venerdì 26 giugno 2009

RUANDA, LA VERGOGNA DEI MEDIA

Ruanda, la guerra sporca dei media

In una mano il machete, nell’al­tra una radio a pile. È andata così in Ruanda. Almeno 937 mila persone trucidate nella mat­tanza dei cento giorni. Con la radio statale a fare da colonna sonora di un genocidio che l’Occidente non voleva vedere. «Senza armi da fuo­co, machete o altri oggetti, voi ave­te provocato la morte di migliaia di civili innocenti». Così l’allora giudi­ce Navanathem Pilay introdusse il verdetto nel processo internazio­nale ai mass-media ruandesi, per la prima volta nella storia ricono­sciuti colpevoli di genocidio al pari degli organizzatori e degli esecuto­ri materiali dell’olocausto africano.«Sfruttando i media (soprattutto la radio, in un Paese dove circa 66 per cento della popolazione era anal­fabeta e viveva nelle zone rurali, in cui nessun altro mezzo d’informa­zione poteva arrivare facilmente), i responsabili del genocidio potero­no rendere la carneficina una cosa di cui parlare senza vergogna». L’osservazione è dello studioso ca­merunense Fonju Ndemesah Fau­sta, che ha appena pubblicato in I­talia La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio in Ruanda (Infinito edizioni, pp. 144, euro 12). «Servendosi della lingua parlata in tutto il Paese, il Kinyarwanda, e a­busando del grande rispetto che i ruandesi avevano per le informa­zioni date dalle radio importanti, i genocidari – spiega Ndemesah Fausta – produssero un mondo do­ve il pensiero genocidario era la norma, sia per le vittime che per gli assassini». Nel 1994 il sistema informativo contava l’emittente governativa Radio Rwanda e nove periodici. Unica voce libera erano erano i giornali della Chiesa catto­lica, Kinyamateka e Dialogue, di­retti dai Padri bianchi. Era dal 1980 che padre Sylvio Sindambiwe, di­rettore del mensile Kinyamateka, criticava la politica del governo. Seguirono pressioni e minacce. Non tutti nella Chiesa gli stettero a fianco. Il 28 dicembre 1985 Sin­dambiwe lasciò l’incarico. Due an­ni dopo morì in un mai chiarito in­cidente. Le battaglie dei giornalisti cattolici però non si fermarono. Furono proprio i redattori di Kinyamateka a captare per primi le voci dell’odio. «Nell’ottobre 1988 André Sibomana, laureato in gior­nalismo all’Università Cattolica di Lione, fu no­minato direttore. Appro­fittando della protezione della Chiesa cattolica – ricostruisce Fonju Nde­mesah Fausta –, iniziò a criticare aspramente la politica del governo chiedendo più libertà». Poco dopo fu arrestato insieme ad altri tre gior­nalisti, liberati solo in seguito alle forti pres­sioni internazionali. Fu allora che nacque il giornale filogovernativo Kangura. Le intenzioni furono chiare da subito: «La voce che cerca di risvegliare e guidare il popolo maggioritario», c’era scritto sotto alla testata. Il «popolo mag­gioritario » era l’etnia hutu. Nel suo numero dell’inizio di dicembre 1990 Kangura pubblicò «I dieci co­mandamenti degli hutu». Il primo: «I tutsi hanno sete di sangue e di potere. Vogliono imporre la loro e­gemonia sulla gente del Rwanda con cannoni e spade». E l’ultimo: «Gli hutu non devono più avere pietà dei tutsi». Quattro anni dopo accadrà davvero. Intanto i semina­tori di rancore decisero di compie­re il passo decisivo. L’apertura di u­na radio che parlasse il dialetto lo­cale. Diventerà l’oracolo della di­struzione. «I giornalisti della Rtlm – spiega il ricercatore camerunense – sapendo che la maggioranza dei ruandesi era cattolica, caricarono i loro messaggi di simboli della reli­gione cristiana». Parlavano dei tut­si come di «fratelli che non hanno imparato a costruire, che non capi­scono altro che la distruzione». E poi citazioni bibliche strumenta­lizzate per colpire i nemici. Lo ster­minio, secondo l’Onu fu «pro­grammato » e accuratamente pre­parato da un gruppo organizzato di estremisti dell’etnia bantu degli hutu. Il segnale di avvio fu l’atten­tato del 6 aprile 1994 contro l’aereo su cui viaggiavano l’allora presi­dente ruandese, Juvenal Habyari­mana e il suo omologo burundese Cyprien Ntaryamira. Meno di tren­ta minuti dopo, e prima ancora che il presidente Habyarimana – considerato dagli estremisti un hu­tu moderato – fosse morto si scate­narono i massacri. In soli cento giorni furono uccise, secondo le autorità locali, quasi un milione di persone. Le milizie hutu diven­tarono autentiche macchine da guerra. Perpetrarono in tutto il Paese razzie, stupri e massacri si­stematici. La comunità interna­zionale, traumatizzata dalla di­sfatta della missione Onu dell’an­no precedente in Somalia, assi­stette senza intervenire. La gran parte della stampa mondiale se­condo l’autore de La radio e il ma­chete affrontò la questione adope­rando i soliti stereotipi dell’Africa arretrata e barbara. Solo il 16 mag­gio, per la prima volta sui giornali apparve la parola «genocidio». Non era merito di una intuizione giornalistica. Il giorno prima, men­tre i leader delle potenze mondiali facevano a gara per non lasciarsi trascinare in un possibile Vietnam africano, Karol Wojtyla durante il Regina Coeli fu il primo a usare ot­to parole che cambieranno in tutto il mondo il modo di guardare agli avvenimenti di quei giorni: «Si trat­ta di un vero e proprio genocidio». Ma questa notizia la radio ruande­se non la trasmise mai.
Nello Scavo

