato dalla diffusione di questo 'nuovo ateismo'? «Il problema è che la maggior parte delle persone non possiede una preparazione teologica per rispondere ai 'nuovi atei'. Gli operatori di media, poi, non sanno come valutare i loro scritti dal momento che non hanno riferimenti teologici o filosofici. I lettori possono facilmente essere d’accordo con i 'nuovi atei' visto che gli scandali tra i preti o gli attentatori suicidi in nome di Dio sono fatti che capitano tutti i giorni. Per molte persone questo è il lato più visibile della religione. Ho scritto il mio libro come un piccolo tentativo per mostrare che c’è molto di più di questo 'lato oscuro' nella religione, e che esistono risposte positive e teologicamente elaborate al 'nuovo ateismo', così come all’ateismo 'duro' di cui si diceva». A suo giudizio, c’è una risposta specificatamente 'cattolica' ai 'nuovi atei'? «Sì. Anzitutto, sarebbe necessario che la Chiesa e i suoi membri confessassero il proprio coinvolgimento nei peccati che i 'nuovi atei' elencano in maniera fervorosa (e anche divertita). Una confessione come questa sarebbe una testimonianza potente della nostra professione di fede più fondamentale, ovvero che il mondo è avvolto in una bontà e in un amore infinito, una bontà che il nostro peccato ha offeso e oscurato: in questo modo il nuovo ateismo troverebbe fiducia e giustificazione. Però possiamo notare che, ironicamente, gli stessi atei testimoniano questa stessa dimensione di bontà nell’accusare i cristiani di immoralità. In che modo potrebbero esseri sicuri che i credenti sono cattivi senza essere toccati dalla bontà che stabilisce i criteri della loro stessa accusa? I cattolici chiamano Dio la fonte di questa bontà».
I «nuovi atei»? Sono l’alter ego «laico» dei creazionisti, i cristiani fondamentalisti convinti che il racconto della Genesi sia un dato scientifico assodato. Richard Dawkins, Sam Harris e Christopher Hitchens (i 'neo laici' di maggior successo) sono 'illogici e incoerenti' rispetto ai grandi pensatori atei del passato, ad esempio Nietzsche e Camus. Alterna il fioretto dell’argomentazione e la sciabola della polemica John Haught, teologo americano di vaglia, nel suo ultimo convincente lavoro, Dio e il nuovo ateismo (Queriniana, pp. 167, euro 13,80). Senior Fellow al Science & Religion Woodstock Theological Center della Georgetown University di Washington, nei giorni scorsi Haught ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, per la sua pluridecennale ricerca sul rapporto tra teologia e scienza. Professor Haught, nel suo saggio distingue l’ateismo 'hard-core' di Sartre, Camus e Marx, da quello 'soft-core' di Hitchens, Dawkins e Harris: qual la principale differenza? «Gli atei 'duri' volevano che si pensasse in maniera logica alle implicazioni dell’ateismo. Nietzsche, Sartre e Camus insistevano sul fatto che Dio non esiste e quindi non c’è una base eterna ai nostri valori etici. Se Dio non c’è, non esistono nemmeno gli assoluti! Ogni cosa è relativa e noi siamo i creatori dei nostri propri valori. Perciò gli atei 'duri' pensavano che ci volesse una coerenza enorme per essere un ateo, visto che non esiste più un appoggio morale. Per questo Sartre definiva l’ateismo 'un affare crudele'. La maggior parte della gente non sarebbe capace di essere veramente atea perché troppo debole nel vivere senza valori incondizionati. I 'nuovi atei' credono che certi principi siano assoluti, come la ricerca della verità scientifica oppure i diritti civili. Ma gli atei 'duri' direbbero che questi 'neo-atei' sono deboli e codardi come i credenti in Dio, dato che si aggrappano a valori assoluti». Lei considera 'simili' i 'nuovi atei' e i creazionisti. Qual è il loro comune errore nell’approcciare il 'problema-Dio'? «Come i creazionisti, anche Dawkins, Harris e Hitchens considerano la Bibbia incompatibile con la scienza moderna, in particolare con l’evoluzione. Al pari dei cristiani fondamentalisti essi si approcciano ai testi religiosi antichi per provare la loro pertinenza in quanto fonti di informazioni scientifiche. Ma la Bibbia non ha mai voluto essere all’origine di verità scientifiche. Ad Hitchens, ad esempio, fanno problema i racconti dell’infanzia di Gesù in Matteo e Luca. La maggior parte degli studiosi cristiani resta affascinata dall’irriducibilità narrativa di tali passi. Questi ultimi riconoscono che gli evangelisti stanno introducendo con quei testi alcuni temi poi ampliati nel corso delle loro opere. Tali racconti si preoccupano di trasformazioni spirituali, non di informazioni scientifiche. Ma Hitchens si domanda: come possono essere ispirati queste narrazioni se Matteo e Luca non concordano sui fatti storici? E finisce per definirli 'una frode immorale'. Anche Dawkins condivide con Hitchens un certo gusto litteralistico a livello esegetico. Egli però non vedrebbe nessun contrasto tra la Genesi e l’evoluzione se non condividesse con i creazionisti l’aspettativa che una Bibbia veramente ispirata potrebbe essere una fonte di affidabili informazioni scientifiche. Ancora più penoso il caso di Harris, il quale si domanda come mai la Bibbia, se è 'scritta da Dio', non possa essere 'la fonte più ricca a livello matematico che l’umanità abbia mai conosciuto'. Per lui, se la Bibbia è ispirata, avrebbe dovuto dirci qualcosa 'sull’elettricità, sul Dna o sull’attuale misura dell’universo'». È preoccupato dalla diffusione di questo 'nuovo ateismo'? «Il problema è che la maggior parte delle persone non possiede una preparazione teologica per rispondere ai 'nuovi atei'. Gli operatori di media, poi, non sanno come valutare i loro scritti dal momento che non hanno riferimenti teologici o filosofici. I lettori possono facilmente essere d’accordo con i 'nuovi atei' visto che gli scandali tra i preti o gli attentatori suicidi in nome di Dio sono fatti che capitano tutti i giorni. Per molte persone questo è il lato più visibile della religione. Ho scritto il mio libro come un piccolo tentativo per mostrare che c’è molto di più di questo 'lato oscuro' nella religione, e che esistono risposte positive e teologicamente elaborate al 'nuovo ateismo', così come all’ateismo 'duro' di cui si diceva». A suo giudizio, c’è una risposta specificatamente 'cattolica' ai 'nuovi atei'? «Sì. Anzitutto, sarebbe necessario che la Chiesa e i suoi membri confessassero il proprio coinvolgimento nei peccati che i 'nuovi atei' elencano in maniera fervorosa (e anche divertita). Una confessione come questa sarebbe una testimonianza potente della nostra professione di fede più fondamentale, ovvero che il mondo è avvolto in una bontà e in un amore infinito, una bontà che il nostro peccato ha offeso e oscurato: in questo modo il nuovo ateismo troverebbe fiducia e giustificazione. Però possiamo notare che, ironicamente, gli stessi atei testimoniano questa stessa dimensione di bontà nell’accusare i cristiani di immoralità. In che modo potrebbero esseri sicuri che i credenti sono cattivi senza essere toccati dalla bontà che stabilisce i criteri della loro stessa accusa? I cattolici chiamano Dio la fonte di questa bontà».
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