21 Ottobre 2009
Il piccolo Elvis, la sua e nostra Napoli, l'assedio di antichi e nuovi mali
Morire di povertà là dove di povertà si vive
Elvis, 6 anni, da Capo Verde, è venuto a morire di povertà a Napoli. Non c’è luogo più atroce per morire di stenti perché a Napoli, per antica consuetudine, di povertà, piuttosto, si vive. I «bassi» dove Elvis viveva con la mamma, hanno la porta che s’affaccia sui vicoli ma, più ancora, sulla vita: come a guardarla meglio in faccia e ad affrontarla giorno dopo giorno con i mezzi che anche chi sbarca da altri mondi di privazione, impara presto a conoscere. Nei «bassi» si sta stretti; anche una piccola famiglia di madre e figlio finisce per avere poco spazio, perché c’è sempre da far posto a un inquilino che si chiama povertà. E a un inquilino così, non sempre bastano i tributi ordinari, né accade spesso che si lasci intenerire da quella rete di mutuo soccorso sempre all’opera, una forma di solidarietà corrente e minuta, che attraversa i vicoli e li anima molto più della sporadica luce del sole. Anche la povertà mostra di essere diventata più esigente. È uscita dai «bassi» e, non solo a Napoli, si è mossa alla conquista di spazi più vasti, e, un tempo, inesplorati. Gli uffici studi la seguono, passo su passo, su mappe di carta. Ma chi la vede avvicinarsi alla sua porta ha imparato a distinguerla da lontano, e a temerne i segni: ciò che, forse, non poteva fare mamma Manuela, lei che la povertà l’aveva già in casa e riusciva, in qualche modo a domarla. Proprio Elvis, il trovarsi a suo agio tra i compagni nel vicolo, e la cartella della scuola sempre in ordine, era il segno semmai opposto di una timida e scarna agiatezza che mai – sembrava – potesse essere scalfita da una bolletta della luce arrivata in ritardo. Anche la soglia di povertà, come del resto quella della ricchezza, ha parametri suoi, e quel braciere di carbonella, che nei bassi è stato sempre usato come un utensile di casa, ha finito per bruciare più che dare calore a una vita. Una tale forma di povertà non estrema non fa che rendere ancora più insopportabile questa morte che è riuscita a insinuarsi, infida e velenosa, tra varchi sguarniti, dove la povertà riesce a colpire anche attraverso le orme che lascia. Una vita di stenti non equivale sempre a una vita di miseria. E non è detto che dai «bassi» è possibile scorgere solo orizzonti cupi. Ma a sei anni, nel respiro di vita che lo ha accompagnato, a Elvis toccava certo il diritto di non doversi occupare di tutto questo. Aveva, a suo modo, già imparato a guardare avanti. A scuola era bravo e anche simpatico, e i suoi compagni andavano a cercarlo, quando non lo vedevano. Non poteva sapere di quel respiro di vita già insidiato dai residui di una povertà tenace e caparbia che è arrivata a inseguirlo da un capo all’altro del mondo. Con tutti i suoi drammi e le sue continue emergenze, anche Napoli, nel vasto panorama dei disagi nel mondo, può risultare un approdo. Ma proprio qui, nelle quinte nascoste di una città che, facendo scudo ai suoi poveri, cerca di salvare anche se stessa, Elvis si è visto atrocemente chiedere il conto. Ha dato i suoi pochi anni, ma ha lasciato scorgere quanto grandi fossero le sue speranze. E Napoli lascia intuire quando il suo cuore resta ferito. La morte di Elvis, e il dramma della mamma, in lotta per la vita, non sono entrati a far parte di una sua cronaca ordinaria. C’entra, ma non spiega tutto, neppure il sentimento di protezione per i bambini. Il dramma di Elvis è, in tutti i sensi, anche il dramma di una città che, pur assediata dai suoi mali antichi, non può fare a meno di guardarsi intorno per scorgere anche l’insidia dei nuovi. Anche la povertà cambia pelle. Ed è un braciere sempre acceso.