venerdì 12 giugno 2009

PAPA PIO XII LE BUGIE, HANNO LE GAMBE CORTE

Pio XII, operazione verità
Che ci sia stata cattiva co­scienza storica su Pio XII, più va avanti il dibattito più ap­pare evidente; proprio per questo In difesa di Pio XII, l’agile saggio cura­to da Giovanni Maria Vian sposta la questione: per lo storico è impor­tante adesso spiegare non tanto e non più l’infondatezza del giudizio riservato a questo Pontefice, quanto perché sia nata la leggenda nera che vuole Papa Pacelli nientemeno che il «Papa di Hitler». Il libro, edito da Marsilio, è stato presentato a Roma alla presenza degli autori che hanno offerto il loro contributo e del Segretario di Stato Vati­cano, il cardinale Tarcisio Bertone, per il quale è in­giusto « per una cattiva co­scienza storica ridurre un Papa della statura di Pio XII, per gli atti che ha compiuto e per la visione complessiva che aveva della Chiesa, in un angolo così ristretto per i suoi presunti silenzi». Per Giovanni Maria Vian, storico e direttore dell’Os­servatore Romano, il rovesciamento d’immagine di Papa Pacelli si spiega in due modi: per la sua scelta anti­comunista e per la contrapposizio­ne che si crea con il suo successore, Giovanni XXIII, che non fu il Papa di transizione che tutti avevano credu­to. «La questione del silenzio del Pa­pa – afferma Vian – è diventata pre­ponderante, spesso tramutandosi in polemica accanita. Così l’intermi­nabile guerra sul suo silenzio ha fi­nito per oscurare l’obiettiva rilevan- za di un pontificato importante, an­zi decisivo nel passaggio dall’ultima tragedia bellica mondiale a un’epo­ca nuova». La cattiva coscienza ha perfino (fat­to insolito trattandosi di un elemen­to così complesso) una data di na­scita che corrisponde con la messa in scena di quell’indigesto dramma di Rolf Hochhuth, Der Stellvertre­ter( «Il Vicario»), che, dopo Berlino, fu messo in scena in mezza Europa. Ne­gli anni Sessanta, però, nasce anche un moda culturale che – dice Ro­berto Pertici – «tra mille virgolette può chiamarsi progressista. La po­sta in gioco non era Pio XII – spiega – ma il ruolo della Chiesa nella sto­ria contemporanea, per cui gli equi­voci creati dalla cattiva coscienza ser­vivano a mettere in una lista tutto quanto avrebbe favorito il progresso e in un’altra, invece, quello e quelli che l’avrebbero ostacolato». Il gioco è fatto, e i sussurri diventano grida. «Nessuno nota – continua Pertici – che Stalin una sola volta cita gli ebrei e lo sterminio, ma del resto la sto­riografia occidentale del dopoguer­ra aveva già preferito dedicarsi ai si­lenzi del Papa e agli atteggiamenti