All'origine di ogni ingiustizia
c'è una mancanza di amore
All'origine di ogni ingiustizia materiale e sociale c'è il peccato, che "consiste fondamentalmente in una disobbedienza a Dio, vale a dire una mancanza d'amore". Lo ha ricordato il Papa all'omelia della celebrazione eucaristica presieduta nel pomeriggio del 17 febbraio, mercoledì delle Ceneri, nella basilica romana di Santa Sabina all'Aventino.
"Tu ami tutte le tue creature, Signore,
e nulla disprezzi di ciò che hai creato;
tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni,
perché tu sei il Signore nostro Dio" (Antifona d'ingresso).
Venerati Fratelli nell'episcopato,
cari fratelli e sorelle!
Con questa commovente invocazione, tratta dal Libro della Sapienza (cfr. 11, 23-26), la liturgia introduce la celebrazione eucaristica del Mercoledì delle Ceneri. Sono parole che, in qualche modo, aprono l'intero itinerario quaresimale, ponendo a suo fondamento l'onnipotenza d'amore di Dio, la sua assoluta signoria su ogni creatura, che si traduce in indulgenza infinita, animata da costante e universale volontà di vita. In effetti, perdonare qualcuno equivale a dirgli: non voglio che tu muoia, ma che tu viva; voglio sempre e soltanto il tuo bene.
Questa assoluta certezza ha sostenuto Gesù durante i quaranta giorni trascorsi nel deserto della Giudea, dopo il battesimo ricevuto da Giovanni nel Giordano. Quel lungo tempo di silenzio e di digiuno fu per Lui un abbandonarsi completamente al Padre e al suo disegno d'amore; fu esso stesso un "battesimo", cioè un'"immersione" nella sua volontà, e in questo senso un anticipo della Passione e della Croce. Inoltrarsi nel deserto e rimanervi a lungo, da solo, significava esporsi volontariamente agli assalti del nemico, il tentatore che ha fatto cadere Adamo e per la cui invidia la morte è entrata nel mondo (cfr. Sap 2, 24); significava ingaggiare con lui la battaglia in campo aperto, sfidarlo senza altre armi che la fiducia sconfinata nell'amore onnipotente del Padre. Mi basta il tuo amore, mi cibo della tua volontà (cfr. Gv 4, 34): questa convinzione abitava la mente e il cuore di Gesù durante quella sua "quaresima". Non fu un atto di orgoglio, un'impresa titanica, ma una scelta di umiltà, coerente con l'Incarnazione ed il battesimo nel Giordano, nella stessa linea di obbedienza all'amore misericordioso del Padre, che ha "tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito" (Gv 3, 16).
Tutto questo il Signore Gesù lo ha fatto per noi. Lo ha fatto per salvarci, e al tempo stesso per mostrarci la via per seguirlo. La salvezza, infatti, è dono, è grazia di Dio, ma per avere effetto nella mia esistenza richiede il mio assenso, un'accoglienza dimostrata nei fatti, cioè nella volontà di vivere come Gesù, di camminare dietro a Lui. Seguire Gesù nel deserto quaresimale è dunque condizione necessaria per partecipare alla sua Pasqua, al suo "esodo". Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre, simbolo della comunione con Dio; ora, per ritornare a questa comunione e dunque alla vera vita, la vita eterna, bisogna attraversare il deserto, la prova della fede. Non da soli, ma con Gesù! Lui - come sempre - ci ha preceduto e ha già vinto il combattimento contro lo spirito del male. Ecco il senso della Quaresima, tempo liturgico che ogni anno ci invita a rinnovare la scelta di seguire Cristo sulla via dell'umiltà per partecipare alla sua vittoria sul peccato e sulla morte.
In questa prospettiva si comprende anche il segno penitenziale delle Ceneri, che vengono imposte sul capo di quanti iniziano con buona volontà l'itinerario quaresimale. È essenzialmente un gesto di umiltà, che significa: mi riconosco per quello che sono, una creatura fragile, fatta di terra e destinata alla terra, ma anche fatta ad immagine di Dio e destinata a Lui. Polvere, sì, ma amata, plasmata dal suo amore, animata dal suo soffio vitale, capace di riconoscere la sua voce e di rispondergli; libera e, per questo, capace anche di disobbedirgli, cedendo alla tentazione dell'orgoglio e dell'autosufficienza. Ecco il peccato, malattia mortale entrata ben presto ad inquinare la terra benedetta che è l'essere umano. Creato ad immagine del Santo e del Giusto, l'uomo ha perduto la propria innocenza ed ora può ritornare ad essere giusto solo grazie alla giustizia di Dio, la giustizia dell'amore che - come scrive san Paolo - "si è manifestata per mezzo della fede in Cristo" (Rm 3, 22). Da queste parole dell'Apostolo ho tratto lo spunto per il mio Messaggio, rivolto a tutti i fedeli in occasione di questa Quaresima: una riflessione sul tema della giustizia alla luce delle Sacre Scritture e del loro compimento in Cristo.
Anche nelle letture bibliche del Mercoledì delle Ceneri è ben presente il tema della giustizia. Innanzitutto, la pagina del profeta Gioele e il Salmo responsoriale - il Miserere - formano un dittico penitenziale, che mette in risalto come all'origine di ogni ingiustizia materiale e sociale vi sia quella che la Bibbia chiama "iniquità", cioè il peccato, che consiste fondamentalmente in una disobbedienza a Dio, vale a dire una mancanza d'amore. "Sì - confessa il Salmista - le mie iniquità io le riconosco, / il mio peccato mi sta sempre dinanzi. / Contro te, contro te solo ho peccato, / quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto" (Sal 50/51, 5-6). Il primo atto di giustizia è dunque riconoscere la propria iniquità, e riconoscere che questa è radicata nel "cuore", nel centro stesso della persona umana. I "digiuni", i "pianti", i "lamenti" (cfr. Gl 2, 12) ed ogni espressione penitenziale hanno valore agli occhi di Dio solo se sono segno di cuori sinceramente pentiti. Anche il Vangelo, tratto dal "discorso della montagna", insiste sull'esigenza di praticare la propria "giustizia" - elemosina, preghiera, digiuno - non davanti agli uomini, ma solo agli occhi di Dio, che "vede nel segreto" (cfr. Mt 6, 1-6.16-18). La vera "ricompensa" non è l'ammirazione degli altri, ma l'amicizia con Dio e la grazia che ne deriva, una grazia che dona pace e forza di compiere il bene, di amare anche chi non lo merita, di perdonare chi ci ha offeso.
La seconda lettura, l'appello di Paolo a lasciarsi riconciliare con Dio (cfr. 2 Cor 5, 20), contiene uno dei celebri paradossi paolini, che riconduce tutta la riflessione sulla giustizia al mistero di Cristo. Scrive san Paolo: "Colui che non aveva conosciuto peccato - cioè il suo Figlio fatto uomo -, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio" (2 Cor 5, 21). Nel cuore di Cristo, cioè nel centro della sua Persona divino-umana, si è giocato in termini decisivi e definitivi tutto il dramma della libertà. Dio ha portato alle estreme conseguenze il proprio disegno di salvezza, rimanendo fedele al suo amore anche a costo di consegnare il Figlio unigenito alla morte, e alla morte di croce. Come ho scritto nel Messaggio quaresimale, "qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana ... Grazie all'azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia "più grande", che è quella dell'amore (cfr. Rm 13, 8-10)".
Cari fratelli e sorelle, la Quaresima allarga il nostro orizzonte, ci orienta verso la vita eterna. In questa terra siamo in pellegrinaggio, "non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura" dice la Lettera agli Ebrei (Eb 13, 14). La Quaresima fa capire la relatività dei beni di questa terra e così ci rende capaci alle rinunce necessarie, liberi per fare il bene. Apriamo la terra alla luce del Cielo, alla presenza di Dio in mezzo a noi.
(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2010)
sabato 27 febbraio 2010
LA BELLEZZA DELLA DISABILITA'
LA BELLEZZA DELLA DISABILITA’, OVVERO ANCHE HANDY E’ BELLO
chiunque
Chiunque mi legge sa che sono disabile e vivo da solo da trent’anni in un paese vicino a Milano, e sa anche che nello scritto dei miei post sono aiutato dal mio amico computer che riconosce la mia voce. 55 anni di questa disabilità possono sembrare tanti e qualcuno affermare che io non ho avuto una vita felice, ma si sbaglia perché anche essere disabili non vuol dire essere infelici, non è sufficiente avere due gambe buone se poi ci si droga, non serve a nulla avere un corpo perfetto, se poi si ricorre alla chirurgia estetica o peggio ancora ci si suicida perché scontenti della propria vita nonostante la non disabilità evidente a occhio umano. È evidente che si può sempre amare anche quando si è completamente paralizzati come me o parzialmente paralizzati, perché questo va oltre la paresi, infatti ci sono persone che nonostante non siano disabili non sono capaci di amare, hanno un’idea funerea della vita, ci sono persone invece che pur essendo disabili apprezzano la vita, perché anche la vita disabile è un dono di Dio di cui di cui bisogna essere perché Lui, fa nuove tutte le cose, anche la disabilità. Qui di seguito potete leggere degli articoli che ne parlano descrivendo le varie difficoltà di chi ha una disabilità non dovuta per volontà di Dio, ma per volontà degli uomini, non tutti per fortuna, che la considerano sbagliando una disgrazia. Io ho parlato di bellezza perché la disabilità non ti permette di essere egoista in quanto per fare una cosa bisogna essere in due in quanto tu da solo non lo puoi fare, ma in due sì, e qui sta la tua bellezza e non è per niente un’umiliazione, perché l’umiliazione è un’altra cosa.
FIGLI DI UN LAVORO MINORE
La legge di dieci anni fa impone alle aziende di assumere una "quota" di lavoratori disabili, ma questo non avviene. Ecco perché. E come si può rimediare.
È l’ultimo effetto della crisi economica. Ma nessuno ne parla. Dopotutto, loro sono già tra chi sta in fondo alla fila, lavoratori "zavorra" più degli altri, secondo la denuncia recente del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana. Loro sono i lavoratori disabili, quelli per i quali dieci anni fa una legge dello Stato ha previsto una quota di posti lavoro "protetti" e l’obbligatorietà di assunzione per le aziende.
Ebbene, oggi la crisi e la possibilità per le aziende di accedere alla cassa integrazione, alla mobilità, alle procedure di riduzione dell’orario di lavoro sospendono l’obbligo di assunzione per chi non è abile come gli altri. È l’ultimo premio agli imprenditori e l’ultimo danno ai disabili, che si consuma nel silenzio. Aggrava una situazione già precaria, perché quella legge del 1999 non ha mantenuto le sue promesse, tra controlli poco incisivi e tantissime possibilità pratiche di aggirarla. Invece, per la maggior parte dei disabili il lavoro è vita, argine e trincea contro la depressione, e non semplicemente uno stipendio alla fine del mese.
La legge prevede che in un’azienda che abbia tra 15 e 35 dipendenti ci sia un disabile, due fino a 50 dipendenti e per le aziende più grandi sia riservato a loro il 7 per cento dei posti di lavoro. Ma accade poche volte. È sufficiente che l’azienda versi un contributo al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili per essere esonerata dall’assumerli. Può anche decidere di non rispettarla affatto, la legge, tanto la sanzione è di 51,65 euro al giorno, troppo bassa, al punto da essere conveniente. E spesso si confida su controlli carenti, che permettono di farla franca per anni e anni.
Così il lavoro per le persone disabili oggi in Italia resta un "miraggio", come ha denunciato un sondaggio del sito www.superabile.it, uno dei più cliccati portali italiani sui problemi dell’incontro tra lavoro e disabilità. Il tasso di occupazione delle persone con disabilità in Italia è del 19,3 per cento contro il 55,8 per cento di quelle senza disabilità, secondo l’Istat. Ma il dato risale ad alcuni anni fa, quando la crisi economica non aveva fatto sentire i suoi effetti. Il risultato è migliaia di posti riservati a lavoratori disabili non coperti e centinaia di migliaia di lavoratori disabili iscritti perennemente alle liste di collocamento speciali.
Collocamento sotto accusa
In sostanza, è fallito l’accompagnamento da parte degli uffici di collocamento e delle reti pubbliche di protezione del lavoro dei disabili nelle aziende e negli enti pubblici. Inoltre poco lavoro è stato affidato alle cooperative sociali che si occupano dell’inserimento occupazionale delle persone disabili.
È il collocamento a essere messo sotto accusa. Secondo l’ultima indagine dell’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, che opera in collaborazione con il ministero del Welfare e altri enti pubblici, solo il 13 per cento dei disabili ha trovato un impiego attraverso gli uffici di collocamento. Insomma, lo Stato fa poco per i disabili e non aiuta le imprese, soprattutto nei primi tempi di inserimento, con le figure dei tutor previste dalla legge. Molte associazioni che si occupano di handicap rilevano, come ha fatto l’Anffas, che senza il sostegno delle cooperative sociali o delle agenzie per il lavoro «i disabili faticano a trovare un’occupazione», nonostante una legge molto avanzata. L’ultima relazione al Parlamento sulla sua applicazione, a dieci anni dall’entrata in vigore, spiega che gli avviamenti al lavoro, 31 mila circa nel 2007, sono pochi a fronte di circa 700 mila persone iscritte al collocamento.
Qualcuno ha cercato di farvi fronte. La Regione Lazio ha istituito una specie di "bollino H" per le aziende che sono più attente all’inserimento di persone disabili. Ma non basta.
Perché spesso le assunzioni vengono fatte, ma poi i disabili sono abbandonati, lasciati senza far niente, emarginati, come denuncia l’Ufficio per le politiche della disabilità della Cgil, al quale arrivano circa 15 casi al giorno di discriminazione sul posto di lavoro.
La legge che dieci anni fa aveva trasformato il collocamento obbligatorio in collocamento mirato per i disabili ha bisogno per lo meno di un tagliando. Ma sarà difficile programmarlo in tempo di crisi e di denaro che manca, soprattutto per gli ammortizzatori sociali. La norma è molto avanzata, ma fa fatica a essere applicata.
Lo ha fatto notare anche il rapporto Il lavoratore disabile: una risorsa per la comunità, ricerca affidata alla fondazione Laboratorio per le politiche sociali (Labos) e all’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispesl) dal ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, presentata la scorsa settimana al Cnel a Roma.
Manca l’inserimento sociale
Fa notare Silvano Miniati, consigliere del Cnel, che «è sufficiente che venga rintracciato un disabile finto e tutta l’attenzione si sposta sui falsi invalidi, che esistono ma non rappresentano il problema, perché il problema sono i veri invalidi e il ruolo che devono ricoprire nelle aziende».
Il direttore della fondazione Labos Claudio Calvaruso osserva che «l’inserimento lavorativo di un disabile è una questione che riguarda non soltanto le aziende, ma anche l’intera comunità. La legge approvata dieci anni fa è perfetta e validissima per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, ma non lo è altrettanto se allarghiamo il campo all’inserimento sociale».
Alberto Bobbio
CUOCHI E CAMERIERI ALLA TRATTORIA DEGLI AMICI
Tredici disabili lavorano in una trattoria nel cuore di Roma a Trastevere. È la Trattoria degli amici, aperta otto anni fa dalla Comunità di Sant Egidio, segnalata dal Gambero Rosso, che ha vinto l’anno scorso il premio della Cisl come migliore esempio di inserimento lavorativo. Quattro disabili lavorano in cucina, gli altri servono ai tavoli. Quest’anno, con la collaborazione di Birra Peroni, la Trattoria ha tenuto il secondo corso di formazione professionale di commis di sala e cucina a cui hanno partecipato 18 disabili.
«La Ru486 ha ucciso mia figlia»
Un'immagine di Holly Patterson
Holly Patterson aveva appena compiuto 18 anni quando entrò in un consultorio californiano dell’associazione «Planned parenthood» chiedendo una pillola per abortire. In realtà non sappiamo cosa chiese. Sappiamo solo che era spaventata. Era incinta. I suoi genitori non lo sapevano. Voleva che qualcuno l’aiutasse. Holly ricevette una pastiglia da 200 mg di mifepristone che prese al consultorio e un’altra da 800 mg di misoprostol, con l’istruzione di inserirla vaginalmente 24 ore più tardi. Le fu dato un appuntamento una settimana dopo, il 17 settembre 2003, alle due del pomeriggio, per verificare che il feto fosse stato espulso e che «fosse andato tutto bene». Nulla andò bene. Holly morì un’ora prima dell’appuntamento, nel pronto soccorso dell’ospedale di Pleasanton. Suo padre, chiamato d’urgenza, non aveva mai sentito parlare della Ru486 prima che un medico lo informasse che, in seguito a un aborto chimico, sua figlia «non ce l’avrebbe fatta».
Ma Monty Patterson continuava a non capire cosa potesse aver trasformato la sua sana, energica ragazza nella creatura pallida e incapace di parlare che lo guardava terrorizzata, poco prima di spirare. Nei mesi successivi Patterson avrebbe imparato molto: a uccidere sua figlia era stata la sepsi provocata da un’infezione dal batterio «clostridium sordellii», indotta dall’assunzione della Ru486. E che la morte poteva essere evitata. Oggi gira gli Usa per spiegare che la Ru486 è un autentico veleno: Patterson ha discusso dei rischi della pillola alla Casa Bianca, in frequenti testimonianze in Congresso, con la Fda, con associazioni di pazienti. In seguito al suo attivismo 70 deputati hanno redatto la “legge di Holly” che chiede la sospensione della Ru486 e la revisione dell’iter che ha portato alla sua approvazione. Ma la legge non è mai stata approvata dal Congresso.
Signor Patterson, qual è il suo giudizio sulla pillola abortiva?
«La mia preoccupazione è la sua sicurezza per le donne. Per me è un problema di salute. Io volevo solo salvare mia figlia, ma non l’ho potuto fare. Tutto quello che mi resta è cercare di informare altre Holly di quello che può succedere loro».
Che informazioni dovrebbero avere?
«Al momento una 18enne come Holly non riceve abbastanza informazioni per prendere una decisione consapevole quando sceglie di terminare chimicamente la sua gravidanza. Nessuno ha interesse a spiegarle cosa le potrebbe succedere. Ma non solo a una 18ennne. Prenda Oriane Shevin. Era avvocato. Sposata, madre di due figli. Ha avuto una terza gravidanza e ha fatto come Holly. È andata in un consultorio, ha preso una pillola. È morta. Aveva ricevuto abbastanza informazioni? No. Quello che si trova su Internet, presso i medici che praticano aborti, sono i dati messi in circolazione dalla società che distribuisce la Ru486 negli Usa, la Danco Laboratories, o da organizzazioni abortiste. Sostengono che il rischio è minimo, che le infezioni sono rare e curabili. Non è vero! Queste donne sono lasciate sole e senza mezzi per difendersi».