Angelo Scelzo da avvenire
mercoledì 21 ottobre 2009
lunedì 12 ottobre 2009
anche mussolini è stato una spia
06/10/2009 di alessio altichieri - corriere della sera
Le cento sterline che Mussolini intascava dalla "perfida Albione"
Scritto da: Alessio Altichieri alle 22:47
Tags: Benito Mussolini, Christopher Andrew, Eugenio Pacelli, George Macdonagh, Peter Martland, Pierre Laval, Renato Giuseppe Bertelli, Samuel Hoare Lord Templewwod, Winston Churchill
Cento sterline. Cento sterline alla settimana. Per quasi un anno Benito Mussolini, nel 1917, fu stipendiato dai servizi segreti britannici. Sorprendente, forse, per l’uomo che molti anni dopo avrebbe dichiarato guerra alla “perfida Albione”. Ma la politica è spregiudicata, sicché non bisogna meravigliarsi che gl’inglesi, più tardi “stramaledetti” dal fascismo, fossero alleati preziosi in una stagione precedente. Stupisce piuttosto, e qui sta la novità, l’esiguità della somma: cento sterline, il prezzo con cui l’intelligence britannica si comprò la fedeltà di Mussolini, non erano molti soldi nemmeno a quel tempo. “In genere, rivalutiamo per sessanta: perciò, possiamo stimare quella sovvenzione in seimila sterline d’oggi”, dice Peter Martland, professore di storia moderna all’Università di Cambridge. Neppure 5.500 euro al cambio odierno, quindi, per fare una politica, certo congeniale a Mussolini, che era vitale per la Gran Bretagna in guerra contro gl’Imperi Centrali. “Fu un vero affare, perché ormai il conflitto sembrava perso”, osserva Martland. Possibile che con quelle cento sterline si sia cambiato il corso della storia europea? “Comunque, se avesse vinto la Germania, non saremmo qui a parlarne”, commenta lo storico.Vediamo. Nell’autunno del 1917 le sorti della Grande Guerra sono appese a un filo. La Russia rivoluzionaria ha sospeso i combattimenti contro la Germania, l’Italia ha subito la rotta di Caporetto. La situazione è disperata. Se anche l’Italia dovesse abbandonare il conflitto, solo Francia e Gran Bretagna resterebbero a opporsi a Germania e Austria. Londra deve fare di tutto per garantire che l’Italia non receda dall’alleanza: “C’era il timore che il governo italiano dopo Caporetto dovesse fronteggiare rivolte, ondate pacifiste”, riassume Martland. Ma i britannici avevano a Roma un uomo di prim’ordine, il tenente colonnello Samuel Hoare, dell’intelligence militare, il quale aveva organizzato una rete di un centinaio di agenti che agivano per la Gran Bretagna. Riferiscono sul morale della nazione, sulla condizione delle banche, sul contrabbando di oro e valuta verso la Svizzera che, come sempre nella storia italiana, aumenta nei momenti di grave crisi. Qualcuno consiglia a Hoare di avvicinare il giornalista Benito Mussolini che, cacciato dall’”Avanti!” e dal partito socialista per la sua linea interventista, sostiene ora la politica con un nuovo giornale, “Il Popolo d’Italia”. Hoare acconsente e, conosciuto Mussolini, fa di più: propone una sovvenzione per la testata.Il suo capo a Londra, Sir George Macdonagh, tentenna. “Hoare lo convince, dicendo che, se la sovvenzione è negata, è pronto a pagare di tasca propria”, spiega Martland. E si fa l’accordo: cento sterline alla settimana. Ricorderà molti anni più tardi, nel 1954, Hoare, ormai divenuto Lord Templewood, nelle sue memorie: “’Lasci fare a me’, fu la risposta che Mussolini mandò attraverso il mio intermediario: ‘Mobiliterò i mutilati di Milano, che spaccheranno la testa a ogni pacifista che tentasse di tenere una manifestazione di strada contro la guerra’. E fu di parola, i fasci neutralizzarono davvero i pacifisti milanesi”, concluse Hoare - sorvolando, da signore, sulle cifre. Naturalmente, non è che Mussolini abbia salvato le sorti dell’Italia e della guerra, ma anche il suo interventismo, fino al Piave e al riordinamento dell’esercito italiano sbandato, servì alla causa britannica. “L’investimento rese, anche se non so se Mussolini usasse i soldi per il giornale: viste le sue inclinazioni, ritengo probabile che abbia speso quei soldi per le sue amiche”, dice Martland, che fa due conti: “Era buon prezzo, se si pensa che la guerra all’epoca costava alla Gran Bretagna quattro milioni di sterline al giorno”. La storia è abbastanza nota, molto meno era l’entità del compenso, almeno fino a pochi giorni fa, quando è stata presentato a Londra un volume di mille pagine, la storia del Security Service, cioè il controspionaggio britannico, comunemente chiamato Mi5. Con il titolo“The Defence of the Realm”, che riprende il motto del servizio, “Regnum Defende”, è stata scritta da Christopher Andrew, già autore del celebre “Archivio Mitrokhin” che fece tanto scalpore dieci anni fa, e celebra in modo assolutamente originale (non era mai successo che un servizio segreto di tale importanza pubblicasse la propria “storia autorizzata”) il primo secolo di vita del Mi5, che nel 1917 includeva anche le operazioni all’estero, e naturalmente l’intelligence militare. Andrew, per svolgere il compito immane di consultare 400 mila files, s’è avvalso dell’aiuto di Martland, che proprio a Cambridge aveva a disposizione l’archivio Templewood, un altro forziere di documenti. E lì, spulciando le carte, Martland ha trovato la cifra del compenso britannico a Mussolini, le cento sterline. “Non credo che il dettaglio sia mai stato pubblicato: l’archivio Templewood è disponibile a chiunque, ma bisognava metterci il naso”.Pur di battere la Germania, andava bene anche l’aiuto di un Mussolini: d’altronde, perfino Winston Churchill disse che, pur di trovare alleati contro Hitler, sarebbe stato pronto ad andare all’inferno ad accordarsi con il diavolo. Oggi, con sano patriottismo, sia Andrew che Martland sottolineano l’opera meritoria per la difesa del regno svolta in cent’anni dal Security Service – e dai suoi agenti. “Hoare a Roma aveva antenne sensibili: fu il primo a capire, già allora, che il capo della corrente filo-tedesca in Vaticano era il futuro papa, l’arcivescovo Eugenio Pacelli, nunzio a Monaco di Baviera”. E lo stesso Hoare, per coincidenza, avrà ancora un rapporto privilegiato con Mussolini vent’anni dopo, quando sarà diventato Foreign Secretary, cioè ministro degli Esteri, e dovrà confrontarsi con quello che era ormai il Duce del fascismo, lanciato nell’avventura coloniale. Con il suo omologo francese, Pierre Laval, Hoare firmerà un patto per consentire all’Italia di sottomettere l’Abissinia e lasciare all’Etiopia lo sbocco al mare che il “Times”ridicolizzerà come “un corridoio per i cammelli”. Era l’inizio della politica dell’”appeasement” verso il nazifascismo che, fino alla seconda guerra mondiale, illuderà il governo Chamberlain. Ma questa è un’altra storia.(“The Defence of the Realm: The Autorized History of MI5”, di Christopher Andrew, è pubblicato da Allen Lane, 1032 pagine, 30 sterline. Nelle foto, dall’alto: Benito Mussolini davanti a una statua che lo ritrae; i bersaglieri nella battaglia di Caporetto, secondo una "Domenica del Corriere" del novembre 1917; Thames House, la sede del Mi5 a Londra; il logo del Security Service; "Profilo continuo - Testa di Benito Mussolini", di Renato Giuseppe Bertelli, terracotta smaltata, 1933; gli agenti del Mi5 sono protagonisti di una serie di successo della Bbc, "Spooks").