acquiescenti delle democrazie occi­dentali ». Paolo Mieli ( coautore con Saul Israel, Andrea Riccardi, Rino Fisichella, Gianfranco Ravasi e Tarcisio Bertone del libro che registra anche giudizi di Benedetto XVI) riprende questo tema nel suo breve saggio: «Prende­re per buone le accuse a Pacelli – di­ce – equivale a trascinare sul banco dei presunti rei, con gli stessi capi di imputazione, Roosevelt e Churchill, accusandoli di non aver pronuncia­to parole più chiare nei confronti del­le persecuzioni antisemite». Mieli vanta sangue ebraico nelle sue vene e si dice colpito direttamente dalla Shoah per i familiari che ha per­so nella persecuzione e nello ster­minio nazista, ma aggiunge con for­te convincimento: «Io non ci sto a mettere i miei morti sul conto di u­na persona che non ne ha responsa­bilità ». Lo storico, superata l’emo­zione, aggiunge: «La Chiesa mise a disposizione degli israeliti tutta se stessa: quasi ogni basilica, ogni chie­sa, ogni seminario, ogni convento o­spitò e aiuto gli ebrei. Tant’è che a Roma, a fronte dei duemila ebrei de­portati, diecimila loro correligionari riuscirono a salvarsi». Come appunto Saul Israel, nato a Sa­lonicco, biologo, medico e scrittore che ottenne la cittadinanza italiana nel 1919 e della quale fu poi privato con le leggi razziali. Israel è morto nel 1981; suo figlio Giorgio ha offer­to nel libro un suo inedito: è una let­tera scritta nel 1941 quando, con al­tri ebrei, aveva trovato rifugio nel convento di Sant’Antonio di via Me­rulana. E così si salvò la vita. È una pagina struggente. «Non fu qualche convento o il gesto di pietà di pochi – dice Giorgio Israel – e nessuno può pensare che tutta questa so­lidarietà che offrirono le chiese e i conventi avvenis­se all’insaputa del Papa o ad­dirittura senza il suo con­senso. Quella su Pio XII resta la leggenda più assurda che si sia fatta circolare». Come suo padre, tanti si salvarono proprio per la scelta di Pio XII che – spiega Tarcisio Ber­tone – «scelse quell’atteggia­mento non per paura né per connivenza, ma per un cal­colo preciso, finalizzato a salvare la vita del numero maggiore possibile di ebrei». Bertone ha invitato gli sto­rici a studiare tutti i documenti vati­cani di quando Eugenio Pacelli fu Se­gretario di Stato con Pio XI. Aiute­rebbero – in attesa di rendere pub­blici anche quelli che vanno dal 1939 al 1945 – a capire come e perché può nascere una cattiva coscienza stori­ca. E bene farebbero ad aprire i loro archivi anche tutti gli altri che li pos­seggono.

mercoledì 10 giugno 2009

LA PAURA DI SAPERE CHE DIO ESISTE

Scienza e fede, il flop dei «nuovi atei»