È una delle caratteristiche della pillola abortiva quella di consentire l’aborto "fai da te"...
«I fatti mostrano che questa idea dell’aborto nella "privacy della tua casa" pone un fardello enorme sulle spalle delle donne. Le costringe a capire da sole quando qualcosa non va. Holly ha fatto tutto quello che le avevano detto. Dopo tre giorni ha chiamato il consultorio lamentandosi di forti crampi addominali, e le hanno detto di prendere una dose maggiore di antidolorifico. Il giorno dopo è andata al pronto soccorso. Le hanno dato un antidolorifico ancora più forte e l’hanno mandata a casa. Tre giorni più tardi è tornata all’ospedale e nel giro di poche ore è morta. Non aveva febbre, solo dolori. Altre tre donne hanno avuto gli stessi sintomi. E si sono sentite dire che era tutto normale».
Di chi è la colpa?
«I reparti di pronto soccorso non sono preparati a riconoscere i sintomi di infezioni come questa. Spesso le donne che vi si rivolgono non dicono nemmeno di aver assunto la pillola abortiva. Holly lo fece, ma non le fu di nessun aiuto».
L’ente americano che vigila sui farmaci – la Fda – ha ammesso che l’azienda distributrice della pillola abortiva non ha comunicato tutti i casi di "effetti avversi"...
«Sì, perché negli Stati Uniti queste comunicazioni sono volontarie. Sappiamo però che ci sono molte altre donne che hanno rischiato di morire o sono morte per colpa della Ru486, e di cui non è stato detto nulla. L’aborto è una procedura circondata dal segreto, specialmente nel caso di giovani come Holly: a 17 anni è rimasta incinta di un 24enne che non voleva farlo sapere ai genitori. Non possiamo scaricare sulle spalle di queste ragazze la responsabilità di dubitare delle informazioni che ricevono nei consultori o su Internet. Io stesso ho faticato a raccogliere dati affidabili».
Lei a chi si è rivolto?
«A Didier Sicard, professore di medicina all’Università Descartes di Parigi, ex presidente del Comitato bioetico francese che ha dato il via libera alla Ru486. Sua figlia, Oriane Shevin, è morta dopo aver assunto la pillola abortiva. Ora anche lui sostiene che i rischi legati alla Ru486 sono molto più alti di quanto si ammette, e che le informazioni circolanti non sono oggettive. I dati parlano di un rischio di "fallimento" del protocollo del 5-7%. Da dove vengono quei numeri? Dal distributore della pillola. È come chiedere alla volpe di fare la guardia al pollaio. Da quando mia figlia è morta sono stato contattato da decine di donne che mi hanno detto di dover la vita a Holly. Avevano preso la pillola, non stavano bene. Sono andate su Internet, hanno letto la mia storia, e sono corse all’ospedale dicendo che forse avevano un’infezione in atto. In alcuni casi era vero, e hanno ricevuto antibiotici in tempo».
È una consolazione?
«L’unica. Se Holly fosse sopravvissuta, sarebbe la prima a voler raccontare la sua storia per aiutare altre come lei. Non ho potuto proteggere mia figlia, forse posso proteggere le figlie di altri».
Elena Molinari da avvenire
Europa, gli anni di Erode
Dal 1997 tredici milioni di aborti
Nei 27 Paesi dell’Unione europea l’aborto è la causa di mortalità più estesa, ben prima dei decessi dovuti a incidenti stradali o a malattie come il tumore. Ogni secondo, negli Stati facenti parte l’Ue, si verificano 25 interruzioni di gravidanza, un trend che fa assommare all’enorme cifra di 1.237.731 gli aborti praticati in un anno (dati del 2007). Sono questi alcuni dei (terribili) numeri del rapporto «L’aborto in Europa» reso noto dall’Istituto europeo di politica familiare (Ipf), con sede a Madrid, e che diffonde i suoi studi in varie lingue. Proprio il Paese iberico è balzato di recente agli onori della cronaca per l’enorme marcia pro-vida tenutasi a Madrid contro la legge del governo Zapatero che apre la strada all’aborto libero per le minorenni.
«Le cifre parlano di migliaia di tragedie personali, famigliari e sociali davanti alle quali la società non può più continuare a restare indifferente – annota l’Ipf nell’introduzione al rapporto –. Tutto questo rappresenta una sfida prioritaria per la società e per le amministrazioni pubbliche, perché ogni madre che ricorre all’aborto costituisce una sconfitta per la società».
I numeri, dunque. Quelli del documento sono sconvolgenti: un milione e 200mila bambini non nati in un anno rappresenta l’intera popolazione una grande città del Continente. Nel decennio preso in considerazione l’Unione europea ha «perso» 13 milioni di bambini perché abortiti: come se scomparissero, assommate, l’intera popolazione della Svezia attuale e quella dell’Irlanda. Ciò significa che una gravidanza su 5 (il 19,1% per la precisione) nel Vecchio continente termina con un aborto. Tale fatto contribuisce all’«inverno demografico» che attanaglia l’Europa: nel 2008 le nascite sono diminuite di 774mila unità rispetto al 1982, con un saldo negativo del 12,5%.
Il rapporto di Ipf – che si basa su dati Eurostat e quelli forniti dai diversi Paesi – smonta alcuni cliché delle organizzazioni pro-aborto, ad esempio quello che recita «più contraccettivi = meno aborti». Orbene, se negli ultimi anni gli strumenti anticoncezionali hanno ormai dilagato – un esempio, la diffusione istituzionalizzata di preservativ nelle scuole superiori di diversi Paesi –, non per questo si assiste a un calo delle interruzioni di gravidanza. Anzi: se nel 1997 nei 15 Paesi allora facenti parti dell’Unione europea si registravano 837.409 aborti, dieci anni dopo questi sono saliti del 12,6%, arrivando a quota 931.396. Spagna e Gran Bretagna sono i Paesi con il maggior trend di crescita: Madrid ha avuto nel giro di 10 anni 62.500 aborti in più, il Regno Unito ha assistito ad un +27.500. Vi è un dato poi ulteriormente preoccupante, soprattutto sul versante educativo: un aborto ogni 7 viene richiesto da una donna con meno di 20 anni. Qui il primato spetta alla Gran Bretagna (48150), dove il problema delle adolescenti incinte rappresenta ormai un allarmante problema sociale, seguita da Francia (31779) e Romania (17272).
Ma quali sono i Paesi europei che nell’ultimo decennio hanno registrato il maggior numero di aborti? Il triste primato spetta alla Romania, con 2.114.639 aborti; segue la Francia (2.079.387), la Gran Bretagna (2.037.657), l’Italia (1.321.756), la Germania e la Spagna.
Una buona notizia arriva invece se si prendono in considerazione il numero di gravidanze soppresse nei dodici Paesi entrati a far parte della Ue negli ultimi anni, perlopiù nazioni dell’Est europeo: nel 1997 vi si praticavano 650.869 aborti, nel 2007 si è scesi a 306.335, con una diminuzione del 52,9%. Anche guardando alla situazione del nostro Paese, il rapporto di Ipf offre un lumicino di speranza: siamo uno dei Paesi in cui nell’ultimo decennio l’aborto è in calo. Nel 2007 da noi si sono avute 126.562 interruzioni di gravidanza, ovvero 13.604 in meno rispetto a 10 anni prima.
La Spagna rappresenta il «buco nero» dell’indagine di Ipf: se, come detto, essa è il Paese dei Ventisette dove l’interruzione di gravidanza si è più diffusa negli ultimi 10 anni, nel 2008 (secondo le stime di Ipf) avrebbe raggiunto quota 120mila aborti, diventando il 4° Paese Ue per vite nascenti soppresse.
Da questa amara constatazione l’Istituto di politica famigliare lancia un appello al mondo della politica: «È necessario e urgente che le amministrazioni pubbliche realizzino una vera politica di prevenzione (dell’aborto, ndr) basata sull’aumento dell’aiuto sociale ed economico in favore delle donne incinte» tralasciando di «perseguire politiche di contraccezione superate» che «non sono la soluzione più adeguata per la società. È necessario cogliere la sfida – chiosa il documento – e realizzare una vera politica di formazione – e non solo di informazione – in favore della vita aiutando le donne incinte».
Lorenzo Fazzini
E' semplice stare dalla parte giusta
Amare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene na¬turale. È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof¬fre. È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo. Innaturale e terri¬bile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel¬la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi¬coltà. Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile. Amare la vita è semplice. E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio. Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri¬mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen¬so di una verità basilare: ogni essere umano è « de¬gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita. Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
Chi sta con la vi¬ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria¬mente la finisce. Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario. Eppure, og¬gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar¬dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co¬sa è sbagliato. E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren¬derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari. Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor¬te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im¬portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser¬vono la vita e non la negano. Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca¬sa di cura ' Talamoni' di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine. E vi raccontiamo i medici che al Centro ' Cyclotron' dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem¬pre più impressionanti risposte scientifiche alle do-mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege¬tativo. Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol¬di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die¬ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag¬gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta¬nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua.
E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen¬te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub¬bliche strutture di assistenza). Questi sono gli esempi, i fatti. E poi ci sono le chiac¬chiere. I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe-ranza » , sarebbe crudele. Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso. L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi ma¬gistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co¬me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta¬mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten¬za degli inabili. Le chiacchiere anche feroci di chi, in¬somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose. Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen¬za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita. Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo¬no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro¬fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle. Parole cat¬tive che vogliono rendere «morte» sinonimo di «li¬bertà» , e perciò non sono e non saranno mai spec¬chio dell’animo vero della gente.
Marco Tarquinio
AL SUO FIANCO
«Lei, creatura. E l’evidenza della sua vitalità»
Nevica in questo inizio di febbraio, e il lago è can¬cellato dalle nuvole basse. Nella stanza al secondo piano del¬la clinica Beato Talamoni Eluana non c’è più da un anno, dalla not¬te del 3 febbraio 2009, quando un’ ambulanza la portò via, a Udine, dove sarebbe morta. Quella not¬te pioveva forte, e anche oggi su Lecco si rovescia pioggia mista a neve, ed è buio come se l’inverno non dovesse finire mai. In clini¬ca, tutto è uguale. Suor Albina Corti, la responsabile, è sempre di corsa tra corridoi e reparti. Quando finalmente si ferma e ti si siede davanti ne incontri il volto aperto da lombarda, restio alle parole e però incline al sorriso. «Sì, è un anno», dice, come chi ri¬corda qualcosa che ha costante¬mente nei pensieri. Poi, cam¬biando impercettibilmente il to¬no della voce: «Sa, l’altro giorno u¬na dipendente è venuta ad an¬nunciarmi che aspetta un bam¬bino. Era contenta e anche un po’ preoccupata, per via del lavoro. Ma, le ho detto, i problemi li af¬fronteremo: intanto dobbiamo essere felici per il tuo bambino che arriva. E insieme abbiamo gioito di questa nuova vita. Allo¬ra, istintivamente ho pensato a E¬luana. Era viva anche lei, mi sono detta; era anche lei come quel bambino una persona, una crea¬tura» . Una persona, e quasi una figlia, dopo quindici anni qui dentro. Imboccata, lavata, accudita per quindici anni.
Suor Rosangela, quella che era accanto a Eluana ogni giorno, non partecipa a que¬sto colloquio, non interrompe il suo silenzio. Ma anche nei tratti forti di suor Albina, in quel dire ' era viva', compare un’incrina¬tura, l’affiorare di una sofferenza profonda.
Madre, «se per qualcuno è mor¬ta, lasciatela a noi che la sentia¬mo viva» : furono le vostre sole parole un anno fa. Per molti E¬luana era solo un corpo vegetan¬te. In quale modo voi la sentiva¬te viva?
«Che fosse viva – risponde la suo¬ra – era un’evidenza, e non solo perché respirava naturalmente, senza alcuna macchina. Pensi a un bambino neonato: non capi¬sce, non parla, non risponde, ma forse non è una evidenza che è u¬na persona? E quel solo suo esse¬re vivo, non dà gioia?»
Le risponderebbero in molti: un bambino cresce e va verso la vi¬ta, Eluana era lì da tanti anni im¬mobile, assente…
« Non era così totalmente inerte e assente. Quando la si chiamava per nome reagiva con una quasi impercettibile agitazione che però noi, abituate a starle accan¬to, coglievamo. E la sua pelle, sembrava assaporare le carezze. Certo sperare in un migliora¬mento non era immaginabile, a meno di chiamare questo miglio¬ramento ' miracolo'. Però Eluana era viva. Quando l’altro giorno ho sentito delle ricerche riportate dal New England Journal of Medicine su quei pazienti in stato vegetati¬vo in cui alcune aree cerebrali rea¬giscono agli stimoli, mi sono chie¬sta se anche lei non poteva esse¬re in simili condizioni» .
Com’era concretamente la gior¬nata di Eluana, come viveva in quella stanza al secondo piano?
«Molti si immaginano una came¬ra di rianimazione, un corpo at¬taccato a una macchina. Qui non c’era nessuna macchina. Eluana respirava naturalmente. Al matti¬no veniva lavata, e per tagliarle i capelli ogni tanto veniva un par¬rucchiere. Era una donna fisica¬mente sana, bella, non magra, mai ammalata, con una pelle ro¬sea da bambino. Dopo l’igiene c’era la fisioterapia, poi veniva messa in carrozzella, se c’era bel tempo si andava in giardino. A Natale, l’avevamo portata in chie¬sa con noi» .
È la vita che fa oggi in una di que¬ste stanze un altro paziente nelle stesse condizioni. Nella sua ca-mera però si alternano la moglie e i parenti e gli amici, in una rete di affetti. Eluana, di visite non ne riceveva quasi: negli ultimi tem¬pi il padre aveva ristretto la cer¬chia delle persone ammesse a ve¬dere la figlia. Suore, infermiere e medici le erano però sempre ac¬canto. Suor Rosangela, soprattut¬to. E non smettevano di parlarle, come si parla a una persona viva. «Quel giorno che è stato annun¬ciato che venivano a prenderla – riprende suor Albina senza guar¬darci, come fissa nel suo ricordo – noi non ci credevamo. Era stato minacciato tante volte, e non era successo niente. Quel pomerig¬gio invece è arrivato il padre, e mi ha detto che Eluana se ne anda¬va. L’ho pregato: ci ripensi, per fa-vore, signor Englaro. Lui non ha risposto, ha salutato e se ne è an¬dato. Mi è sembrato in quel mo-mento un uomo pietrificato dal¬la sua stessa scelta» . E in quella notte di pioggia, ri¬corda la suora, «Eluana sembra¬va all’improvviso agitata. Sono ar¬rivati gli infermieri. Noi le parla¬vamo, le ripetevamo di stare tran¬quilla. Le dicevamo che andava in un posto in cui le volevano be¬ne» ( di nuovo la voce della suora si incrina). « Le abbiamo dato un bacio. L’hanno portata via» .
L’assedio dei giornalisti, il lam¬peggiare dei flash, l’Italia ammu¬tolita a guardare. E qui quella stanza abbandonata. Le fotogra¬fie e i quadri alle pareti, i due pe¬luches sul letto ( il terribile vuoto delle stanze di chi se ne va per sempre). E le quattordici Miseri¬cordine di Lecco a aspettare, in¬sieme a tutta la loro congregazio¬ne: a pensare a quella ragazza, per quindici anni come una figlia, che andava a morire di sete e di fame. Quelle donne, a pregare. Madre Albina tace, le parole non possono bastare. Dice solo, pen¬sando all’ultimo saluto: «Ho pen¬sato che la Via Crucis la si fa da soli. Anche il Signore, quel gior¬no, si è trovato solo» . Dai corridoi intanto, dalle stanze, il sommesso rumore di un ospe¬dale quieto e affaccendato: car¬relli che passano, telefoni che suonano, voci. (Qui e altrove, in chissà quante case di cura, quan¬ti malati ogni giorno, passivi in un letto, vengono lavati, curati, ali¬mentati come Eluana? Non in sta¬to vegetativo magari, ma sempli¬cemente persi nella demenza o nell’Alzheimer; o nati incapaci, e per sempre incoscienti e bambi¬ni? Li curano, li accudiscono nel¬l’antica certezza quasi tacita¬mente tramandata dal cristiane¬simo: sono persone. Ma, pensate a un mondo di questa certezza di¬mentico, che rivendicando li¬bertà, diritti e 'dignità della vita' mandi gli inermi a morire, come Eluana. E poi come su Wikipedia affermi di lei: morta 'per morte naturale').
Madre, lei cosa risponderebbe a quelli, e sono tanti, che dicono: se toccasse a me d’essere immo¬bile e incosciente in un letto, fa¬temi morire?
«Direi di pensarci davvero. Senza fermarsi a immaginare astratta¬mente ciò che non sanno. Perché organizzano una vita da malati di cui non hanno alcuna esperienza. E una morte, di cui sanno ancor meno» .
Una pausa. « Perché, vede – e qui la suora sembra riprendere ener¬gia e speranza – certi pazienti co¬me Eluana bisogna vederli con i propri occhi. Non immaginarli soltanto: perché allora prevale la paura. Vederli come sono, vivi, in una stanza piena delle loro cose, come una stanza di casa nostra; vivi e così indifesi, così inermi. Proprio come bambini neonati. Come si può non amare chi è co¬sì inerme e bisognoso di noi, an¬che se non capisce e non rispon¬de? Come si può non amare un bambino?» . E c’è in questa domanda la chia¬ve della dedizione delle Miseri¬cordine a Eluana, e di tanti altri, a tanti altri sconosciuti malati. Un amore per la vita non astratto, ma che attinge alla sorgente di una maternità profonda, e più gran¬de di quella carnale. Dove un pa¬dre ha giudicato che quel modo di vita era intollerabile, non degno, delle madri per quindici anni hanno abbracciato: grate di un fremito della pelle, grate comun¬que di quel respiro. Come due di¬versi sguardi sul mondo si sono incrociati sopra a questa tran¬quilla clinica di Lecco. Poi, quel¬la notte, l’ambulanza è partita e E-luana se ne è andata. Altri come lei, forse, arriveranno. E suor Al¬bina e le sue sorelle e le infermie¬re li cureranno. Serene, certe. Co¬me dicendo, nella forza pacata delle loro facce: «Non vedete? È un’evidenza, che sono vivi».