Le cento sterline che Mussolini intascava dalla "perfida Albione"
Scritto da: Alessio Altichieri alle 22:47
Tags: Benito Mussolini, Christopher Andrew, Eugenio Pacelli, George Macdonagh, Peter Martland, Pierre Laval, Renato Giuseppe Bertelli, Samuel Hoare Lord Templewwod, Winston Churchill
Cento sterline. Cento sterline alla settimana. Per quasi un anno Benito Mussolini, nel 1917, fu stipendiato dai servizi segreti britannici. Sorprendente, forse, per l’uomo che molti anni dopo avrebbe dichiarato guerra alla “perfida Albione”. Ma la politica è spregiudicata, sicché non bisogna meravigliarsi che gl’inglesi, più tardi “stramaledetti” dal fascismo, fossero alleati preziosi in una stagione precedente. Stupisce piuttosto, e qui sta la novità, l’esiguità della somma: cento sterline, il prezzo con cui l’intelligence britannica si comprò la fedeltà di Mussolini, non erano molti soldi nemmeno a quel tempo. “In genere, rivalutiamo per sessanta: perciò, possiamo stimare quella sovvenzione in seimila sterline d’oggi”, dice Peter Martland, professore di storia moderna all’Università di Cambridge. Neppure 5.500 euro al cambio odierno, quindi, per fare una politica, certo congeniale a Mussolini, che era vitale per la Gran Bretagna in guerra contro gl’Imperi Centrali. “Fu un vero affare, perché ormai il conflitto sembrava perso”, osserva Martland. Possibile che con quelle cento sterline si sia cambiato il corso della storia europea? “Comunque, se avesse vinto la Germania, non saremmo qui a parlarne”, commenta lo storico.Vediamo. Nell’autunno del 1917 le sorti della Grande Guerra sono appese a un filo. La Russia rivoluzionaria ha sospeso i combattimenti contro la Germania, l’Italia ha subito la rotta di Caporetto. La situazione è disperata. Se anche l’Italia dovesse abbandonare il conflitto, solo Francia e Gran Bretagna resterebbero a opporsi a Germania e Austria. Londra deve fare di tutto per garantire che l’Italia non receda dall’alleanza: “C’era il timore che il governo italiano dopo Caporetto dovesse fronteggiare rivolte, ondate pacifiste”, riassume Martland. Ma i britannici avevano a Roma un uomo di prim’ordine, il tenente colonnello Samuel Hoare, dell’intelligence militare, il quale aveva organizzato una rete di un centinaio di agenti che agivano per la Gran Bretagna. Riferiscono sul morale della nazione, sulla condizione delle banche, sul contrabbando di oro e valuta verso la Svizzera che, come sempre nella storia italiana, aumenta nei momenti di grave crisi. Qualcuno consiglia a Hoare di avvicinare il giornalista Benito Mussolini che, cacciato dall’”Avanti!” e dal partito socialista per la sua linea interventista, sostiene ora la politica con un nuovo giornale, “Il Popolo d’Italia”. Hoare acconsente e, conosciuto Mussolini, fa di più: propone una sovvenzione per la testata.Il suo capo a Londra, Sir George Macdonagh, tentenna. “Hoare lo convince, dicendo che, se la sovvenzione è negata, è pronto a pagare di tasca propria”, spiega Martland. E si fa l’accordo: cento sterline alla settimana. Ricorderà molti anni più tardi, nel 1954, Hoare, ormai divenuto Lord Templewood, nelle sue memorie: “’Lasci fare a me’, fu la risposta che Mussolini mandò attraverso il mio intermediario: ‘Mobiliterò i mutilati di Milano, che spaccheranno la testa a ogni pacifista che tentasse di tenere una manifestazione di strada contro la guerra’. E fu di parola, i fasci neutralizzarono davvero i pacifisti milanesi”, concluse Hoare - sorvolando, da signore, sulle cifre. Naturalmente, non è che Mussolini abbia salvato le sorti dell’Italia e della guerra, ma anche il suo interventismo, fino al Piave e al riordinamento dell’esercito italiano sbandato, servì alla causa britannica. “L’investimento rese, anche se non so se Mussolini usasse i soldi per il giornale: viste le sue inclinazioni, ritengo probabile che abbia speso quei soldi per le sue amiche”, dice Martland, che fa due conti: “Era buon prezzo, se si pensa che la guerra all’epoca costava alla Gran Bretagna quattro milioni di sterline al giorno”. La storia è abbastanza nota, molto meno era l’entità del compenso, almeno fino a pochi giorni fa, quando è stata presentato a Londra un volume di mille pagine, la storia del Security Service, cioè il controspionaggio britannico, comunemente chiamato Mi5. Con il titolo“The Defence of the Realm”, che riprende il motto del servizio, “Regnum Defende”, è stata scritta da Christopher Andrew, già autore del celebre “Archivio Mitrokhin” che fece tanto scalpore dieci anni fa, e celebra in modo assolutamente originale (non era mai successo che un servizio segreto di tale importanza pubblicasse la propria “storia autorizzata”) il primo secolo di vita del Mi5, che nel 1917 includeva anche le operazioni all’estero, e naturalmente l’intelligence militare. Andrew, per svolgere il compito immane di consultare 400 mila files, s’è avvalso dell’aiuto di Martland, che proprio a Cambridge aveva a disposizione l’archivio Templewood, un altro forziere di documenti. E lì, spulciando le carte, Martland ha trovato la cifra del compenso britannico a Mussolini, le cento sterline. “Non credo che il dettaglio sia mai stato