I «nuovi atei»? Sono l’alter ego «laico» dei creazionisti, i cristiani fondamentalisti convinti che il racconto della Genesi sia un dato scientifico assodato. Richard Dawkins, Sam Harris e Christopher Hitchens (i 'neo laici' di maggior successo) sono 'illogici e incoerenti' rispetto ai grandi pensatori atei del passato, ad esempio Nietzsche e Camus. Alterna il fioretto dell’argomentazione e la sciabola della polemica John Haught, teologo americano di vaglia, nel suo ultimo convincente lavoro, Dio e il nuovo ateismo (Queriniana, pp. 167, euro 13,80). Senior Fellow al Science & Religion Woodstock Theological Center della Georgetown University di Washington, nei giorni scorsi Haught ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, per la sua pluridecennale ricerca sul rapporto tra teologia e scienza. Professor Haught, nel suo saggio distingue l’ateismo 'hard-core' di Sartre, Camus e Marx, da quello 'soft-core' di Hitchens, Dawkins e Harris: qual la principale differenza? «Gli atei 'duri' volevano che si pensasse in maniera logica alle implicazioni dell’ateismo. Nietzsche, Sartre e Camus insistevano sul fatto che Dio non esiste e quindi non c’è una base eterna ai nostri valori etici. Se Dio non c’è, non esistono nemmeno gli assoluti! Ogni cosa è relativa e noi siamo i creatori dei nostri propri valori. Perciò gli atei 'duri' pensavano che ci volesse una coerenza enorme per essere un ateo, visto che non esiste più un appoggio morale. Per questo Sartre definiva l’ateismo 'un affare crudele'. La maggior parte della gente non sarebbe capace di essere veramente atea perché troppo debole nel vivere senza valori incondizionati. I 'nuovi atei' credono che certi principi siano assoluti, come la ricerca della verità scientifica oppure i diritti civili. Ma gli atei 'duri' direbbero che questi 'neo-atei' sono deboli e codardi come i credenti in Dio, dato che si aggrappano a valori assoluti». Lei considera 'simili' i 'nuovi atei' e i creazionisti. Qual è il loro comune errore nell’approcciare il 'problema-Dio'? «Come i creazionisti, anche Dawkins, Harris e Hitchens considerano la Bibbia incompatibile con la scienza moderna, in particolare con l’evoluzione. Al pari dei cristiani fondamentalisti essi si approcciano ai testi religiosi antichi per provare la loro pertinenza in quanto fonti di informazioni scientifiche. Ma la Bibbia non ha mai voluto essere all’origine di verità scientifiche. Ad Hitchens, ad esempio, fanno problema i racconti dell’infanzia di Gesù in Matteo e Luca. La maggior parte degli studiosi cristiani resta affascinata dall’irriducibilità narrativa di tali passi. Questi ultimi riconoscono che gli evangelisti stanno introducendo con quei testi alcuni temi poi ampliati nel corso delle loro opere. Tali racconti si preoccupano di trasformazioni spirituali, non di informazioni scientifiche. Ma Hitchens si domanda: come possono essere ispirati queste narrazioni se Matteo e Luca non concordano sui fatti storici? E finisce per definirli 'una frode immorale'. Anche Dawkins condivide con Hitchens un certo gusto litteralistico a livello esegetico. Egli però non vedrebbe nessun contrasto tra la Genesi e l’evoluzione se non condividesse con i creazionisti l’aspettativa che una Bibbia veramente ispirata potrebbe essere una fonte di affidabili informazioni scientifiche. Ancora più penoso il caso di Harris, il quale si domanda come mai la Bibbia, se è 'scritta da Dio', non possa essere 'la fonte più ricca a livello matematico che l’umanità abbia mai conosciuto'. Per lui, se la Bibbia è ispirata, avrebbe dovuto dirci qualcosa 'sull’elettricità, sul Dna o sull’attuale misura dell’universo'». È preoccupato dalla diffusione di questo 'nuovo ateismo'? «Il problema è che la maggior parte delle persone non possiede una preparazione teologica per rispondere ai 'nuovi atei'. Gli operatori di media, poi, non sanno come valutare i loro scritti dal momento che non hanno riferimenti teologici o filosofici. I lettori possono facilmente essere d’accordo con i 'nuovi atei' visto che gli scandali tra i preti o gli attentatori suicidi in nome di Dio sono fatti che capitano tutti i giorni. Per molte persone questo è il lato più visibile della religione. Ho scritto il mio libro come un piccolo tentativo per mostrare che c’è molto di più di questo 'lato oscuro' nella religione, e che esistono risposte positive e teologicamente elaborate al 'nuovo ateismo', così come all’ateismo 'duro' di cui si diceva». A suo giudizio, c’è una risposta specificatamente 'cattolica' ai 'nuovi atei'? «Sì. Anzitutto, sarebbe necessario che la Chiesa e i suoi membri confessassero il proprio coinvolgimento nei peccati che i 'nuovi atei' elencano in maniera fervorosa (e anche divertita). Una confessione come questa sarebbe una testimonianza potente della nostra professione di fede più fondamentale, ovvero che il mondo è avvolto in una bontà e in un amore infinito, una bontà che il nostro peccato ha offeso e oscurato: in questo modo il nuovo ateismo troverebbe fiducia e giustificazione. Però possiamo notare che, ironicamente, gli stessi atei testimoniano questa stessa dimensione di bontà nell’accusare i cristiani di immoralità. In che modo potrebbero esseri sicuri che i credenti sono cattivi senza essere toccati dalla bontà che stabilisce i criteri della loro stessa accusa? I cattolici chiamano Dio la fonte di questa bontà».