Dal nostro inviato a Lecco Marina Corradi
IL LUNGO CALVARIO
Quando Eluana chiamò «mamma»
Ospedale di Sondrio, Divisione di Lun¬godegenza, ore 4 del mattino del 15 ottobre 1993. Eluana è in stato vege¬tativo 'permanente' – come si diceva allora – da quasi due anni. Nella sua stanza succe-de qualcosa: «La paziente ha cominciato a la¬mentarsi facendo versi...», si legge nella 'Do-cumentazione clinica' che la riguarda (e rac¬conta i 17 anni dall’incidente alla morte). Non è un’eccezione che Eluana emetta suoni, so¬spiri, gemiti, le accade da due anni e lo farà per altri 15, fino al giorno prima della morte a 'La Quiete' di Udine. Ma quella notte non si placa, forse appare più agitata del solito, forse ha accanto un’infermiera più attenta, forse lì con lei è rimasta sua madre, non lo sappiamo. Fatto sta che Eluana continua a 'lamentarsi', come volesse dire qualcosa, e chi è lì la incoraggia, porge l’orecchio a quei 'versi', finché – è scritto nella cartella clinica – «stimolata a dire la parola 'mamma' è riu¬scita a dirla due volte, in modo comprensibi¬le».
Sono passati quasi due anni dall’inciden¬te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi¬ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im¬magine cui ci si rivolge nel bisogno. Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so¬spiro più lungo... Messaggi spediti dal profon-do di una coscienza nascosta, da sottolinea¬re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go¬mito sinistro», era scritto qualche pagina pri¬ma. Ogni genitore resta sempre in attesa, scru¬ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga¬ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac¬carezza, spera.
Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma¬dre», ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia». Poi quel¬l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co¬me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do¬po anni di silenzi: «Mamma, mamma». Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di 'sonno', di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi¬mento». È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai. Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise¬ricordine, dove la famiglia chiede che sia o¬spitata perché è là che Saturna l’aveva parto¬rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa. La speranza non muore, specie se i me¬dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata¬mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»...
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo¬le vedere? No, osservazioni di medici e in¬fermieri: «...Emetteva qualche vocalizzo, fis¬sava e cercava di incrociare lo sguardo del¬l’interlocutore ». «Messa prona con appog¬gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo». « Sembra muovere le dita dei piedi su co¬mando... ». Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo». La speranza non muore, ma ce ne vuole dav¬vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano. Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not¬te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan¬do il padre la fa trasferire a 'La Quiete' di U-dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial¬mente finalizzato al suo «recupero funziona¬le» e «alla promozione sociale dell’assistita»). E durante il viaggio questa volta Eluana si di¬batte, fino a espellere il sondino.
Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola
RISVEGLIATO
Massimiliano, rinascere con un segno di croce
Due vite parallele, quelle di Eluana e Massimiliano, alme¬no per un lungo tratto: han¬no entrambi 21 anni quan¬do un incidente d’auto, a pochi mesi l’uno dall’altro, interrompe il corso norma¬le della vita e spazza via pensieri, azioni, speranze. Per entrambi è l’inizio del lungo sonno, chiusi in un corpo che sembra non co¬municare più nulla a nes¬suno. Poi nella vita di Max succede qualcosa e tra i due giovani è il bivio: «Dopo quasi 10 anni di stato vege¬tativo, la sera di Natale del 2000 Max ha sollevato la mano e ha fatto da solo il gesto che gli avevo sempre fatto fare io, il segno della Croce. Credevo di essere impazzita» . Così Lucrezia Tresoldi, la mamma che, con il marito Ernesto, ave¬va passato giorni e notti at¬torno a quel figlio, parlan¬dogli, muovendogli braccia e gambe, stimolandolo sen¬za sosta.
Qual era stata la diagnosi?
Il cervello era così lesiona¬to che i medici escludevano nel modo più assoluto qual¬siasi ripresa anche parzia¬le. Un neurologo fece un paragone: Max era come u¬na centralina elettrica, se tagli i fili non ci sarà mai più alcun contatto. Sulla cartel¬la clinica scrivevano ogni giorno ' non collabora'. Non vedevano segni di ri¬sposta, loro.
Perché, voi li vedevate?
Io un giorno colsi il movi¬mento di un mignolo. Ma i neurologi dissero che era un riflesso condizionato, che mi illudevo. Negli anni quante volte ci hanno dato degli illusi o dei visionari...
Oggi i fatti vi danno ragio¬ne, ma in effetti non era fa¬cile credervi, allora.
Il fatto incredibile è che quelle lesioni cerebrali Max le ha ancora, come rileva la risonanza magnetica, il che prova quanto poco si sap¬pia del cervello umano. Per tanti anni nessun se¬gno di coscienza. Poi? Dopo nove anni di stato ve¬getativo abbiamo visto un sorriso. I neurologi soste-nevano che era uno spasmo involontario, ma la cosa si ripeté e mai per caso, sem¬pre quando gli amici di Max lo venivano a trovare. Un anno dopo, quando nostro figlio si è risvegliato, ci ha spiegato quei sorrisi... Du¬rante quei lunghi dieci an¬ni Massimiliano era sempre stato ' qui', con noi, solo che non poteva comuni¬carlo. Al risveglio ricordava perfettamente chi in passa¬to era venuto a trovarlo, rac¬contava episodi avvenuti in camera sua...
Quanto conta che lo ab¬biate portato a casa e la fa¬miglia gli sia sempre stata accanto?
Gli studi dimostrano che lo stimolo maggiore per que¬sti casi è proprio il contatto con i genitori. Anche l’in¬fermiere più bravo non po¬trà mai trasmettere le sen¬sazioni, i rumori, gli ' odo¬ri' della famiglia, soprat¬tutto l’amore, che sul cer¬vello ha effetti molto forti. Quando lo abbiamo porta¬to a casa, dopo 8 mesi di o¬spedali e di sondino, aveva già ricevuto l’estrema un¬zione, non poteva più de-glutire, pesava 39 chili, era tutto piagato, aveva 40 di febbre. Noi a casa gli abbia¬mo tolto il sondino e, cuc¬chiaino per cucchiaino, lo abbiamo imboccato con i frullati, a ogni sorso gli muovevamo il collo perché imparasse il movimento giusto. Ci sono voluti mesi.
Il giorno prima della mor¬te, l’équipe di Udine ha provato a far bere acqua a Eluana per dimostrarne l’incapacità.
Una follia: a una persona in agonia? E con i liquidi Max si strozza anche oggi che mangia spaghetti e cotolet¬te. Comunque ci vogliono mesi e mesi di esercizio co¬stante, dopo anni di sondi¬no.
Max accetta la sua disabi¬lità?
È un ragazzo felice e rin¬grazia Dio se tre medici su cinque si opposero al di¬stacco dalle macchine. Da un mese a questa parte sta pronunciando sempre nuove parole e ora ha il so¬gno di camminare, grazie a uno speciale ausilio che però aspettiamo dall’Asl... Lo vedremo mai?
Che aiuti ricevete dalla Asl?
Tre ore a settimana di fisio¬terapia, cioè zero. Ci siamo comprati il letto antidecu¬bito, l’aspiratore per il ca¬tarro, la palestra. Solo da un anno ci possiamo permet¬tere il logopedista, ma quanti anni fa Max avrebbe parlato, se le sedute fosse¬ro iniziate prima? Perché nessun genitore in questo anno ha seguito la via aperta da Englaro? Tutti combattono per otte¬nere gli aiuti e garantire a questi figli le cure cui han¬no diritto, non per farli mo¬rire. Magari avessimo tutti le suore Misericordine.
Lucia Bellaspiga
LA RICERCA IN BELGIO
Liegi, dove si trova la vita anche nei «vegetativi»
Chilometri di fili, scrivanie som¬merse di cartelle cliniche, i ri¬cercatori che studiano accam¬pati nei corridoi, perché manca lo spazio, ma c’è così tanto da fare: il Centro Cyclotron dell’Università di Liegi è, a oggi, l’unico posto al mon¬do in cui le domande sullo stato ve¬getativo trovano una risposta. Non è la risposta del cuore, o della fe¬de, o dell’etica: quelle sembrano non bastare a chi ragiona in termini di 'e¬videnze' sulla vita umana. A Liegi la risposta è quella oggettiva della scienza, e a piantartela davanti agli occhi è un fisico nucleare che del¬l’etica potrebbe persino infischiarse¬ne. Non fosse per quella videata in cui un cervello comincia a colorarsi, a da¬re segnali di coscienza e attività là do¬ve era impossibile persino sognarle. Non fosse che il cervello appartiene a un malato in stato vegetativo da 5 an¬ni – la giovane vittima di un inciden¬te stradale, per essere precisi – in un Paese come il Belgio, dove l’eutanasia è pratica legale già da tempo.
Da qualche mese è lui il protagonista indiscusso del laboratorio di Steven Laureys e lo è anche della ricerca ap¬pena pubblicata sul New England Journal of Medicine, che tanto ha fat¬to scalpore sui giornali e in tv. Perché questo 'vegetale', considerato privo di ogni traccia di coscienza e perce¬zione di sé, incapace di seguire gli og¬getti con gli occhi e inchiodato a un letto senza via di scampo, senza bat¬tito di ciglio, può comunicare. Può di¬re sì o no, se qualcuno gli chiede con¬ferma del suo nome. Può spostarsi, mentalmente, e allo stesso modo per¬sino giocare a tennis. Pensare che a vederlo dal vetro dell’o- spedale, Alan (lo chiameremo così, per questioni di privacy), è un caso disperato. Proprio come Rom Hou¬ben, l’uomo che ha commosso il mondo raccontando i suoi sedici an¬ni di urla nella gabbia dello stato ve¬getativo, e che oggi è a Liegi, per una visita di controllo.
Lo vedi coricato nello scanner, coi suoi movimenti in¬consulti, senti la voce della dottores¬sa Audrey che gli dice «relax», attra¬verso il microfono: nella stanza ci so¬no sei medici, fuori altrettanti prati-canti e ricercatori, ed è incredibile, perché al centro di questo consesso i¬perspecializzato, al cuore di tanta at¬tenzione e del dibattito che si innesca davanti alle immagi¬ni della risonanza magnetica, c’è quel¬la che per alcuni è so¬lo una vita spezzata, inutile, un fantasma d’essere umano. Non qui. 'Miracoli' di Liegi, li chiamano: in realtà non c’è alcun prodigio in corso, se non quello di vedere la vita – e non smet¬tere di cercarla – là dove sembrereb¬be aver vinto la morte. Il Cyclotron non è l’Enterprise, non siamo nello 'spazio profondo': il pa¬lazzo grigio è un po’ scalcinato, un punti¬no sulla collina uni¬versitaria di Liegi, e la struttura è pubblica, finanziata nei tempi e nei modi noti an¬che in Italia, efficaci magari, ma lenti. Ci sono i macchinari che troveresti in qualsiasi altro ospe¬dale o centro di ri¬cerca: la Pet (la tomografia a emissio¬ne di positroni), la Rmnf (la risonan¬za magnetica nucleare funzionale).
Ci sono gli specialisti che preparerebbe ogni università: neurologi, psicologi, fisici, chimici. Eppure qui c’è una ri¬voluzione in corso, che attira le mae¬stranze intellettuali di mezzo piane¬ta e non accenna ad arrestarsi. Inizia con Athena, Audry e Marie Aurélie: età media 25 anni, la prima greca, la seconda fiamminga, la terza italo¬belga. Insieme, sono l’enciclopedia di neurologia applicata ai disordini di coscienza che tutti gli specialisti del campo vorrebbero in tasca. La matti¬na vanno in corsia, incontrano le fa¬miglie dei pazienti, effettuano i test comportamentali sui vegetativi: la pressione sulle dita, il giro della stan¬za con lo specchio (i pazienti in que¬sto seguono più facilmente la propria immagine con gli occhi, che quella di un oggetto), le stimolazioni sonore. È il protocollo aggiornato della Coma recovery scale, quello che qui è basta¬to già un centinaio di volte per rico-noscere una diagnosi sbagliata su un paziente (risultato non essere affatto vegetativo) e che è facilmente reperi¬bile online. Eppure il resto del mon¬do – tranne Athena, Audrey e Marie Aurelie – sembra non saperlo. Il pomeriggio tocca agli esami: le ri¬sonanze, le tomografie, in una paro¬la le partite di tennis. In un altro la¬boratorio Andrea Soddu, fisico delle particelle italiano convertito alle neu¬roscienze, analizza le immagini del cervello dei pazienti a riposo, ottenu¬te con la risonanza. Immagini e ana¬lisi, anche qui nessun prodigio.
Dopo una settimana la normalissima riu¬nione di confronto, in cui tesi e anti¬tesi sono messe in campo, e si giun¬ge a una diagnosi condivisa. Steven Laureys, che è il responsabile del Coma group, lo ripete di continuo a chi incontra, a chi telefona, ai con¬vegni e alle conferenze: «Quello che facciamo può essere fatto da qualsia¬si parte, si deve solo cominciare». Non basta: nel pomeriggio arrivano altre cinque chiamate, una è dall’Italia. È la mamma di Luca, vive a Milano, suo fi¬glio è immobile e in stato vegetativo da dodici anni. Chiede aiuto. Vorreb¬be che i medici di Liegi lo vedessero, perché «siete gli unici a vedere vera¬mente ». Sarebbe disposta a dividere la spesa con un’altra famiglia, anche loro hanno un figlio così. Non hanno abbastanza soldi per il viaggio però, e forse il ragazzo non è trasportabile: «Perché i medici che ho incontrato fi¬nora non mi hanno detto niente di più?». Stato vegetativo, ci sono rispo¬ste. Basta vederle. Il professor Steven Laureys (il medico al centro) insieme a due assistenti del Centro Cyclotron che dirige all’Università di Liegi, durante l’esame clinico a un paziente
Dal nostro inviato a Liegi Viviana Daloiso
IL CAMMINO DI SPERANZA
I familiari dei pazienti: una rete di solidarietà per fare vivere i nostri cari
L e famiglie di coloro che sono colpiti da una grave lesione cerebrale o che sono caduti in stato vegetativo sono vittime solo in seconda battuta, ma devono soppor¬tare un carico di fatica e di dolore che sgo¬mentano. E tuttavia non rinunciano, anche a prezzo di grandi sacrifici, a prestarsi nell’aiu¬to ai loro cari. In questo anno trascorso dalla morte di Eluana Englaro hanno però ottenu¬to che la società si accorgesse un po’ di loro e riflettesse su quale siano le necessità delle per¬sone colpite da queste gravissime disabilità. Quel che conta, lo slancio che permette di an¬dare avanti, sottolineano i rappresentanti del¬le associazioni dei familiari, «è l’amore verso i propri cari». «Noi ripetiamo che anche in stato vegetativo sono persone, che hanno gli stessi diritti de¬gli altri cittadini, in particolare quello di ave¬re una vita con una qualità dignitosa». P
aolo Fogar, presidente della Federazione naziona¬le associazioni trauma cranico (Fnatc) si ri¬chiama alla Carta di San Pellegrino e alla Con¬venzione Onu sui diritti delle persone con di¬sabilità per richiamare le richieste di assi- stenza che le famiglie ripetono. «È importan¬te che quei documenti non restino enuncia¬ti. Occorre lavorare perché si trovino mezzi e sostegni, non solo economici, per aiutare le fa¬miglie: che non parlano di morte, ma di vita». Anche Gian Pietro Salvi, presidente della Re¬te- associazioni riunite per il trauma cranico e le gravi cerebrolesioni acquisite, aggiunge: «Le famiglie sono gli eroi del quotidiano, la batta¬glia è comunque lunga e logorante: se non so¬no aiutate, si ammalano. È compito delle isti¬tuzioni e della società non lasciarle sole». E da questo punto di vista la presenza delle asso¬ciazioni che lavorano al tavolo istituito al mi¬nistero della Salute per giungere a scrivere un Libro bianco dell’assistenza a queste persone è un primo passo, ma cruciale, sottolinea Ful¬vio De Nigris, direttore del Centro studi ricer¬ca sul coma-Gli amici di Luca onlus. «È mol¬to importante anche come si comunicano le notizie relative al coma e agli stati vegetativi: occorre infatti tutelare queste persone grave¬mente disabili, raccontare ciò di cui hanno bi¬sogno e le strutture dedicate disponibili (che sono ancora poche). Se c’è stato un frutto del¬la vicenda Englaro è proprio la reazione di tut¬ti coloro che vivono questi problemi e che so¬no riusciti un po’ a farsi sentire».
«Da un lato – osserva Paolo Fogar – sono sta¬ti fatti progressi, ma la situazione è ancora a macchia di leopardo. Accanto a Regioni, co¬me Lombardia e Friuli-Venezia Giulia, che danno anche un contributo economico alle fa¬miglie, i Livelli essenziali di assistenza (Lea) non prevedono la riabilitazione a lungo ter¬mine per queste persone, che ne hanno biso¬gno sempre per evitare spasticità. Ma i fami¬liari continuano a parlare di vita e non di mor¬te ». E si battono in tutte le sedi: una di queste sono le conferenze di consenso con le società scientifiche, dove vengono stilate le racco¬mandazioni che devono diventare buona e ordinaria prassi medica e assistenziale.
«En¬tro la fine dell’anno – aggiunge Fogar – parte¬ciperemo alla conferenza di consenso della Simfer (Società italiana di medicina fisica e riabilitativa) sulla buona pratica nella riabili¬tazione ospedaliera delle persone con gravi cerebrolesioni acquisite. Mentre questo me¬se a Siena le associazioni saranno presenti a un’altra conferenza di consenso sulla riabili¬tazione cognitiva dell’adulto. Si tratta di a¬spetti importanti, che toccano la vita di que¬ste persone: le famiglie si battono per la vita, ma servono riabilitazione, ausili, valutazioni accurate». Questi documenti, poi, per diven¬tare prassi «devono essere portate in Confe¬renza Stato-Regioni». Solo così si concretizzano gli aiuti e si evita la solitudine, «la vera condanna di queste fami¬glie – sottolinea Fulvio De Nigris –, che ri¬schiano di sentirsi isolate dal resto della so¬cietà. D’altra parte occorre anche fare molta formazione nella società, a partire dai giova¬ni ». «Ci vuole amore, passione e competenza per dedicarsi a queste persone – conclude Sal¬vi – ma le famiglie lo fanno per uno slancio vi¬tale di amore verso i loro cari».