pubblicato: l’archivio Templewood è disponibile a chiunque, ma bisognava metterci il naso”.Pur di battere la Germania, andava bene anche l’aiuto di un Mussolini: d’altronde, perfino Winston Churchill disse che, pur di trovare alleati contro Hitler, sarebbe stato pronto ad andare all’inferno ad accordarsi con il diavolo. Oggi, con sano patriottismo, sia Andrew che Martland sottolineano l’opera meritoria per la difesa del regno svolta in cent’anni dal Security Service – e dai suoi agenti. “Hoare a Roma aveva antenne sensibili: fu il primo a capire, già allora, che il capo della corrente filo-tedesca in Vaticano era il futuro papa, l’arcivescovo Eugenio Pacelli, nunzio a Monaco di Baviera”. E lo stesso Hoare, per coincidenza, avrà ancora un rapporto privilegiato con Mussolini vent’anni dopo, quando sarà diventato Foreign Secretary, cioè ministro degli Esteri, e dovrà confrontarsi con quello che era ormai il Duce del fascismo, lanciato nell’avventura coloniale. Con il suo omologo francese, Pierre Laval, Hoare firmerà un patto per consentire all’Italia di sottomettere l’Abissinia e lasciare all’Etiopia lo sbocco al mare che il “Times”ridicolizzerà come “un corridoio per i cammelli”. Era l’inizio della politica dell’”appeasement” verso il nazifascismo che, fino alla seconda guerra mondiale, illuderà il governo Chamberlain. Ma questa è un’altra storia.(“The Defence of the Realm: The Autorized History of MI5”, di Christopher Andrew, è pubblicato da Allen Lane, 1032 pagine, 30 sterline. Nelle foto, dall’alto: Benito Mussolini davanti a una statua che lo ritrae; i bersaglieri nella battaglia di Caporetto, secondo una "Domenica del Corriere" del novembre 1917; Thames House, la sede del Mi5 a Londra; il logo del Security Service; "Profilo continuo - Testa di Benito Mussolini", di Renato Giuseppe Bertelli, terracotta smaltata, 1933; gli agenti del Mi5 sono protagonisti di una serie di successo della Bbc, "Spooks").
giovedì 8 ottobre 2009
stranieri: ricchezza o delinquenti?
Immigrati cioè criminali?Esagerato, ecco i dati
Immigrato uguale delinquente. Non sempre, ma spesso. Perché l'arrivo di tanti stranieri avrebbe fatto schizzare il numero dei reati. Ma è proprio così? Numeri alla mano, lo staff scientifico del Dossier immigrazione Caritas- Migrantes, in collaborazione con l'agenzia Redattore sociale, dimostra l'inconsistenza di un approccio frutto di approssimazione, luoghi comuni, se non di precise strategie politico- mediatiche. Lo studio su La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi parte dal risultato di molte indagini sociologiche: per 6 italiani su 10 gli immigrati hanno provocato un aumento del tasso di criminalità, tra loro 5 o 6 volte più alto di quello degli italiani. Falso, afferma la ricerca. Il tasso di criminalità degli immigrati regolari è sì più alto di quello degli italiani, ma bisogna considerare le condizioni sociali e normative sfavorevoli. Il tasso di criminalità – il rapporto tra denunce contro autori noti e il totale della popolazione – per gli italiani è dello 0,75%, per gli immigrati regolarmente soggiornanti è 1,24%. Non il quintuplo, dunque. Un dato che si riduce analizzandolo per fasce di età. Gli immigrati sono infatti una popolazione molto giovane. Il 95,5% delle condanne a stranieri è nella fascia 18- 44 anni, mentre i condannati italiani 'coetanei' sono il 78,6%. Nella fascia 45- 64 delinquono invece di più gli italiani: il 17,9%, tra gli stranieri il 5,3%. « Se anche tra gli italiani i giovani di 18-44 anni fossero il 92,5% del totale – afferma la ricerca – le denunce per questa fascia aumenterebbero di più di 200 mila unità. La popolazione italiana avrebbe un tasso di criminalità dell' 1,02%, vicino all' 1,24% dei regolari». Obiezione: ma sono gli irregolari e i clandestini i veri delinquenti. La ricerca ha una risposta anche per questo. Prima una premessa è lessicale. Chi non ha le carte in regola per il 64% è irregolare, cioè titolare di un permesso scaduto, gli overstayers. Il 23% è entrato clandestinamente via terra, solo il 13% via mare. E la portavoce dell'Acnur Laura Boldrini invita a non generalizzare nemmeno tra questi ultimi, definendoli «clandestini» , visto che il 75% degli sbarcati fa richiesta di asilo, accolta nella metà dei casi. Senza dimenticare, afferma la Caritas, che 2 dei 4 milioni di immigrati regolari, ieri erano irregolari, emersi grazie alle sanatorie. In effetti però tra le persone denunciate circa il 75% sono irregolari. Molti sono criminali veri, molti però finiscono nelle statistiche ( 550.590 reati nel 2005) proprio per infrazioni alla legge sull'immigrazione ( 21.996), o reati minori come la riproduzione di cd e film ( 5.294).«La mobilità degli immigrati – spiega l'avvocato Lucio Barletta – fa sì che a volte non vengono informati di procedimenti penali. Così non possono concordare riti abbreviati o patteggiamenti. La precarietà alloggiativa poi non permette alternative domiciliari al carcere». Infine: l'andamento delle denunce è stabile dal 1991, primo anno dell'era immigrazione. Ma se gli stranieri sono raddoppiati tra 2001 e 2005, le denunce nei loro confronti sono salite del 45,9%.