Enrico Negrotti
Bambini Down,
la strage silenziosa
Oggi le reazioni all’assurdo gruppo di Facebook sono perlopiù solidali e indignate, ma non sempre la nostra società mostra sentimenti di accettazione verso le persone con sindrome di Down (SD). Senza elencare un lungo elenco di discriminazioni più o meno palesi che queste persone devono spesso sopportare, c’è un dato abbastanza significativo: nella stragrande maggioranza dei casi di fronte a una diagnosi prenatale di SD, la gravidanza si conclude in un aborto. Non sono opinioni, ma i dati che emergono dalle poche indagini scientifiche condotte sull’argomento, come il recente articolo pubblicato il 26 ottobre scorso dal British Medical Journal (2009; 339:b3794) che indica come Oltremanica nell’arco di vent’anni siano leggermente diminuite (meno 1 per cento) le nascite di bambini con sindrome di Down, mentre l’aumento dell’età materna ne faceva prevedere un incremento significativo (più 48 per cento): a essere aumentati altrettanto sono stati i test prenatali. E anche in Europa, secondo un’indagine del 2003, veniva indicato un calo nei nati tra il 1975 e il 1999 statisticamente significativo. In Italia l’incidenza dei bambini con SD è di circa 1 ogni 1000-1200 nati – secondo diverse valutazioni – cioè 500-600 bambini l’anno.
L’indagine condotta da Joan Morris, docente di statistica medica all’Università di Londra, e da Eva Alberman, professore emerito, è significativa nella crudezza dei numeri. Vengono presi in esame i nati vivi con sindrome di Down e le diagnosi prenatali in Inghilterra e Galles tra il 1989 e il 2008, analizzando i dati del Registro nazionale di citogenetica della sindrome di Down. In un riquadro riassuntivo si indica che era già noto che le madri più anziane sono maggiormente a rischio di concepire bambini con la sindrome di Down, e che gli screening prenatali per la sindrome di Down sono più disponibili oggi rispetto ai primi anni Novanta. Quello che la ricerca aggiunge è che «il numero di diagnosi di sindrome di Down è cresciuto del 71 per cento (da 1075 nel 1989/90 a 1843 nel 2007/2008), mentre i nati vivi sono diminuiti dell’1 per cento (da 755 a 743), a causa degli screening prenatali e delle conseguenti interruzioni di gravidanza». Dal punto di vista demografico si osserva che «in assenza di screening prenatali e conseguenti aborti, il numero di nascite di persone con sindrome di Down sarebbe cresciuto del 48 per cento a causa della scelta dei genitori di far famiglia più tardi».
Analoghi risultati ha ottenuto una ricerca condotta nel 2003 da Daniela Pierannunzio, Pierpaolo Mastroiacovo, Piero Giorgi e Gian Luca Di Tanna che ha preso in esame i dati relativi a 31 registri internazionali delle malformazioni congenite raccolti dall’International Clearinghouse for Births Defects monitoring Systems nel periodo tra 1974 e 2000. I risultati generali indicano che la prevalenza alla nascita totale è pari a 9,07 per 10mila nascite con un calo nel corso degli anni statisticamente significativo. In particolare si passa da 16,10 bambini con SD ogni 10mila nati nel 1975 a 6,09 nel 1999: un risultato «dovuto al corrispondente aumento di interruzioni di gravidanza a sua volta dovuto alla diffusione generalizzata della diagnosi prenatale».
Si tratta di risultati che devono far riflettere ma che non possono stupire, se solo si ricorda il dibattito che ha preceduto (e seguito) l’approvazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita e la campagna referendaria. Il ritornello di chi sosteneva la necessità di effettuare la diagnosi preimpianto era per eliminare «alcune gravi patologie», quali appunto sindrome di Down (che non è una malattia), fibrosi cistica, talassemia. Inutile dire che, siccome cure per correggere la sindrome di Down non esistono, la «cura» si traduce in una eliminazione dell’embrione: anche perché – si sosteneva (e si sostiene), la donna poi può sempre abortire. E anche se la legge 194 non prevede affatto l’eliminazione del feto per motivi di discriminazione genetica, questo avviene spesso. Al punto che il clamoroso caso dell’aborto «sbagliato» nel 2007 all’ospedale San Paolo di Milano non ha sollevato nessuna onda di protesta. Era stato deciso di abortire selettivamente la gemellina con SD: un errore in fase di intervento portò invece alla morte di quella sana. Ma la bambina con SD fu eliminata con un secondo aborto. Recentemente sono stati assolti i medici che avevano compiuto l’intervento errato: non per violazione della 194, bensì per l’imperizia dell’operazione.
Enrico Negrotti AVVENIRE
chiunque
Chiunque mi legge sa che sono disabile e vivo da solo da trent’anni in un paese vicino a Milano, e sa anche che nello scritto dei miei post sono aiutato dal mio amico computer che riconosce la mia voce. 55 anni di questa disabilità possono sembrare tanti e qualcuno affermare che io non ho avuto una vita felice, ma si sbaglia perché anche essere disabili non vuol dire essere infelici, non è sufficiente avere due gambe buone se poi ci si droga, non serve a nulla avere un corpo perfetto, se poi si ricorre alla chirurgia estetica o peggio ancora ci si suicida perché scontenti della propria vita nonostante la non disabilità evidente a occhio umano. È evidente che si può sempre amare anche quando si è completamente paralizzati come me o parzialmente paralizzati, perché questo va oltre la paresi, infatti ci sono persone che nonostante non siano disabili non sono capaci di amare, hanno un’idea funerea della vita, ci sono persone invece che pur essendo disabili apprezzano la vita, perché anche la vita disabile è un dono di Dio di cui di cui bisogna essere perché Lui, fa nuove tutte le cose, anche la disabilità. Qui di seguito potete leggere degli articoli che ne parlano descrivendo le varie difficoltà di chi ha una disabilità non dovuta per volontà di Dio, ma per volontà degli uomini, non tutti per fortuna, che la considerano sbagliando una disgrazia. Io ho parlato di bellezza perché la disabilità non ti permette di essere egoista in quanto per fare una cosa bisogna essere in due in quanto tu da solo non lo puoi fare, ma in due sì, e qui sta la tua bellezza e non è per niente un’umiliazione, perché l’umiliazione è un’altra cosa.
FIGLI DI UN LAVORO MINORE
La legge di dieci anni fa impone alle aziende di assumere una "quota" di lavoratori disabili, ma questo non avviene. Ecco perché. E come si può rimediare.
È l’ultimo effetto della crisi economica. Ma nessuno ne parla. Dopotutto, loro sono già tra chi sta in fondo alla fila, lavoratori "zavorra" più degli altri, secondo la denuncia recente del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana. Loro sono i lavoratori disabili, quelli per i quali dieci anni fa una legge dello Stato ha previsto una quota di posti lavoro "protetti" e l’obbligatorietà di assunzione per le aziende.
Ebbene, oggi la crisi e la possibilità per le aziende di accedere alla cassa integrazione, alla mobilità, alle procedure di riduzione dell’orario di lavoro sospendono l’obbligo di assunzione per chi non è abile come gli altri. È l’ultimo premio agli imprenditori e l’ultimo danno ai disabili, che si consuma nel silenzio. Aggrava una situazione già precaria, perché quella legge del 1999 non ha mantenuto le sue promesse, tra controlli poco incisivi e tantissime possibilità pratiche di aggirarla. Invece, per la maggior parte dei disabili il lavoro è vita, argine e trincea contro la depressione, e non semplicemente uno stipendio alla fine del mese.
La legge prevede che in un’azienda che abbia tra 15 e 35 dipendenti ci sia un disabile, due fino a 50 dipendenti e per le aziende più grandi sia riservato a loro il 7 per cento dei posti di lavoro. Ma accade poche volte. È sufficiente che l’azienda versi un contributo al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili per essere esonerata dall’assumerli. Può anche decidere di non rispettarla affatto, la legge, tanto la sanzione è di 51,65 euro al giorno, troppo bassa, al punto da essere conveniente. E spesso si confida su controlli carenti, che permettono di farla franca per anni e anni.
Così il lavoro per le persone disabili oggi in Italia resta un "miraggio", come ha denunciato un sondaggio del sito www.superabile.it, uno dei più cliccati portali italiani sui problemi dell’incontro tra lavoro e disabilità. Il tasso di occupazione delle persone con disabilità in Italia è del 19,3 per cento contro il 55,8 per cento di quelle senza disabilità, secondo l’Istat. Ma il dato risale ad alcuni anni fa, quando la crisi economica non aveva fatto sentire i suoi effetti. Il risultato è migliaia di posti riservati a lavoratori disabili non coperti e centinaia di migliaia di lavoratori disabili iscritti perennemente alle liste di collocamento speciali.
Collocamento sotto accusa
In sostanza, è fallito l’accompagnamento da parte degli uffici di collocamento e delle reti pubbliche di protezione del lavoro dei disabili nelle aziende e negli enti pubblici. Inoltre poco lavoro è stato affidato alle cooperative sociali che si occupano dell’inserimento occupazionale delle persone disabili.
È il collocamento a essere messo sotto accusa. Secondo l’ultima indagine dell’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, che opera in collaborazione con il ministero del Welfare e altri enti pubblici, solo il 13 per cento dei disabili ha trovato un impiego attraverso gli uffici di collocamento. Insomma, lo Stato fa poco per i disabili e non aiuta le imprese, soprattutto nei primi tempi di inserimento, con le figure dei tutor previste dalla legge. Molte associazioni che si occupano di handicap rilevano, come ha fatto l’Anffas, che senza il sostegno delle cooperative sociali o delle agenzie per il lavoro «i disabili faticano a trovare un’occupazione», nonostante una legge molto avanzata. L’ultima relazione al Parlamento sulla sua applicazione, a dieci anni dall’entrata in vigore, spiega che gli avviamenti al lavoro, 31 mila circa nel 2007, sono pochi a fronte di circa 700 mila persone iscritte al collocamento.
Qualcuno ha cercato di farvi fronte. La Regione Lazio ha istituito una specie di "bollino H" per le aziende che sono più attente all’inserimento di persone disabili. Ma non basta.
Perché spesso le assunzioni vengono fatte, ma poi i disabili sono abbandonati, lasciati senza far niente, emarginati, come denuncia l’Ufficio per le politiche della disabilità della Cgil, al quale arrivano circa 15 casi al giorno di discriminazione sul posto di lavoro.
La legge che dieci anni fa aveva trasformato il collocamento obbligatorio in collocamento mirato per i disabili ha bisogno per lo meno di un tagliando. Ma sarà difficile programmarlo in tempo di crisi e di denaro che manca, soprattutto per gli ammortizzatori sociali. La norma è molto avanzata, ma fa fatica a essere applicata.
Lo ha fatto notare anche il rapporto Il lavoratore disabile: una risorsa per la comunità, ricerca affidata alla fondazione Laboratorio per le politiche sociali (Labos) e all’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispesl) dal ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, presentata la scorsa settimana al Cnel a Roma.
Manca l’inserimento sociale
Fa notare Silvano Miniati, consigliere del Cnel, che «è sufficiente che venga rintracciato un disabile finto e tutta l’attenzione si sposta sui falsi invalidi, che esistono ma non rappresentano il problema, perché il problema sono i veri invalidi e il ruolo che devono ricoprire nelle aziende».
Il direttore della fondazione Labos Claudio Calvaruso osserva che «l’inserimento lavorativo di un disabile è una questione che riguarda non soltanto le aziende, ma anche l’intera comunità. La legge approvata dieci anni fa è perfetta e validissima per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, ma non lo è altrettanto se allarghiamo il campo all’inserimento sociale».
Alberto Bobbio
CUOCHI E CAMERIERI ALLA TRATTORIA DEGLI AMICI
Tredici disabili lavorano in una trattoria nel cuore di Roma a Trastevere. È la Trattoria degli amici, aperta otto anni fa dalla Comunità di Sant Egidio, segnalata dal Gambero Rosso, che ha vinto l’anno scorso il premio della Cisl come migliore esempio di inserimento lavorativo. Quattro disabili lavorano in cucina, gli altri servono ai tavoli. Quest’anno, con la collaborazione di Birra Peroni, la Trattoria ha tenuto il secondo corso di formazione professionale di commis di sala e cucina a cui hanno partecipato 18 disabili.
«La Ru486 ha ucciso mia figlia»
Un'immagine di Holly Patterson
Holly Patterson aveva appena compiuto 18 anni quando entrò in un consultorio californiano dell’associazione «Planned parenthood» chiedendo una pillola per abortire. In realtà non sappiamo cosa chiese. Sappiamo solo che era spaventata. Era incinta. I suoi genitori non lo sapevano. Voleva che qualcuno l’aiutasse. Holly ricevette una pastiglia da 200 mg di mifepristone che prese al consultorio e un’altra da 800 mg di misoprostol, con l’istruzione di inserirla vaginalmente 24 ore più tardi. Le fu dato un appuntamento una settimana dopo, il 17 settembre 2003, alle due del pomeriggio, per verificare che il feto fosse stato espulso e che «fosse andato tutto bene». Nulla andò bene. Holly morì un’ora prima dell’appuntamento, nel pronto soccorso dell’ospedale di Pleasanton. Suo padre, chiamato d’urgenza, non aveva mai sentito parlare della Ru486 prima che un medico lo informasse che, in seguito a un aborto chimico, sua figlia «non ce l’avrebbe fatta».
Ma Monty Patterson continuava a non capire cosa potesse aver trasformato la sua sana, energica ragazza nella creatura pallida e incapace di parlare che lo guardava terrorizzata, poco prima di spirare. Nei mesi successivi Patterson avrebbe imparato molto: a uccidere sua figlia era stata la sepsi provocata da un’infezione dal batterio «clostridium sordellii», indotta dall’assunzione della Ru486. E che la morte poteva essere evitata. Oggi gira gli Usa per spiegare che la Ru486 è un autentico veleno: Patterson ha discusso dei rischi della pillola alla Casa Bianca, in frequenti testimonianze in Congresso, con la Fda, con associazioni di pazienti. In seguito al suo attivismo 70 deputati hanno redatto la “legge di Holly” che chiede la sospensione della Ru486 e la revisione dell’iter che ha portato alla sua approvazione. Ma la legge non è mai stata approvata dal Congresso.
Signor Patterson, qual è il suo giudizio sulla pillola abortiva?
«La mia preoccupazione è la sua sicurezza per le donne. Per me è un problema di salute. Io volevo solo salvare mia figlia, ma non l’ho potuto fare. Tutto quello che mi resta è cercare di informare altre Holly di quello che può succedere loro».
Che informazioni dovrebbero avere?
«Al momento una 18enne come Holly non riceve abbastanza informazioni per prendere una decisione consapevole quando sceglie di terminare chimicamente la sua gravidanza. Nessuno ha interesse a spiegarle cosa le potrebbe succedere. Ma non solo a una 18ennne. Prenda Oriane Shevin. Era avvocato. Sposata, madre di due figli. Ha avuto una terza gravidanza e ha fatto come Holly. È andata in un consultorio, ha preso una pillola. È morta. Aveva ricevuto abbastanza informazioni? No. Quello che si trova su Internet, presso i medici che praticano aborti, sono i dati messi in circolazione dalla società che distribuisce la Ru486 negli Usa, la Danco Laboratories, o da organizzazioni abortiste. Sostengono che il rischio è minimo, che le infezioni sono rare e curabili. Non è vero! Queste donne sono lasciate sole e senza mezzi per difendersi».
È una delle caratteristiche della pillola abortiva quella di consentire l’aborto "fai da te"...
«I fatti mostrano che questa idea dell’aborto nella "privacy della tua casa" pone un fardello enorme sulle spalle delle donne. Le costringe a capire da sole quando qualcosa non va. Holly ha fatto tutto quello che le avevano detto. Dopo tre giorni ha chiamato il consultorio lamentandosi di forti crampi addominali, e le hanno detto di prendere una dose maggiore di antidolorifico. Il giorno dopo è andata al pronto soccorso. Le hanno dato un antidolorifico ancora più forte e l’hanno mandata a casa. Tre giorni più tardi è tornata all’ospedale e nel giro di poche ore è morta. Non aveva febbre, solo dolori. Altre tre donne hanno avuto gli stessi sintomi. E si sono sentite dire che era tutto normale».
Di chi è la colpa?
«I reparti di pronto soccorso non sono preparati a riconoscere i sintomi di infezioni come questa. Spesso le donne che vi si rivolgono non dicono nemmeno di aver assunto la pillola abortiva. Holly lo fece, ma non le fu di nessun aiuto».
L’ente americano che vigila sui farmaci – la Fda – ha ammesso che l’azienda distributrice della pillola abortiva non ha comunicato tutti i casi di "effetti avversi"...
«Sì, perché negli Stati Uniti queste comunicazioni sono volontarie. Sappiamo però che ci sono molte altre donne che hanno rischiato di morire o sono morte per colpa della Ru486, e di cui non è stato detto nulla. L’aborto è una procedura circondata dal segreto, specialmente nel caso di giovani come Holly: a 17 anni è rimasta incinta di un 24enne che non voleva farlo sapere ai genitori. Non possiamo scaricare sulle spalle di queste ragazze la responsabilità di dubitare delle informazioni che ricevono nei consultori o su Internet. Io stesso ho faticato a raccogliere dati affidabili».
Lei a chi si è rivolto?
«A Didier Sicard, professore di medicina all’Università Descartes di Parigi, ex presidente del Comitato bioetico francese che ha dato il via libera alla Ru486. Sua figlia, Oriane Shevin, è morta dopo aver assunto la pillola abortiva. Ora anche lui sostiene che i rischi legati alla Ru486 sono molto più alti di quanto si ammette, e che le informazioni circolanti non sono oggettive. I dati parlano di un rischio di "fallimento" del protocollo del 5-7%. Da dove vengono quei numeri? Dal distributore della pillola. È come chiedere alla volpe di fare la guardia al pollaio. Da quando mia figlia è morta sono stato contattato da decine di donne che mi hanno detto di dover la vita a Holly. Avevano preso la pillola, non stavano bene. Sono andate su Internet, hanno letto la mia storia, e sono corse all’ospedale dicendo che forse avevano un’infezione in atto. In alcuni casi era vero, e hanno ricevuto antibiotici in tempo».
È una consolazione?
«L’unica. Se Holly fosse sopravvissuta, sarebbe la prima a voler raccontare la sua storia per aiutare altre come lei. Non ho potuto proteggere mia figlia, forse posso proteggere le figlie di altri».
Elena Molinari da avvenire
Europa, gli anni di Erode
Dal 1997 tredici milioni di aborti
Nei 27 Paesi dell’Unione europea l’aborto è la causa di mortalità più estesa, ben prima dei decessi dovuti a incidenti stradali o a malattie come il tumore. Ogni secondo, negli Stati facenti parte l’Ue, si verificano 25 interruzioni di gravidanza, un trend che fa assommare all’enorme cifra di 1.237.731 gli aborti praticati in un anno (dati del 2007). Sono questi alcuni dei (terribili) numeri del rapporto «L’aborto in Europa» reso noto dall’Istituto europeo di politica familiare (Ipf), con sede a Madrid, e che diffonde i suoi studi in varie lingue. Proprio il Paese iberico è balzato di recente agli onori della cronaca per l’enorme marcia pro-vida tenutasi a Madrid contro la legge del governo Zapatero che apre la strada all’aborto libero per le minorenni.
«Le cifre parlano di migliaia di tragedie personali, famigliari e sociali davanti alle quali la società non può più continuare a restare indifferente – annota l’Ipf nell’introduzione al rapporto –. Tutto questo rappresenta una sfida prioritaria per la società e per le amministrazioni pubbliche, perché ogni madre che ricorre all’aborto costituisce una sconfitta per la società».
I numeri, dunque. Quelli del documento sono sconvolgenti: un milione e 200mila bambini non nati in un anno rappresenta l’intera popolazione una grande città del Continente. Nel decennio preso in considerazione l’Unione europea ha «perso» 13 milioni di bambini perché abortiti: come se scomparissero, assommate, l’intera popolazione della Svezia attuale e quella dell’Irlanda. Ciò significa che una gravidanza su 5 (il 19,1% per la precisione) nel Vecchio continente termina con un aborto. Tale fatto contribuisce all’«inverno demografico» che attanaglia l’Europa: nel 2008 le nascite sono diminuite di 774mila unità rispetto al 1982, con un saldo negativo del 12,5%.
Il rapporto di Ipf – che si basa su dati Eurostat e quelli forniti dai diversi Paesi – smonta alcuni cliché delle organizzazioni pro-aborto, ad esempio quello che recita «più contraccettivi = meno aborti». Orbene, se negli ultimi anni gli strumenti anticoncezionali hanno ormai dilagato – un esempio, la diffusione istituzionalizzata di preservativ nelle scuole superiori di diversi Paesi –, non per questo si assiste a un calo delle interruzioni di gravidanza. Anzi: se nel 1997 nei 15 Paesi allora facenti parti dell’Unione europea si registravano 837.409 aborti, dieci anni dopo questi sono saliti del 12,6%, arrivando a quota 931.396. Spagna e Gran Bretagna sono i Paesi con il maggior trend di crescita: Madrid ha avuto nel giro di 10 anni 62.500 aborti in più, il Regno Unito ha assistito ad un +27.500. Vi è un dato poi ulteriormente preoccupante, soprattutto sul versante educativo: un aborto ogni 7 viene richiesto da una donna con meno di 20 anni. Qui il primato spetta alla Gran Bretagna (48150), dove il problema delle adolescenti incinte rappresenta ormai un allarmante problema sociale, seguita da Francia (31779) e Romania (17272).
Ma quali sono i Paesi europei che nell’ultimo decennio hanno registrato il maggior numero di aborti? Il triste primato spetta alla Romania, con 2.114.639 aborti; segue la Francia (2.079.387), la Gran Bretagna (2.037.657), l’Italia (1.321.756), la Germania e la Spagna.
Una buona notizia arriva invece se si prendono in considerazione il numero di gravidanze soppresse nei dodici Paesi entrati a far parte della Ue negli ultimi anni, perlopiù nazioni dell’Est europeo: nel 1997 vi si praticavano 650.869 aborti, nel 2007 si è scesi a 306.335, con una diminuzione del 52,9%. Anche guardando alla situazione del nostro Paese, il rapporto di Ipf offre un lumicino di speranza: siamo uno dei Paesi in cui nell’ultimo decennio l’aborto è in calo. Nel 2007 da noi si sono avute 126.562 interruzioni di gravidanza, ovvero 13.604 in meno rispetto a 10 anni prima.
La Spagna rappresenta il «buco nero» dell’indagine di Ipf: se, come detto, essa è il Paese dei Ventisette dove l’interruzione di gravidanza si è più diffusa negli ultimi 10 anni, nel 2008 (secondo le stime di Ipf) avrebbe raggiunto quota 120mila aborti, diventando il 4° Paese Ue per vite nascenti soppresse.
Da questa amara constatazione l’Istituto di politica famigliare lancia un appello al mondo della politica: «È necessario e urgente che le amministrazioni pubbliche realizzino una vera politica di prevenzione (dell’aborto, ndr) basata sull’aumento dell’aiuto sociale ed economico in favore delle donne incinte» tralasciando di «perseguire politiche di contraccezione superate» che «non sono la soluzione più adeguata per la società. È necessario cogliere la sfida – chiosa il documento – e realizzare una vera politica di formazione – e non solo di informazione – in favore della vita aiutando le donne incinte».
Lorenzo Fazzini
E' semplice stare dalla parte giusta
Amare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene na¬turale. È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof¬fre. È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo. Innaturale e terri¬bile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel¬la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi¬coltà. Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile. Amare la vita è semplice. E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio. Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri¬mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen¬so di una verità basilare: ogni essere umano è « de¬gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita. Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
Chi sta con la vi¬ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria¬mente la finisce. Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario. Eppure, og¬gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar¬dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co¬sa è sbagliato. E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren¬derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari. Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor¬te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im¬portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser¬vono la vita e non la negano. Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca¬sa di cura ' Talamoni' di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine. E vi raccontiamo i medici che al Centro ' Cyclotron' dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem¬pre più impressionanti risposte scientifiche alle do-mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege¬tativo. Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol¬di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die¬ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag¬gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta¬nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua.
E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen¬te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub¬bliche strutture di assistenza). Questi sono gli esempi, i fatti. E poi ci sono le chiac¬chiere. I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe-ranza » , sarebbe crudele. Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso. L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi ma¬gistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co¬me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta¬mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten¬za degli inabili. Le chiacchiere anche feroci di chi, in¬somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose. Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen¬za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita. Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo¬no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro¬fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle. Parole cat¬tive che vogliono rendere «morte» sinonimo di «li¬bertà» , e perciò non sono e non saranno mai spec¬chio dell’animo vero della gente.
Marco Tarquinio
AL SUO FIANCO
«Lei, creatura. E l’evidenza della sua vitalità»
Nevica in questo inizio di febbraio, e il lago è can¬cellato dalle nuvole basse. Nella stanza al secondo piano del¬la clinica Beato Talamoni Eluana non c’è più da un anno, dalla not¬te del 3 febbraio 2009, quando un’ ambulanza la portò via, a Udine, dove sarebbe morta. Quella not¬te pioveva forte, e anche oggi su Lecco si rovescia pioggia mista a neve, ed è buio come se l’inverno non dovesse finire mai. In clini¬ca, tutto è uguale. Suor Albina Corti, la responsabile, è sempre di corsa tra corridoi e reparti. Quando finalmente si ferma e ti si siede davanti ne incontri il volto aperto da lombarda, restio alle parole e però incline al sorriso. «Sì, è un anno», dice, come chi ri¬corda qualcosa che ha costante¬mente nei pensieri. Poi, cam¬biando impercettibilmente il to¬no della voce: «Sa, l’altro giorno u¬na dipendente è venuta ad an¬nunciarmi che aspetta un bam¬bino. Era contenta e anche un po’ preoccupata, per via del lavoro. Ma, le ho detto, i problemi li af¬fronteremo: intanto dobbiamo essere felici per il tuo bambino che arriva. E insieme abbiamo gioito di questa nuova vita. Allo¬ra, istintivamente ho pensato a E¬luana. Era viva anche lei, mi sono detta; era anche lei come quel bambino una persona, una crea¬tura» . Una persona, e quasi una figlia, dopo quindici anni qui dentro. Imboccata, lavata, accudita per quindici anni.
Suor Rosangela, quella che era accanto a Eluana ogni giorno, non partecipa a que¬sto colloquio, non interrompe il suo silenzio. Ma anche nei tratti forti di suor Albina, in quel dire ' era viva', compare un’incrina¬tura, l’affiorare di una sofferenza profonda.
Madre, «se per qualcuno è mor¬ta, lasciatela a noi che la sentia¬mo viva» : furono le vostre sole parole un anno fa. Per molti E¬luana era solo un corpo vegetan¬te. In quale modo voi la sentiva¬te viva?
«Che fosse viva – risponde la suo¬ra – era un’evidenza, e non solo perché respirava naturalmente, senza alcuna macchina. Pensi a un bambino neonato: non capi¬sce, non parla, non risponde, ma forse non è una evidenza che è u¬na persona? E quel solo suo esse¬re vivo, non dà gioia?»
Le risponderebbero in molti: un bambino cresce e va verso la vi¬ta, Eluana era lì da tanti anni im¬mobile, assente…
« Non era così totalmente inerte e assente. Quando la si chiamava per nome reagiva con una quasi impercettibile agitazione che però noi, abituate a starle accan¬to, coglievamo. E la sua pelle, sembrava assaporare le carezze. Certo sperare in un migliora¬mento non era immaginabile, a meno di chiamare questo miglio¬ramento ' miracolo'. Però Eluana era viva. Quando l’altro giorno ho sentito delle ricerche riportate dal New England Journal of Medicine su quei pazienti in stato vegetati¬vo in cui alcune aree cerebrali rea¬giscono agli stimoli, mi sono chie¬sta se anche lei non poteva esse¬re in simili condizioni» .
Com’era concretamente la gior¬nata di Eluana, come viveva in quella stanza al secondo piano?
«Molti si immaginano una came¬ra di rianimazione, un corpo at¬taccato a una macchina. Qui non c’era nessuna macchina. Eluana respirava naturalmente. Al matti¬no veniva lavata, e per tagliarle i capelli ogni tanto veniva un par¬rucchiere. Era una donna fisica¬mente sana, bella, non magra, mai ammalata, con una pelle ro¬sea da bambino. Dopo l’igiene c’era la fisioterapia, poi veniva messa in carrozzella, se c’era bel tempo si andava in giardino. A Natale, l’avevamo portata in chie¬sa con noi» .
È la vita che fa oggi in una di que¬ste stanze un altro paziente nelle stesse condizioni. Nella sua ca-mera però si alternano la moglie e i parenti e gli amici, in una rete di affetti. Eluana, di visite non ne riceveva quasi: negli ultimi tem¬pi il padre aveva ristretto la cer¬chia delle persone ammesse a ve¬dere la figlia. Suore, infermiere e medici le erano però sempre ac¬canto. Suor Rosangela, soprattut¬to. E non smettevano di parlarle, come si parla a una persona viva. «Quel giorno che è stato annun¬ciato che venivano a prenderla – riprende suor Albina senza guar¬darci, come fissa nel suo ricordo – noi non ci credevamo. Era stato minacciato tante volte, e non era successo niente. Quel pomerig¬gio invece è arrivato il padre, e mi ha detto che Eluana se ne anda¬va. L’ho pregato: ci ripensi, per fa-vore, signor Englaro. Lui non ha risposto, ha salutato e se ne è an¬dato. Mi è sembrato in quel mo-mento un uomo pietrificato dal¬la sua stessa scelta» . E in quella notte di pioggia, ri¬corda la suora, «Eluana sembra¬va all’improvviso agitata. Sono ar¬rivati gli infermieri. Noi le parla¬vamo, le ripetevamo di stare tran¬quilla. Le dicevamo che andava in un posto in cui le volevano be¬ne» ( di nuovo la voce della suora si incrina). « Le abbiamo dato un bacio. L’hanno portata via» .
L’assedio dei giornalisti, il lam¬peggiare dei flash, l’Italia ammu¬tolita a guardare. E qui quella stanza abbandonata. Le fotogra¬fie e i quadri alle pareti, i due pe¬luches sul letto ( il terribile vuoto delle stanze di chi se ne va per sempre). E le quattordici Miseri¬cordine di Lecco a aspettare, in¬sieme a tutta la loro congregazio¬ne: a pensare a quella ragazza, per quindici anni come una figlia, che andava a morire di sete e di fame. Quelle donne, a pregare. Madre Albina tace, le parole non possono bastare. Dice solo, pen¬sando all’ultimo saluto: «Ho pen¬sato che la Via Crucis la si fa da soli. Anche il Signore, quel gior¬no, si è trovato solo» . Dai corridoi intanto, dalle stanze, il sommesso rumore di un ospe¬dale quieto e affaccendato: car¬relli che passano, telefoni che suonano, voci. (Qui e altrove, in chissà quante case di cura, quan¬ti malati ogni giorno, passivi in un letto, vengono lavati, curati, ali¬mentati come Eluana? Non in sta¬to vegetativo magari, ma sempli¬cemente persi nella demenza o nell’Alzheimer; o nati incapaci, e per sempre incoscienti e bambi¬ni? Li curano, li accudiscono nel¬l’antica certezza quasi tacita¬mente tramandata dal cristiane¬simo: sono persone. Ma, pensate a un mondo di questa certezza di¬mentico, che rivendicando li¬bertà, diritti e 'dignità della vita' mandi gli inermi a morire, come Eluana. E poi come su Wikipedia affermi di lei: morta 'per morte naturale').
Madre, lei cosa risponderebbe a quelli, e sono tanti, che dicono: se toccasse a me d’essere immo¬bile e incosciente in un letto, fa¬temi morire?
«Direi di pensarci davvero. Senza fermarsi a immaginare astratta¬mente ciò che non sanno. Perché organizzano una vita da malati di cui non hanno alcuna esperienza. E una morte, di cui sanno ancor meno» .
Una pausa. « Perché, vede – e qui la suora sembra riprendere ener¬gia e speranza – certi pazienti co¬me Eluana bisogna vederli con i propri occhi. Non immaginarli soltanto: perché allora prevale la paura. Vederli come sono, vivi, in una stanza piena delle loro cose, come una stanza di casa nostra; vivi e così indifesi, così inermi. Proprio come bambini neonati. Come si può non amare chi è co¬sì inerme e bisognoso di noi, an¬che se non capisce e non rispon¬de? Come si può non amare un bambino?» . E c’è in questa domanda la chia¬ve della dedizione delle Miseri¬cordine a Eluana, e di tanti altri, a tanti altri sconosciuti malati. Un amore per la vita non astratto, ma che attinge alla sorgente di una maternità profonda, e più gran¬de di quella carnale. Dove un pa¬dre ha giudicato che quel modo di vita era intollerabile, non degno, delle madri per quindici anni hanno abbracciato: grate di un fremito della pelle, grate comun¬que di quel respiro. Come due di¬versi sguardi sul mondo si sono incrociati sopra a questa tran¬quilla clinica di Lecco. Poi, quel¬la notte, l’ambulanza è partita e E-luana se ne è andata. Altri come lei, forse, arriveranno. E suor Al¬bina e le sue sorelle e le infermie¬re li cureranno. Serene, certe. Co¬me dicendo, nella forza pacata delle loro facce: «Non vedete? È un’evidenza, che sono vivi».
Dal nostro inviato a Lecco Marina Corradi
IL LUNGO CALVARIO
Quando Eluana chiamò «mamma»
Ospedale di Sondrio, Divisione di Lun¬godegenza, ore 4 del mattino del 15 ottobre 1993. Eluana è in stato vege¬tativo 'permanente' – come si diceva allora – da quasi due anni. Nella sua stanza succe-de qualcosa: «La paziente ha cominciato a la¬mentarsi facendo versi...», si legge nella 'Do-cumentazione clinica' che la riguarda (e rac¬conta i 17 anni dall’incidente alla morte). Non è un’eccezione che Eluana emetta suoni, so¬spiri, gemiti, le accade da due anni e lo farà per altri 15, fino al giorno prima della morte a 'La Quiete' di Udine. Ma quella notte non si placa, forse appare più agitata del solito, forse ha accanto un’infermiera più attenta, forse lì con lei è rimasta sua madre, non lo sappiamo. Fatto sta che Eluana continua a 'lamentarsi', come volesse dire qualcosa, e chi è lì la incoraggia, porge l’orecchio a quei 'versi', finché – è scritto nella cartella clinica – «stimolata a dire la parola 'mamma' è riu¬scita a dirla due volte, in modo comprensibi¬le».
Sono passati quasi due anni dall’inciden¬te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi¬ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im¬magine cui ci si rivolge nel bisogno. Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so¬spiro più lungo... Messaggi spediti dal profon-do di una coscienza nascosta, da sottolinea¬re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go¬mito sinistro», era scritto qualche pagina pri¬ma. Ogni genitore resta sempre in attesa, scru¬ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga¬ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac¬carezza, spera.
Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma¬dre», ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia». Poi quel¬l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co¬me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do¬po anni di silenzi: «Mamma, mamma». Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di 'sonno', di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi¬mento». È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai. Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise¬ricordine, dove la famiglia chiede che sia o¬spitata perché è là che Saturna l’aveva parto¬rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa. La speranza non muore, specie se i me¬dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata¬mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»...
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo¬le vedere? No, osservazioni di medici e in¬fermieri: «...Emetteva qualche vocalizzo, fis¬sava e cercava di incrociare lo sguardo del¬l’interlocutore ». «Messa prona con appog¬gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo». « Sembra muovere le dita dei piedi su co¬mando... ». Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo». La speranza non muore, ma ce ne vuole dav¬vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano. Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not¬te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan¬do il padre la fa trasferire a 'La Quiete' di U-dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial¬mente finalizzato al suo «recupero funziona¬le» e «alla promozione sociale dell’assistita»). E durante il viaggio questa volta Eluana si di¬batte, fino a espellere il sondino.
Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola
RISVEGLIATO
Massimiliano, rinascere con un segno di croce
Due vite parallele, quelle di Eluana e Massimiliano, alme¬no per un lungo tratto: han¬no entrambi 21 anni quan¬do un incidente d’auto, a pochi mesi l’uno dall’altro, interrompe il corso norma¬le della vita e spazza via pensieri, azioni, speranze. Per entrambi è l’inizio del lungo sonno, chiusi in un corpo che sembra non co¬municare più nulla a nes¬suno. Poi nella vita di Max succede qualcosa e tra i due giovani è il bivio: «Dopo quasi 10 anni di stato vege¬tativo, la sera di Natale del 2000 Max ha sollevato la mano e ha fatto da solo il gesto che gli avevo sempre fatto fare io, il segno della Croce. Credevo di essere impazzita» . Così Lucrezia Tresoldi, la mamma che, con il marito Ernesto, ave¬va passato giorni e notti at¬torno a quel figlio, parlan¬dogli, muovendogli braccia e gambe, stimolandolo sen¬za sosta.