Luca Liverani
Immigrato uguale delinquente. Non sempre, ma spesso. Perché l'arrivo di tanti stranieri avrebbe fatto schizzare il numero dei reati. Ma è proprio così? Numeri alla mano, lo staff scientifico del Dossier immigrazione Caritas- Migrantes, in collaborazione con l'agenzia Redattore sociale, dimostra l'inconsistenza di un approccio frutto di approssimazione, luoghi comuni, se non di precise strategie politico- mediatiche. Lo studio su La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi parte dal risultato di molte indagini sociologiche: per 6 italiani su 10 gli immigrati hanno provocato un aumento del tasso di criminalità, tra loro 5 o 6 volte più alto di quello degli italiani. Falso, afferma la ricerca. Il tasso di criminalità degli immigrati regolari è sì più alto di quello degli italiani, ma bisogna considerare le condizioni sociali e normative sfavorevoli. Il tasso di criminalità – il rapporto tra denunce contro autori noti e il totale della popolazione – per gli italiani è dello 0,75%, per gli immigrati regolarmente soggiornanti è 1,24%. Non il quintuplo, dunque. Un dato che si riduce analizzandolo per fasce di età. Gli immigrati sono infatti una popolazione molto giovane. Il 95,5% delle condanne a stranieri è nella fascia 18- 44 anni, mentre i condannati italiani 'coetanei' sono il 78,6%. Nella fascia 45- 64 delinquono invece di più gli italiani: il 17,9%, tra gli stranieri il 5,3%. « Se anche tra gli italiani i giovani di 18-44 anni fossero il 92,5% del totale – afferma la ricerca – le denunce per questa fascia aumenterebbero di più di 200 mila unità. La popolazione italiana avrebbe un tasso di criminalità dell' 1,02%, vicino all' 1,24% dei regolari». Obiezione: ma sono gli irregolari e i clandestini i veri delinquenti. La ricerca ha una risposta anche per questo. Prima una premessa è lessicale. Chi non ha le carte in regola per il 64% è irregolare, cioè titolare di un permesso scaduto, gli overstayers. Il 23% è entrato clandestinamente via terra, solo il 13% via mare. E la portavoce dell'Acnur Laura Boldrini invita a non generalizzare nemmeno tra questi ultimi, definendoli «clandestini» , visto che il 75% degli sbarcati fa richiesta di asilo, accolta nella metà dei casi. Senza dimenticare, afferma la Caritas, che 2 dei 4 milioni di immigrati regolari, ieri erano irregolari, emersi grazie alle sanatorie. In effetti però tra le persone denunciate circa il 75% sono irregolari. Molti sono criminali veri, molti però finiscono nelle statistiche ( 550.590 reati nel 2005) proprio per infrazioni alla legge sull'immigrazione ( 21.996), o reati minori come la riproduzione di cd e film ( 5.294).«La mobilità degli immigrati – spiega l'avvocato Lucio Barletta – fa sì che a volte non vengono informati di procedimenti penali. Così non possono concordare riti abbreviati o patteggiamenti. La precarietà alloggiativa poi non permette alternative domiciliari al carcere». Infine: l'andamento delle denunce è stabile dal 1991, primo anno dell'era immigrazione. Ma se gli stranieri sono raddoppiati tra 2001 e 2005, le denunce nei loro confronti sono salite del 45,9%.
Luca Liverani
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