Qual era stata la diagnosi?
Il cervello era così lesiona¬to che i medici escludevano nel modo più assoluto qual¬siasi ripresa anche parzia¬le. Un neurologo fece un paragone: Max era come u¬na centralina elettrica, se tagli i fili non ci sarà mai più alcun contatto. Sulla cartel¬la clinica scrivevano ogni giorno ' non collabora'. Non vedevano segni di ri¬sposta, loro.
Perché, voi li vedevate?
Io un giorno colsi il movi¬mento di un mignolo. Ma i neurologi dissero che era un riflesso condizionato, che mi illudevo. Negli anni quante volte ci hanno dato degli illusi o dei visionari...
Oggi i fatti vi danno ragio¬ne, ma in effetti non era fa¬cile credervi, allora.
Il fatto incredibile è che quelle lesioni cerebrali Max le ha ancora, come rileva la risonanza magnetica, il che prova quanto poco si sap¬pia del cervello umano. Per tanti anni nessun se¬gno di coscienza. Poi? Dopo nove anni di stato ve¬getativo abbiamo visto un sorriso. I neurologi soste-nevano che era uno spasmo involontario, ma la cosa si ripeté e mai per caso, sem¬pre quando gli amici di Max lo venivano a trovare. Un anno dopo, quando nostro figlio si è risvegliato, ci ha spiegato quei sorrisi... Du¬rante quei lunghi dieci an¬ni Massimiliano era sempre stato ' qui', con noi, solo che non poteva comuni¬carlo. Al risveglio ricordava perfettamente chi in passa¬to era venuto a trovarlo, rac¬contava episodi avvenuti in camera sua...
Quanto conta che lo ab¬biate portato a casa e la fa¬miglia gli sia sempre stata accanto?
Gli studi dimostrano che lo stimolo maggiore per que¬sti casi è proprio il contatto con i genitori. Anche l’in¬fermiere più bravo non po¬trà mai trasmettere le sen¬sazioni, i rumori, gli ' odo¬ri' della famiglia, soprat¬tutto l’amore, che sul cer¬vello ha effetti molto forti. Quando lo abbiamo porta¬to a casa, dopo 8 mesi di o¬spedali e di sondino, aveva già ricevuto l’estrema un¬zione, non poteva più de-glutire, pesava 39 chili, era tutto piagato, aveva 40 di febbre. Noi a casa gli abbia¬mo tolto il sondino e, cuc¬chiaino per cucchiaino, lo abbiamo imboccato con i frullati, a ogni sorso gli muovevamo il collo perché imparasse il movimento giusto. Ci sono voluti mesi.
Il giorno prima della mor¬te, l’équipe di Udine ha provato a far bere acqua a Eluana per dimostrarne l’incapacità.
Una follia: a una persona in agonia? E con i liquidi Max si strozza anche oggi che mangia spaghetti e cotolet¬te. Comunque ci vogliono mesi e mesi di esercizio co¬stante, dopo anni di sondi¬no.
Max accetta la sua disabi¬lità?
È un ragazzo felice e rin¬grazia Dio se tre medici su cinque si opposero al di¬stacco dalle macchine. Da un mese a questa parte sta pronunciando sempre nuove parole e ora ha il so¬gno di camminare, grazie a uno speciale ausilio che però aspettiamo dall’Asl... Lo vedremo mai?
Che aiuti ricevete dalla Asl?
Tre ore a settimana di fisio¬terapia, cioè zero. Ci siamo comprati il letto antidecu¬bito, l’aspiratore per il ca¬tarro, la palestra. Solo da un anno ci possiamo permet¬tere il logopedista, ma quanti anni fa Max avrebbe parlato, se le sedute fosse¬ro iniziate prima? Perché nessun genitore in questo anno ha seguito la via aperta da Englaro? Tutti combattono per otte¬nere gli aiuti e garantire a questi figli le cure cui han¬no diritto, non per farli mo¬rire. Magari avessimo tutti le suore Misericordine.
Lucia Bellaspiga
LA RICERCA IN BELGIO
Liegi, dove si trova la vita anche nei «vegetativi»
Chilometri di fili, scrivanie som¬merse di cartelle cliniche, i ri¬cercatori che studiano accam¬pati nei corridoi, perché manca lo spazio, ma c’è così tanto da fare: il Centro Cyclotron dell’Università di Liegi è, a oggi, l’unico posto al mon¬do in cui le domande sullo stato ve¬getativo trovano una risposta. Non è la risposta del cuore, o della fe¬de, o dell’etica: quelle sembrano non bastare a chi ragiona in termini di 'e¬videnze' sulla vita umana. A Liegi la risposta è quella oggettiva della scienza, e a piantartela davanti agli occhi è un fisico nucleare che del¬l’etica potrebbe persino infischiarse¬ne. Non fosse per quella videata in cui un cervello comincia a colorarsi, a da¬re segnali di coscienza e attività là do¬ve era impossibile persino sognarle. Non fosse che il cervello appartiene a un malato in stato vegetativo da 5 an¬ni – la giovane vittima di un inciden¬te stradale, per essere precisi – in un Paese come il Belgio, dove l’eutanasia è pratica legale già da tempo.
Da qualche mese è lui il protagonista indiscusso del laboratorio di Steven Laureys e lo è anche della ricerca ap¬pena pubblicata sul New England Journal of Medicine, che tanto ha fat¬to scalpore sui giornali e in tv. Perché questo 'vegetale', considerato privo di ogni traccia di coscienza e perce¬zione di sé, incapace di seguire gli og¬getti con gli occhi e inchiodato a un letto senza via di scampo, senza bat¬tito di ciglio, può comunicare. Può di¬re sì o no, se qualcuno gli chiede con¬ferma del suo nome. Può spostarsi, mentalmente, e allo stesso modo per¬sino giocare a tennis. Pensare che a vederlo dal vetro dell’o- spedale, Alan (lo chiameremo così, per questioni di privacy), è un caso disperato. Proprio come Rom Hou¬ben, l’uomo che ha commosso il mondo raccontando i suoi sedici an¬ni di urla nella gabbia dello stato ve¬getativo, e che oggi è a Liegi, per una visita di controllo.
Lo vedi coricato nello scanner, coi suoi movimenti in¬consulti, senti la voce della dottores¬sa Audrey che gli dice «relax», attra¬verso il microfono: nella stanza ci so¬no sei medici, fuori altrettanti prati-canti e ricercatori, ed è incredibile, perché al centro di questo consesso i¬perspecializzato, al cuore di tanta at¬tenzione e del dibattito che si innesca davanti alle immagi¬ni della risonanza magnetica, c’è quel¬la che per alcuni è so¬lo una vita spezzata, inutile, un fantasma d’essere umano. Non qui. 'Miracoli' di Liegi, li chiamano: in realtà non c’è alcun prodigio in corso, se non quello di vedere la vita – e non smet¬tere di cercarla – là dove sembrereb¬be aver vinto la morte. Il Cyclotron non è l’Enterprise, non siamo nello 'spazio profondo': il pa¬lazzo grigio è un po’ scalcinato, un punti¬no sulla collina uni¬versitaria di Liegi, e la struttura è pubblica, finanziata nei tempi e nei modi noti an¬che in Italia, efficaci magari, ma lenti. Ci sono i macchinari che troveresti in qualsiasi altro ospe¬dale o centro di ri¬cerca: la Pet (la tomografia a emissio¬ne di positroni), la Rmnf (la risonan¬za magnetica nucleare funzionale).
Ci sono gli specialisti che preparerebbe ogni università: neurologi, psicologi, fisici, chimici. Eppure qui c’è una ri¬voluzione in corso, che attira le mae¬stranze intellettuali di mezzo piane¬ta e non accenna ad arrestarsi. Inizia con Athena, Audry e Marie Aurélie: età media 25 anni, la prima greca, la seconda fiamminga, la terza italo¬belga. Insieme, sono l’enciclopedia di neurologia applicata ai disordini di coscienza che tutti gli specialisti del campo vorrebbero in tasca. La matti¬na vanno in corsia, incontrano le fa¬miglie dei pazienti, effettuano i test comportamentali sui vegetativi: la pressione sulle dita, il giro della stan¬za con lo specchio (i pazienti in que¬sto seguono più facilmente la propria immagine con gli occhi, che quella di un oggetto), le stimolazioni sonore. È il protocollo aggiornato della Coma recovery scale, quello che qui è basta¬to già un centinaio di volte per rico-noscere una diagnosi sbagliata su un paziente (risultato non essere affatto vegetativo) e che è facilmente reperi¬bile online. Eppure il resto del mon¬do – tranne Athena, Audrey e Marie Aurelie – sembra non saperlo. Il pomeriggio tocca agli esami: le ri¬sonanze, le tomografie, in una paro¬la le partite di tennis. In un altro la¬boratorio Andrea Soddu, fisico delle particelle italiano convertito alle neu¬roscienze, analizza le immagini del cervello dei pazienti a riposo, ottenu¬te con la risonanza. Immagini e ana¬lisi, anche qui nessun prodigio.
Dopo una settimana la normalissima riu¬nione di confronto, in cui tesi e anti¬tesi sono messe in campo, e si giun¬ge a una diagnosi condivisa. Steven Laureys, che è il responsabile del Coma group, lo ripete di continuo a chi incontra, a chi telefona, ai con¬vegni e alle conferenze: «Quello che facciamo può essere fatto da qualsia¬si parte, si deve solo cominciare». Non basta: nel pomeriggio arrivano altre cinque chiamate, una è dall’Italia. È la mamma di Luca, vive a Milano, suo fi¬glio è immobile e in stato vegetativo da dodici anni. Chiede aiuto. Vorreb¬be che i medici di Liegi lo vedessero, perché «siete gli unici a vedere vera¬mente ». Sarebbe disposta a dividere la spesa con un’altra famiglia, anche loro hanno un figlio così. Non hanno abbastanza soldi per il viaggio però, e forse il ragazzo non è trasportabile: «Perché i medici che ho incontrato fi¬nora non mi hanno detto niente di più?». Stato vegetativo, ci sono rispo¬ste. Basta vederle. Il professor Steven Laureys (il medico al centro) insieme a due assistenti del Centro Cyclotron che dirige all’Università di Liegi, durante l’esame clinico a un paziente
Dal nostro inviato a Liegi Viviana Daloiso
IL CAMMINO DI SPERANZA
I familiari dei pazienti: una rete di solidarietà per fare vivere i nostri cari
L e famiglie di coloro che sono colpiti da una grave lesione cerebrale o che sono caduti in stato vegetativo sono vittime solo in seconda battuta, ma devono soppor¬tare un carico di fatica e di dolore che sgo¬mentano. E tuttavia non rinunciano, anche a prezzo di grandi sacrifici, a prestarsi nell’aiu¬to ai loro cari. In questo anno trascorso dalla morte di Eluana Englaro hanno però ottenu¬to che la società si accorgesse un po’ di loro e riflettesse su quale siano le necessità delle per¬sone colpite da queste gravissime disabilità. Quel che conta, lo slancio che permette di an¬dare avanti, sottolineano i rappresentanti del¬le associazioni dei familiari, «è l’amore verso i propri cari». «Noi ripetiamo che anche in stato vegetativo sono persone, che hanno gli stessi diritti de¬gli altri cittadini, in particolare quello di ave¬re una vita con una qualità dignitosa». P
aolo Fogar, presidente della Federazione naziona¬le associazioni trauma cranico (Fnatc) si ri¬chiama alla Carta di San Pellegrino e alla Con¬venzione Onu sui diritti delle persone con di¬sabilità per richiamare le richieste di assi- stenza che le famiglie ripetono. «È importan¬te che quei documenti non restino enuncia¬ti. Occorre lavorare perché si trovino mezzi e sostegni, non solo economici, per aiutare le fa¬miglie: che non parlano di morte, ma di vita». Anche Gian Pietro Salvi, presidente della Re¬te- associazioni riunite per il trauma cranico e le gravi cerebrolesioni acquisite, aggiunge: «Le famiglie sono gli eroi del quotidiano, la batta¬glia è comunque lunga e logorante: se non so¬no aiutate, si ammalano. È compito delle isti¬tuzioni e della società non lasciarle sole». E da questo punto di vista la presenza delle asso¬ciazioni che lavorano al tavolo istituito al mi¬nistero della Salute per giungere a scrivere un Libro bianco dell’assistenza a queste persone è un primo passo, ma cruciale, sottolinea Ful¬vio De Nigris, direttore del Centro studi ricer¬ca sul coma-Gli amici di Luca onlus. «È mol¬to importante anche come si comunicano le notizie relative al coma e agli stati vegetativi: occorre infatti tutelare queste persone grave¬mente disabili, raccontare ciò di cui hanno bi¬sogno e le strutture dedicate disponibili (che sono ancora poche). Se c’è stato un frutto del¬la vicenda Englaro è proprio la reazione di tut¬ti coloro che vivono questi problemi e che so¬no riusciti un po’ a farsi sentire».
«Da un lato – osserva Paolo Fogar – sono sta¬ti fatti progressi, ma la situazione è ancora a macchia di leopardo. Accanto a Regioni, co¬me Lombardia e Friuli-Venezia Giulia, che danno anche un contributo economico alle fa¬miglie, i Livelli essenziali di assistenza (Lea) non prevedono la riabilitazione a lungo ter¬mine per queste persone, che ne hanno biso¬gno sempre per evitare spasticità. Ma i fami¬liari continuano a parlare di vita e non di mor¬te ». E si battono in tutte le sedi: una di queste sono le conferenze di consenso con le società scientifiche, dove vengono stilate le racco¬mandazioni che devono diventare buona e ordinaria prassi medica e assistenziale.
«En¬tro la fine dell’anno – aggiunge Fogar – parte¬ciperemo alla conferenza di consenso della Simfer (Società italiana di medicina fisica e riabilitativa) sulla buona pratica nella riabili¬tazione ospedaliera delle persone con gravi cerebrolesioni acquisite. Mentre questo me¬se a Siena le associazioni saranno presenti a un’altra conferenza di consenso sulla riabili¬tazione cognitiva dell’adulto. Si tratta di a¬spetti importanti, che toccano la vita di que¬ste persone: le famiglie si battono per la vita, ma servono riabilitazione, ausili, valutazioni accurate». Questi documenti, poi, per diven¬tare prassi «devono essere portate in Confe¬renza Stato-Regioni». Solo così si concretizzano gli aiuti e si evita la solitudine, «la vera condanna di queste fami¬glie – sottolinea Fulvio De Nigris –, che ri¬schiano di sentirsi isolate dal resto della so¬cietà. D’altra parte occorre anche fare molta formazione nella società, a partire dai giova¬ni ». «Ci vuole amore, passione e competenza per dedicarsi a queste persone – conclude Sal¬vi – ma le famiglie lo fanno per uno slancio vi¬tale di amore verso i loro cari».
Enrico Negrotti
Bambini Down,
la strage silenziosa
Oggi le reazioni all’assurdo gruppo di Facebook sono perlopiù solidali e indignate, ma non sempre la nostra società mostra sentimenti di accettazione verso le persone con sindrome di Down (SD). Senza elencare un lungo elenco di discriminazioni più o meno palesi che queste persone devono spesso sopportare, c’è un dato abbastanza significativo: nella stragrande maggioranza dei casi di fronte a una diagnosi prenatale di SD, la gravidanza si conclude in un aborto. Non sono opinioni, ma i dati che emergono dalle poche indagini scientifiche condotte sull’argomento, come il recente articolo pubblicato il 26 ottobre scorso dal British Medical Journal (2009; 339:b3794) che indica come Oltremanica nell’arco di vent’anni siano leggermente diminuite (meno 1 per cento) le nascite di bambini con sindrome di Down, mentre l’aumento dell’età materna ne faceva prevedere un incremento significativo (più 48 per cento): a essere aumentati altrettanto sono stati i test prenatali. E anche in Europa, secondo un’indagine del 2003, veniva indicato un calo nei nati tra il 1975 e il 1999 statisticamente significativo. In Italia l’incidenza dei bambini con SD è di circa 1 ogni 1000-1200 nati – secondo diverse valutazioni – cioè 500-600 bambini l’anno.
L’indagine condotta da Joan Morris, docente di statistica medica all’Università di Londra, e da Eva Alberman, professore emerito, è significativa nella crudezza dei numeri. Vengono presi in esame i nati vivi con sindrome di Down e le diagnosi prenatali in Inghilterra e Galles tra il 1989 e il 2008, analizzando i dati del Registro nazionale di citogenetica della sindrome di Down. In un riquadro riassuntivo si indica che era già noto che le madri più anziane sono maggiormente a rischio di concepire bambini con la sindrome di Down, e che gli screening prenatali per la sindrome di Down sono più disponibili oggi rispetto ai primi anni Novanta. Quello che la ricerca aggiunge è che «il numero di diagnosi di sindrome di Down è cresciuto del 71 per cento (da 1075 nel 1989/90 a 1843 nel 2007/2008), mentre i nati vivi sono diminuiti dell’1 per cento (da 755 a 743), a causa degli screening prenatali e delle conseguenti interruzioni di gravidanza». Dal punto di vista demografico si osserva che «in assenza di screening prenatali e conseguenti aborti, il numero di nascite di persone con sindrome di Down sarebbe cresciuto del 48 per cento a causa della scelta dei genitori di far famiglia più tardi».
Analoghi risultati ha ottenuto una ricerca condotta nel 2003 da Daniela Pierannunzio, Pierpaolo Mastroiacovo, Piero Giorgi e Gian Luca Di Tanna che ha preso in esame i dati relativi a 31 registri internazionali delle malformazioni congenite raccolti dall’International Clearinghouse for Births Defects monitoring Systems nel periodo tra 1974 e 2000. I risultati generali indicano che la prevalenza alla nascita totale è pari a 9,07 per 10mila nascite con un calo nel corso degli anni statisticamente significativo. In particolare si passa da 16,10 bambini con SD ogni 10mila nati nel 1975 a 6,09 nel 1999: un risultato «dovuto al corrispondente aumento di interruzioni di gravidanza a sua volta dovuto alla diffusione generalizzata della diagnosi prenatale».
Si tratta di risultati che devono far riflettere ma che non possono stupire, se solo si ricorda il dibattito che ha preceduto (e seguito) l’approvazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita e la campagna referendaria. Il ritornello di chi sosteneva la necessità di effettuare la diagnosi preimpianto era per eliminare «alcune gravi patologie», quali appunto sindrome di Down (che non è una malattia), fibrosi cistica, talassemia. Inutile dire che, siccome cure per correggere la sindrome di Down non esistono, la «cura» si traduce in una eliminazione dell’embrione: anche perché – si sosteneva (e si sostiene), la donna poi può sempre abortire. E anche se la legge 194 non prevede affatto l’eliminazione del feto per motivi di discriminazione genetica, questo avviene spesso. Al punto che il clamoroso caso dell’aborto «sbagliato» nel 2007 all’ospedale San Paolo di Milano non ha sollevato nessuna onda di protesta. Era stato deciso di abortire selettivamente la gemellina con SD: un errore in fase di intervento portò invece alla morte di quella sana. Ma la bambina con SD fu eliminata con un secondo aborto. Recentemente sono stati assolti i medici che avevano compiuto l’intervento errato: non per violazione della 194, bensì per l’imperizia dell’operazione.
Enrico Negrotti AVVENIRE
giovedì 4 febbraio 2010
LA GIOIA DI CREDERE ALLA VITA E SALVARLA NONOSTANTE TUTTO
Finge un aborto per far
nascere la sua bambina
I suoi genitori avrebbero voluto farla abortire, ma lei ha gridato il suo "no" nel modo più coraggioso. Adesso stringe tra le braccia la sua bambina che, ignara di tutto, chiude i pugnetti e sorride. Miriam (il suo è un nome di fantasia) ha 25 anni e una volontà di ferro. Ha scelto la vita andando contro la volontà dei genitori, contro i benpensanti, contro i pregiudizi. Ora ne è fiera ed è lieta di raccontare al mondo la sua gioia, perché nessun’altra donna si trovi costretta a rinunciare a una nuova vita.
La sua è la storia di una ragazza di un paesino della provincia siciliana. Proviene da una buona famiglia, studia all’Università, ma, durante una relazione con un uomo di cui preferisce non parlare, scopre di essere incinta. È spaventata, eccitata, emozionata. L’idea di interrompere la gravidanza non la sfiora nemmeno. Così, come racconta il "Giornale di Sicilia", si confida con i genitori, ma trova un muro di vergogna e dissenso. «Devi abortire, non sei sposata, non possiamo perdere la faccia», le dicono. Miriam non riesce neppure a replicare, non ci vuole credere, si sente terribilmente sola. Ma non perde la ragione e nemmeno il coraggio. «Ho amato la mia creatura sin dal concepimento – racconta con emozione, ancora coricata nel letto di ospedale –. Ho una solida vocazione genitoriale e non potevo permettere a nessuno che la scintilla di vita che si era accesa nel mio grembo venisse spezzata».
Ricorre allora a uno stratagemma. Simula un aborto spontaneo, cosicché non è necessario recarsi in ospedale. Poi, quando i genitori si sono rasserenati, cerca di trovare un’altra strada per far crescere quella vita. Riflette, si rivolge ai servizi sociali attraverso il Centro aiuto alla vita del suo paese, chiede di essere aiutata a continuare la gravidanza. La informano che a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, esiste il centro di accoglienza "Don Pietro Bonilli", gestito dalle suore della Sacra Famiglia, nato proprio per ospitare le donne in difficoltà. Quasi due anni fa Niscemi era salito agli onori della cronaca per una terribile storia di violenza da parte di tre minorenni che massacrarono e gettarono in un pozzo una ragazza di 14 anni, Lorena Cultraro. Oggi, a pochi giorni dalla Giornata per la vita, diventa il luogo della speranza.
Miriam pensa che sia la Provvidenza a indicarle quella strada. Così, dice ai genitori che deve andare in una città lontana per motivi di studio e, invece, va a Niscemi dove trova suor Genoveffa Calì e suor Provvidenza Orobello a braccia aperte. La più anziana, suor Genoveffa, diventa una seconda mamma per Miriam: la conforta, la sostiene, le dà la forza per andare avanti e non demoralizzarsi, le è vicina al momento delle doglie del parto. Il 26 gennaio scorso Miriam si ricovera all’ospedale di Niscemi "Suor Cecilia Basarocco", dove viene alla luce la piccola Gianna, una bellissima bambina paffuta e piena di capelli corvini. Miriam ha voluto darle il nome di Santa Gianna Beretta Molla, che strenuamente ha difeso la vita della creatura che portava in grembo. La gioia è infinita, indescrivibile. Ma Miriam, poche ore dopo il parto, viene colpita da una forte emorragia. La sera stessa l’équipe del dottore Giovanni Di Leo interviene per bloccarla. Adesso stanno bene sia la mamma che la figlia. Nella stanza del reparto è un viavai di suore, volontarie, nuove amiche di Miriam.
Fanno a gara per cambiare pannolini, mettere la tutina alla piccola, cullarla. «Questa ragazza ha mostrato una fragilità e una forza incredibili. È vero che il Signore non abbandona i deboli», commenta suor Provvidenza, 38 anni, responsabile della casa. E racconta il lieto fine della storia. «Dopo la nascita di Gianna, Miriam ha voluto chiamare i suoi genitori ai quali aveva nascosto dove si trovava realmente e per quale motivo - aggiunge suor Provvidenza -. Papà e mamma sono rimasti sbalorditi, ma sono venuti subito a trovarla. Pochi giorni fa, nonni, mamma e nipotina si sono riabbracciati».
Alessandra Turrisi AVVENIRE
nascere la sua bambina
I suoi genitori avrebbero voluto farla abortire, ma lei ha gridato il suo "no" nel modo più coraggioso. Adesso stringe tra le braccia la sua bambina che, ignara di tutto, chiude i pugnetti e sorride. Miriam (il suo è un nome di fantasia) ha 25 anni e una volontà di ferro. Ha scelto la vita andando contro la volontà dei genitori, contro i benpensanti, contro i pregiudizi. Ora ne è fiera ed è lieta di raccontare al mondo la sua gioia, perché nessun’altra donna si trovi costretta a rinunciare a una nuova vita.
La sua è la storia di una ragazza di un paesino della provincia siciliana. Proviene da una buona famiglia, studia all’Università, ma, durante una relazione con un uomo di cui preferisce non parlare, scopre di essere incinta. È spaventata, eccitata, emozionata. L’idea di interrompere la gravidanza non la sfiora nemmeno. Così, come racconta il "Giornale di Sicilia", si confida con i genitori, ma trova un muro di vergogna e dissenso. «Devi abortire, non sei sposata, non possiamo perdere la faccia», le dicono. Miriam non riesce neppure a replicare, non ci vuole credere, si sente terribilmente sola. Ma non perde la ragione e nemmeno il coraggio. «Ho amato la mia creatura sin dal concepimento – racconta con emozione, ancora coricata nel letto di ospedale –. Ho una solida vocazione genitoriale e non potevo permettere a nessuno che la scintilla di vita che si era accesa nel mio grembo venisse spezzata».
Ricorre allora a uno stratagemma. Simula un aborto spontaneo, cosicché non è necessario recarsi in ospedale. Poi, quando i genitori si sono rasserenati, cerca di trovare un’altra strada per far crescere quella vita. Riflette, si rivolge ai servizi sociali attraverso il Centro aiuto alla vita del suo paese, chiede di essere aiutata a continuare la gravidanza. La informano che a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, esiste il centro di accoglienza "Don Pietro Bonilli", gestito dalle suore della Sacra Famiglia, nato proprio per ospitare le donne in difficoltà. Quasi due anni fa Niscemi era salito agli onori della cronaca per una terribile storia di violenza da parte di tre minorenni che massacrarono e gettarono in un pozzo una ragazza di 14 anni, Lorena Cultraro. Oggi, a pochi giorni dalla Giornata per la vita, diventa il luogo della speranza.
Miriam pensa che sia la Provvidenza a indicarle quella strada. Così, dice ai genitori che deve andare in una città lontana per motivi di studio e, invece, va a Niscemi dove trova suor Genoveffa Calì e suor Provvidenza Orobello a braccia aperte. La più anziana, suor Genoveffa, diventa una seconda mamma per Miriam: la conforta, la sostiene, le dà la forza per andare avanti e non demoralizzarsi, le è vicina al momento delle doglie del parto. Il 26 gennaio scorso Miriam si ricovera all’ospedale di Niscemi "Suor Cecilia Basarocco", dove viene alla luce la piccola Gianna, una bellissima bambina paffuta e piena di capelli corvini. Miriam ha voluto darle il nome di Santa Gianna Beretta Molla, che strenuamente ha difeso la vita della creatura che portava in grembo. La gioia è infinita, indescrivibile. Ma Miriam, poche ore dopo il parto, viene colpita da una forte emorragia. La sera stessa l’équipe del dottore Giovanni Di Leo interviene per bloccarla. Adesso stanno bene sia la mamma che la figlia. Nella stanza del reparto è un viavai di suore, volontarie, nuove amiche di Miriam.
Fanno a gara per cambiare pannolini, mettere la tutina alla piccola, cullarla. «Questa ragazza ha mostrato una fragilità e una forza incredibili. È vero che il Signore non abbandona i deboli», commenta suor Provvidenza, 38 anni, responsabile della casa. E racconta il lieto fine della storia. «Dopo la nascita di Gianna, Miriam ha voluto chiamare i suoi genitori ai quali aveva nascosto dove si trovava realmente e per quale motivo - aggiunge suor Provvidenza -. Papà e mamma sono rimasti sbalorditi, ma sono venuti subito a trovarla. Pochi giorni fa, nonni, mamma e nipotina si sono riabbracciati».
Alessandra Turrisi AVVENIRE
LA DEMOCRATICITA' DI UNA BELLISSIMA LINGUA: L'ITALIANO
L'TALIANO COME
LA LINGUA PIU' DEMOCRATICA E MAI IMPOSTA
[ Commento e presentazione di un articolo di Vittorio Messori ( Titolo originale : I primi vati dell'italiano. Tutti padani? ) riportato sottostante dal Corriere della Sera del 20 agosto 2009 ]
Finestra sulla Letteratura
HOME
Logo della lingua italiana : simmetria musicale e alta ispirazione :
la Sindone in alto, esprime il retroterra teologico, il punto più misterioso e profondo;
la Rotonda del Palladio e l'uomo leonardesco richiamano l'estetica pittorica e architettonica;
Dante e la Sibilla, rappresentano il Genio poetico e della ispirazione .
1. INTRODUZIONE
Nel processo di formazione delle lingue moderne e nazionali dell’Europa, avviene un fatto importante, destinato a decretare la fine del latino o dell’antico germanico e slavo, come lingue vive o parlate, e la nascita delle lingue nazionali al posto del latino, del proto e antico germanico e slavo, stessi.
Tale fenomeno consiste nella frattura tra il popolo che parla come può (perciò possiamo dire: parla in volgare), e la classe dirigente e ecclesiastica che usa il latino in occidente o l’antico slavo ecclesiastico nell’ortodossia orientale.. , per i documenti ufficiali, e la letteratura … .
E’ questo il periodo che, a riguardo del processo di trasformazione del latino nelle lingue romanze, va dalla fine dell’Impero Romano o 475 d.C. , a tutto il medioevo :
il primo documento del francese risale all’842 (Serment de Strasbourg o Giuramento di Strasburgo); il primo dell’Italiano risale all’VIII° secolo (Indovinello Veronese); il primo dello spagnolo-castigliano risale al X° secolo (Glosse Silensi o Emilianensi) ; il primo del portoghese, al XII secolo (prima del 1175 : Patto di non aggressione tra i due Fratelli Gomes Pais e Ramiro Pais); il primo del Rumeno risale al XVI ° secolo (Lettera del 1521 del Giudice di Kronstadt); ma le origini del rumeno volgare, risalgono certamente alla Comunità latina dell’antica Dacia ; il primo documento del volgare sardo, risale al 1080 (Donazione del Giudice Torchitorio all’Arcivescovo di Cagliari, dei villaggi di Sant’Agata di Sulcis e Sant’Agata di Rutilas).
A riguardo del processo di formazione del protoslavo nelle lingue slave, ci sono almeno due tappe importanti : la prima va dal Protoslavo del III secolo a. C. al IX d. C., quando compare lo Slavo ecclesiastico : l’adozione dello slavo ecclesiastico, risale come ordetto al IX secolo, allorché i santi bizantini Metodio e Cirillo, tradussero la Bibbia nel dialetto slavo di Salonicco (Solun) . Questo slavo ecclesiastico, sopravvissuto fino ad oggi quale lingua liturgica di alcune chiese ortodosse e greco-cattoliche in oriente, da un lato represse le istanze letterarie e espressive dei vari dialetti; dall’altro favorì lo sviluppo di una letteratura e lingua slava comune o più analoga, e anzi, ha probabilmente favorito perfino la preminenza del russo, sulle altre lingue slave.
A riguardo del processo di formazione dal protogermanico al tedesco , si possono descrivere pure due tappe fondamentali : la prima è appunto, l’esistenza del protogermanico, cioè una lingua archetipica o comune a tutte le lingue germaniche, ma solo dedotta dagli studi comparati e solo orale, onde non ha lasciato documenti se non qualche iscrizione in alfabeto runico nella Scandinavia del 200 a.C. ; la seconda tappa, è la preminenza odierna del tedesco, essendo parlato da oltre 110 000 000 di persone . Il tedesco comincia la sua ribalta con Carlo Magno , conservando in questa fase i soli due tempi del passato e presente, tipici del protogermanico; poi dal 1050 in poi, ad opera della corte carolingia e della Chiesa, e specialmente con la traduzione della Bibbia da parte di Martin Lutero nel 1521-34, assume già la veste di lingua moderna; infine questa lingua ormai compiuta, sarà perfezionata tra otto-novecento .
Stando così le cose circa i tre gruppi linguistici fondamentali dell’Europa (latino, germanico e slavo…), si può dire che il rimescolamento e la fusione dei popoli a causa delle invasioni barbariche e evoluzioni preesistenti e conseguenti, portò alla nascita di un volgare differente a seconda delle nazioni :
le lingue neolatine o romanze, si formarono a partire dalla fine del latino come lingua parlata e vedono la preminenza dell’italiano in ambito rinascimentale, del francese nel periodo moderno; le lingue germaniche, si formarono a partire dalla fine del protogermanico come lingua parlata, subirono un assestamento fondamentale a partire dalle conseguenze delle invasioni barbariche (per cui alcune si trasformano da germaniche in lingue romanze : francese dei Franchi e spagnolo dei Goti...) e dell’ascesa del tedesco, a sua volta altra ragione influente sulle altre lingue germaniche; le lingue slave, si formarono a partire dalla fine del protoslavo e dall’ingresso dello slavo ecclesiastico e ascesa preminente del russo.
In questo processo generale di formazione, ciascun gruppo linguistico della triade europea, ha pertanto il suo punto di partenza , sebbene tutti i gruppi siano della famiglia comune delle lingue indoeuropee .
Può dirsi perciò, che tutte queste lingue, nonostante gli innegabili condizionamenti storici di conquistatori e conquistati, sono democratiche, perché sebbene con misura, modalità e tempi diversi, si evolvono ciononostante, recuperando la base della maggioranza orale, popolare-nazionale.
Tuttavia, alcune di queste lingue come l’Italiano , sono per così dire, più democratiche delle altre, perché non sono state mai imposte da leggi, ma solo dalla consuetudine più autorevole. Nel corso di questa evoluzione del volgare, gli Stati spesso sono intervenuti per scegliere come lingua ufficiale un dato dialetto a scapito di altri, ritenuti minoritari o giudicati meno autorevoli.
Ma l’Italiano (l’italiano più del tedesco stesso) come dice Messori sottostante, si afferma mirabilmente senza l’imposizione di nessuna legge, ma solo per naturale autorevolezza letteraria, collettivamente condivisa e ammirata ; d’altronde il tedesco, si è affermato per decisione maggioritaria degli Stati germanici a favore del Sassone aulico scritto, della traduzione biblica di Lutero. Per questo può dirsi a ragione, che la evoluzione linguistica italiana e tedesca, è la più democratica che possa esistere, infatti avviene naturalmente a causa della sola forza della consuetudine o convenzione, e quindi al di fuori di ogni imposizione legale o statale .
E’ perciò una involuzione campanilistica, la recente pretesa della Lega Nord, di recuperare i dialetti in opposizione all’Italiano, anziché recuperarli come una variante interessante e doverosa, del medesimo Italiano .
Infatti per ragioni storiche e capacità linguistiche e letterarie stupefacenti, nessun dialetto della Penisola, per quanto interessante e apprezzabile (per quanto creativo e amabile possa essere), può tuttavia ritenersi a ragione, linguisticamente e culturalmente superiore all’Italiano attuale.
E le ragioni ideologiche o leghiste, su questo punto, non possono prevalere sulla obbiettività storica, in Italia e nemmeno nella Padania-Italia, senza mettere in discussione un aspetto importante della fondamentale identità italiana, cioè l’italiano attuale .
2. TESTO :
I PRIMI VATI DELL’ITALIANO? TUTTI PADANI
di Vittorio Messori
20 agosto 2009 : Corriere della Sera
Il guaio dell’età che avanza –parlo per esperienza– è soprattutto la noia. Quella di chi subisce il ciclico ritorno degli stessi dibattiti , degli stessi temi, degli stessi equivoci. E’ naturale: ogni generazione deve ricominciare da capo. Ma, per il povero anziano, è pur sempre tedioso.
Tra i “tormentoni" ricorrenti, ecco di nuovo, in queste settimane, la questione – rinfocolata periodicamente dalla Lega- del rapporto tra lingua nazionale e dialetti locali . Qui, i seguaci di Bossi hanno un grosso, irrisolvibile handicap rispetto a molti movimenti stranieri federalisti o separatisti. In effetti, non vale per l’Italia quanto osservava Ernest Renan: <<>>. E’ vero per altri grandi idiomi. Il francese imposto da Parigi a occitani, bretoni , normanni, còrsi, alsaziani, lorenesi . Il castigliano imposto da Madrid a catalani, baschi, valenciani, galiziani, aragonesi. L’inglese imposto da Londra a gallesi, scozzesi, irlandesi. Il russo imposto da Mosca a ucraini, bielorussi e altre etnie slave . Il mandarino di Pechino imposto a tutti i cinesi. Due sole, grandi lingue , divenute ufficiali per uno Stato, non sono state imposte a popolazioni in parte riluttanti : il tedesco e l’italiano. Entrambe sono, per dir così , “democratiche“. Per comunicare tra loro, le genti germaniche, prive di unità politica, dopo un lento avvicinamento degli infiniti dialetti, decisero di adottare, almeno per la scrittura, il sassone aulico in cui Lutero tradusse la Bibbia. Quanto all’Italia, anch’essa frammentata, ebbe solo tardivamente uno Stato, ma fu precocemente una “nazione“. A partire dal tardo Quattrocento, chi abitava la Penisola era distinto dagli altri popoli come un “ italiano “. Ma già nel Medio Evo, tra le “nazioni“ riconosciute in Europa - ad esempio, nelle università e nelle corporazioni di mestiere –c’era quella “italiana“. Sta soprattutto nella lingua il motivo di questa identità, malgrado lo spezzettamento politico e le forti differenze di ogni tipo tre le Alpi e lo Ionio.
Ebbene, spesso si dimentica che, se in Italia si parla e si scrive così, ciò è dovuto alla libera scelta degli uomini di governo e, soprattutto, di cultura, di ogni angolo di quello che solo molti secoli dopo sarebbe divenuto uno Stato. In Italia non ci fu una Capitale dove sedesse un’autorità che imponesse un dialetto locale divenuto lingua ufficiale per le leggi, i tribunali, l’esercito. Da noi, ancor più che in Germania, l’idioma comune fu una sorta di referendum, fu il frutto di una decisione pragmatica che si impose liberamente: poiché, divenuto sempre più arduo esprimersi in latino, occorreva una koiné italica, i gruppi culturalmente e politicamente dirigenti finirono coll’accordarsi (prima nei fatti, e poi nelle teorie dei dotti) sulla variante di volgare illustrato dalla triade sublime, Dante, Petrarca, Boccaccio. Così, fu il dialetto toscano, e in particolare fiorentino, che divenne la lingua franca per gli scambi, la letteratura e poi la cultura in generale.
Lingua “democratica“, dunque, e al contempo “aristocratica“ nel senso che, sino all’unità politica, fu soprattutto scritta da chi sapeva di lettere. Ci vollero non tanto la scuola obbligatoria quanto prima l’Eiar e poi la Rai, nonché il sonoro nei film, per trasformarlo in un idioma praticato da tutti, o quasi. Sta di fatto che -a differenza di un catalano nei confronti di un castigliano o di un provenzale nei confronti di un parigino o di uno scozzese nei confronti di un londinese – nessuno, di nessuna regione italiana, può accusare uno Stato o un Potere di avergli imposto un idioma che, dalla sua, ha avuto semmai solo la forza della cultura . Firenze nulla fece, se non approfittare del talento dei suoi grandi scrittori. Quanto agli attuali “padani“, pur comprendendo alcune delle loro ragioni, non dimentichino che, tra Ottocento e Novecento, coloro che più fecero per dare una lingua moderna a tutti gli abitanti della penisola, facendoli uscire dai dialetti e dal toscanismo angusto, furono il lombardo Manzoni, il ligure piemontesizzato De Amicis, il saluzzese Pellico, il torinese d’Azeglio, il dalmata Tommaseo, il veneto Fogazzaro, il romagnolo Pascoli, il genovese Mazzini . E che, ancor prima, l’astigiano Alfieri, il subalpino Baretti, i milanesi Verri e Beccaria, molto avevano fatto per radicare la lingua comune. Per tornare all’Ottocento, il parmigiano Verdi, malgrado offerte di francesi, inglesi, tedeschi, rifiutò di musicare libretti che non fossero in italiano; e persino il “federalista“ lombardo Carlo Cattaneo accettò di buon grado la scelta del toscano, in cui scrisse in modo impeccabile, irridendo ai passatismi dialettali. Non irrisione, ma furore, provocavano nel nizzardo Garibaldi coloro che mettevano in discussione l’unità dell’idioma. Morì accanto a lui, all’assedio di Roma, il genovese Mameli, che aveva cantato l’unione di “Fratelli d’Italia“ in tutto, a cominciare dalla lingua. Tutti “padani“ o, almeno, “nordisti“; e tutti contro la babele vernacolare, anche la loro.
“E’ la storia, bellezza!“ , verrebbe da celiare con chi si ostinasse a barricarsi sotto il suo campanile, inveendo contro una lingua che gli sarebbe stata imposta da qualche prepotente forestiero. E’ colpa, o merito, della storia se non esiste non si dice un chimerico “padano“, ma neanche un “lombardo“ (si capiscono, forse, uno di Sondrio e uno di Cremona, uno di Bergamo e uno di Pavia?) e, se altri idiomi di altre regioni italiane, al Centro e al Sud, esistono, ma non sono praticabili come lingue . Ciò non toglie che i dialetti siano una ricchezza: posso dirlo anche perché, se mi è permesso un riferimento personale, mio padre fu tra i più popolari e, credo, dotati, poeti in modenese. Ma è una ricchezza ancor maggiore lo strumento divenuto pian piano comune, in quasi mille anni, ad almeno 60 milioni di persone. Per forza propria, senza bisogno di decreti governativi tutelati dai gendarmi .
© Corriere della Sera
LA LINGUA PIU' DEMOCRATICA E MAI IMPOSTA
[ Commento e presentazione di un articolo di Vittorio Messori ( Titolo originale : I primi vati dell'italiano. Tutti padani? ) riportato sottostante dal Corriere della Sera del 20 agosto 2009 ]
Finestra sulla Letteratura
HOME
Logo della lingua italiana : simmetria musicale e alta ispirazione :
la Sindone in alto, esprime il retroterra teologico, il punto più misterioso e profondo;
la Rotonda del Palladio e l'uomo leonardesco richiamano l'estetica pittorica e architettonica;
Dante e la Sibilla, rappresentano il Genio poetico e della ispirazione .
1. INTRODUZIONE
Nel processo di formazione delle lingue moderne e nazionali dell’Europa, avviene un fatto importante, destinato a decretare la fine del latino o dell’antico germanico e slavo, come lingue vive o parlate, e la nascita delle lingue nazionali al posto del latino, del proto e antico germanico e slavo, stessi.
Tale fenomeno consiste nella frattura tra il popolo che parla come può (perciò possiamo dire: parla in volgare), e la classe dirigente e ecclesiastica che usa il latino in occidente o l’antico slavo ecclesiastico nell’ortodossia orientale.. , per i documenti ufficiali, e la letteratura … .
E’ questo il periodo che, a riguardo del processo di trasformazione del latino nelle lingue romanze, va dalla fine dell’Impero Romano o 475 d.C. , a tutto il medioevo :
il primo documento del francese risale all’842 (Serment de Strasbourg o Giuramento di Strasburgo); il primo dell’Italiano risale all’VIII° secolo (Indovinello Veronese); il primo dello spagnolo-castigliano risale al X° secolo (Glosse Silensi o Emilianensi) ; il primo del portoghese, al XII secolo (prima del 1175 : Patto di non aggressione tra i due Fratelli Gomes Pais e Ramiro Pais); il primo del Rumeno risale al XVI ° secolo (Lettera del 1521 del Giudice di Kronstadt); ma le origini del rumeno volgare, risalgono certamente alla Comunità latina dell’antica Dacia ; il primo documento del volgare sardo, risale al 1080 (Donazione del Giudice Torchitorio all’Arcivescovo di Cagliari, dei villaggi di Sant’Agata di Sulcis e Sant’Agata di Rutilas).
A riguardo del processo di formazione del protoslavo nelle lingue slave, ci sono almeno due tappe importanti : la prima va dal Protoslavo del III secolo a. C. al IX d. C., quando compare lo Slavo ecclesiastico : l’adozione dello slavo ecclesiastico, risale come ordetto al IX secolo, allorché i santi bizantini Metodio e Cirillo, tradussero la Bibbia nel dialetto slavo di Salonicco (Solun) . Questo slavo ecclesiastico, sopravvissuto fino ad oggi quale lingua liturgica di alcune chiese ortodosse e greco-cattoliche in oriente, da un lato represse le istanze letterarie e espressive dei vari dialetti; dall’altro favorì lo sviluppo di una letteratura e lingua slava comune o più analoga, e anzi, ha probabilmente favorito perfino la preminenza del russo, sulle altre lingue slave.
A riguardo del processo di formazione dal protogermanico al tedesco , si possono descrivere pure due tappe fondamentali : la prima è appunto, l’esistenza del protogermanico, cioè una lingua archetipica o comune a tutte le lingue germaniche, ma solo dedotta dagli studi comparati e solo orale, onde non ha lasciato documenti se non qualche iscrizione in alfabeto runico nella Scandinavia del 200 a.C. ; la seconda tappa, è la preminenza odierna del tedesco, essendo parlato da oltre 110 000 000 di persone . Il tedesco comincia la sua ribalta con Carlo Magno , conservando in questa fase i soli due tempi del passato e presente, tipici del protogermanico; poi dal 1050 in poi, ad opera della corte carolingia e della Chiesa, e specialmente con la traduzione della Bibbia da parte di Martin Lutero nel 1521-34, assume già la veste di lingua moderna; infine questa lingua ormai compiuta, sarà perfezionata tra otto-novecento .
Stando così le cose circa i tre gruppi linguistici fondamentali dell’Europa (latino, germanico e slavo…), si può dire che il rimescolamento e la fusione dei popoli a causa delle invasioni barbariche e evoluzioni preesistenti e conseguenti, portò alla nascita di un volgare differente a seconda delle nazioni :
le lingue neolatine o romanze, si formarono a partire dalla fine del latino come lingua parlata e vedono la preminenza dell’italiano in ambito rinascimentale, del francese nel periodo moderno; le lingue germaniche, si formarono a partire dalla fine del protogermanico come lingua parlata, subirono un assestamento fondamentale a partire dalle conseguenze delle invasioni barbariche (per cui alcune si trasformano da germaniche in lingue romanze : francese dei Franchi e spagnolo dei Goti...) e dell’ascesa del tedesco, a sua volta altra ragione influente sulle altre lingue germaniche; le lingue slave, si formarono a partire dalla fine del protoslavo e dall’ingresso dello slavo ecclesiastico e ascesa preminente del russo.
In questo processo generale di formazione, ciascun gruppo linguistico della triade europea, ha pertanto il suo punto di partenza , sebbene tutti i gruppi siano della famiglia comune delle lingue indoeuropee .
Può dirsi perciò, che tutte queste lingue, nonostante gli innegabili condizionamenti storici di conquistatori e conquistati, sono democratiche, perché sebbene con misura, modalità e tempi diversi, si evolvono ciononostante, recuperando la base della maggioranza orale, popolare-nazionale.
Tuttavia, alcune di queste lingue come l’Italiano , sono per così dire, più democratiche delle altre, perché non sono state mai imposte da leggi, ma solo dalla consuetudine più autorevole. Nel corso di questa evoluzione del volgare, gli Stati spesso sono intervenuti per scegliere come lingua ufficiale un dato dialetto a scapito di altri, ritenuti minoritari o giudicati meno autorevoli.
Ma l’Italiano (l’italiano più del tedesco stesso) come dice Messori sottostante, si afferma mirabilmente senza l’imposizione di nessuna legge, ma solo per naturale autorevolezza letteraria, collettivamente condivisa e ammirata ; d’altronde il tedesco, si è affermato per decisione maggioritaria degli Stati germanici a favore del Sassone aulico scritto, della traduzione biblica di Lutero. Per questo può dirsi a ragione, che la evoluzione linguistica italiana e tedesca, è la più democratica che possa esistere, infatti avviene naturalmente a causa della sola forza della consuetudine o convenzione, e quindi al di fuori di ogni imposizione legale o statale .
E’ perciò una involuzione campanilistica, la recente pretesa della Lega Nord, di recuperare i dialetti in opposizione all’Italiano, anziché recuperarli come una variante interessante e doverosa, del medesimo Italiano .
Infatti per ragioni storiche e capacità linguistiche e letterarie stupefacenti, nessun dialetto della Penisola, per quanto interessante e apprezzabile (per quanto creativo e amabile possa essere), può tuttavia ritenersi a ragione, linguisticamente e culturalmente superiore all’Italiano attuale.
E le ragioni ideologiche o leghiste, su questo punto, non possono prevalere sulla obbiettività storica, in Italia e nemmeno nella Padania-Italia, senza mettere in discussione un aspetto importante della fondamentale identità italiana, cioè l’italiano attuale .
2. TESTO :
I PRIMI VATI DELL’ITALIANO? TUTTI PADANI
di Vittorio Messori
20 agosto 2009 : Corriere della Sera
Il guaio dell’età che avanza –parlo per esperienza– è soprattutto la noia. Quella di chi subisce il ciclico ritorno degli stessi dibattiti , degli stessi temi, degli stessi equivoci. E’ naturale: ogni generazione deve ricominciare da capo. Ma, per il povero anziano, è pur sempre tedioso.
Tra i “tormentoni" ricorrenti, ecco di nuovo, in queste settimane, la questione – rinfocolata periodicamente dalla Lega- del rapporto tra lingua nazionale e dialetti locali . Qui, i seguaci di Bossi hanno un grosso, irrisolvibile handicap rispetto a molti movimenti stranieri federalisti o separatisti. In effetti, non vale per l’Italia quanto osservava Ernest Renan: <<>>. E’ vero per altri grandi idiomi. Il francese imposto da Parigi a occitani, bretoni , normanni, còrsi, alsaziani, lorenesi . Il castigliano imposto da Madrid a catalani, baschi, valenciani, galiziani, aragonesi. L’inglese imposto da Londra a gallesi, scozzesi, irlandesi. Il russo imposto da Mosca a ucraini, bielorussi e altre etnie slave . Il mandarino di Pechino imposto a tutti i cinesi. Due sole, grandi lingue , divenute ufficiali per uno Stato, non sono state imposte a popolazioni in parte riluttanti : il tedesco e l’italiano. Entrambe sono, per dir così , “democratiche“. Per comunicare tra loro, le genti germaniche, prive di unità politica, dopo un lento avvicinamento degli infiniti dialetti, decisero di adottare, almeno per la scrittura, il sassone aulico in cui Lutero tradusse la Bibbia. Quanto all’Italia, anch’essa frammentata, ebbe solo tardivamente uno Stato, ma fu precocemente una “nazione“. A partire dal tardo Quattrocento, chi abitava la Penisola era distinto dagli altri popoli come un “ italiano “. Ma già nel Medio Evo, tra le “nazioni“ riconosciute in Europa - ad esempio, nelle università e nelle corporazioni di mestiere –c’era quella “italiana“. Sta soprattutto nella lingua il motivo di questa identità, malgrado lo spezzettamento politico e le forti differenze di ogni tipo tre le Alpi e lo Ionio.
Ebbene, spesso si dimentica che, se in Italia si parla e si scrive così, ciò è dovuto alla libera scelta degli uomini di governo e, soprattutto, di cultura, di ogni angolo di quello che solo molti secoli dopo sarebbe divenuto uno Stato. In Italia non ci fu una Capitale dove sedesse un’autorità che imponesse un dialetto locale divenuto lingua ufficiale per le leggi, i tribunali, l’esercito. Da noi, ancor più che in Germania, l’idioma comune fu una sorta di referendum, fu il frutto di una decisione pragmatica che si impose liberamente: poiché, divenuto sempre più arduo esprimersi in latino, occorreva una koiné italica, i gruppi culturalmente e politicamente dirigenti finirono coll’accordarsi (prima nei fatti, e poi nelle teorie dei dotti) sulla variante di volgare illustrato dalla triade sublime, Dante, Petrarca, Boccaccio. Così, fu il dialetto toscano, e in particolare fiorentino, che divenne la lingua franca per gli scambi, la letteratura e poi la cultura in generale.
Lingua “democratica“, dunque, e al contempo “aristocratica“ nel senso che, sino all’unità politica, fu soprattutto scritta da chi sapeva di lettere. Ci vollero non tanto la scuola obbligatoria quanto prima l’Eiar e poi la Rai, nonché il sonoro nei film, per trasformarlo in un idioma praticato da tutti, o quasi. Sta di fatto che -a differenza di un catalano nei confronti di un castigliano o di un provenzale nei confronti di un parigino o di uno scozzese nei confronti di un londinese – nessuno, di nessuna regione italiana, può accusare uno Stato o un Potere di avergli imposto un idioma che, dalla sua, ha avuto semmai solo la forza della cultura . Firenze nulla fece, se non approfittare del talento dei suoi grandi scrittori. Quanto agli attuali “padani“, pur comprendendo alcune delle loro ragioni, non dimentichino che, tra Ottocento e Novecento, coloro che più fecero per dare una lingua moderna a tutti gli abitanti della penisola, facendoli uscire dai dialetti e dal toscanismo angusto, furono il lombardo Manzoni, il ligure piemontesizzato De Amicis, il saluzzese Pellico, il torinese d’Azeglio, il dalmata Tommaseo, il veneto Fogazzaro, il romagnolo Pascoli, il genovese Mazzini . E che, ancor prima, l’astigiano Alfieri, il subalpino Baretti, i milanesi Verri e Beccaria, molto avevano fatto per radicare la lingua comune. Per tornare all’Ottocento, il parmigiano Verdi, malgrado offerte di francesi, inglesi, tedeschi, rifiutò di musicare libretti che non fossero in italiano; e persino il “federalista“ lombardo Carlo Cattaneo accettò di buon grado la scelta del toscano, in cui scrisse in modo impeccabile, irridendo ai passatismi dialettali. Non irrisione, ma furore, provocavano nel nizzardo Garibaldi coloro che mettevano in discussione l’unità dell’idioma. Morì accanto a lui, all’assedio di Roma, il genovese Mameli, che aveva cantato l’unione di “Fratelli d’Italia“ in tutto, a cominciare dalla lingua. Tutti “padani“ o, almeno, “nordisti“; e tutti contro la babele vernacolare, anche la loro.
“E’ la storia, bellezza!“ , verrebbe da celiare con chi si ostinasse a barricarsi sotto il suo campanile, inveendo contro una lingua che gli sarebbe stata imposta da qualche prepotente forestiero. E’ colpa, o merito, della storia se non esiste non si dice un chimerico “padano“, ma neanche un “lombardo“ (si capiscono, forse, uno di Sondrio e uno di Cremona, uno di Bergamo e uno di Pavia?) e, se altri idiomi di altre regioni italiane, al Centro e al Sud, esistono, ma non sono praticabili come lingue . Ciò non toglie che i dialetti siano una ricchezza: posso dirlo anche perché, se mi è permesso un riferimento personale, mio padre fu tra i più popolari e, credo, dotati, poeti in modenese. Ma è una ricchezza ancor maggiore lo strumento divenuto pian piano comune, in quasi mille anni, ad almeno 60 milioni di persone. Per forza propria, senza bisogno di decreti governativi tutelati dai gendarmi .
© Corriere della Sera
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