lunedì 28 dicembre 2009

IL S. NATALE CHE NON C'E'

e con il dovuto rispetto …….. In sette mosse ecco come si può rovinare la festa
di Mario Delpini

La festa di Natale è così bella, così cristiana, così speciale che per rovinarla ci vuole molto impegno. Bisogna però riconoscere che i cristiani, quando vogliono, si impegnano seriamente. Segnalo alcuni di questi impegni:
Cambiare i nomi: non si chiamino più <>, ma <>
Applaudire maestre e bambini che per la recita di Natale mettono in scena qualche favola insulsa per non offendere i non cristiani con i racconti sulla nascita di Gesù.
Insegnare ai bambini a scrivere la letterina a Babbo Natale con una sfilza di richieste capricciose e costose, prima di insegnare a pregare Gesù Bambino per le cose che contano.
Dedicare tempo a decidere dove andare a sciare più che a preparare la confessione di Natale.
Esagerare: mangiare troppo, bere troppo, spendere troppo, così da avere il mal di testa e una malavoglia che impedisce persino di fare visita agli amici, ai poveri, al cimitero.
Trovare sollievo nel dimenticar per un giorno i problemi del mondo e l’esistenza dei poveri.
Ricordarsi di tutti, eccetto il Festeggiato: il Natale, per sé, sarebbe il compleanno di Gesù.

I cristiani si giustificano: <>. Ma il profeta risponde: <>.

I punti 5-6-7 personalmente mi hanno colpito parecchio ……

I PIU’ SINCERI AUGURI
DI UN SANTO NATALE DI GESU’
franco
E il Verbo si fece carne…

giovedì 17 dicembre 2009

LA FEDE NON E' MAI CONTRO LA RAGIONE

Fede e ragione: quel sole nella notte
I due interventi inaugurali del Convegno internazionale su Dio recentemente promosso dalla Cei hanno riproposto un tema decisivo. Il cardinal Ruini ed il filosofo Robert Spaemann hanno infatti ribadito la possibilità di elaborare delle dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio. La scelta di iniziare il Convegno con questo discorso è molto importante anche nei riguardi del mondo cattolico, perché non pochi credenti cadono nel fideismo, che nega il contributo della filosofia alla fede, considerandola inutile o addirittura perniciosa, e poggia la fede soltanto su un sentimento interiore e sulla Bibbia.In realtà, la capacità della ragione di giungere a Dio è affermata già dalla stessa Bibbia. Un passo della Lettera ai romani (I, 19-21), citato più di una volta al Convegno: «Ciò che di Dio si può conoscere è agli uomini manifesto […]. Infatti […] le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute». E la Lettera di Pietro (1 Pt, 3, 15) esorta a promuovere il cristianesimo appunto anche mediante la ragione: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi».Anche sulla scorta di questi passi la Chiesa si è molte volte pronunciata sulla possibilità di affermare Dio con la ragione. Per esempio nell’enciclica Fides et Ratio (§ 24, 36 e 53), dove, inoltre, Giovanni Paolo II ha criticato (al § 55) i "pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio". Ma potremmo citare anche molti interventi di Benedetto XVI. Similmente, il cardinal Bagnasco ha rimarcato al Convegno che «purtroppo […] sentimentalismo ed emotivismo […] finiscono per avallare l’opinione diffusa che religione e ragione appartengano a due mondi, se non contrapposti, quantomeno incomunicabili».Per contro, la filosofia può recare alla fede almeno due preziosissimi contributi.Anzitutto, le prove filosofiche dell’esistenza di Dio possono essere proposte a chi non è già cristiano, possono condurre l’ateo a convincersi dell’esistenza di Dio e possono inoltre portare il non cristiano sulla soglia della fede nel Dio cristiano. In effetti, i cristiani diventano tali sia perché ricevono la fede direttamente da Dio o da qualche persona che inoltre la testimonia, sia anche, a volte, perché vengono convinti da dei ragionamenti. Per esempio, s. Agostino si è convertito grazie a s. Ambrogio ed alla lettura dei discorsi dei filosofi neoplatonici, s. Edith Stein è arrivata al cristianesimo leggendo s. Teresa e grazie alla filosofia di s. Tommaso, e Janne Haaland Matlary – già viceministro norvegese, che era agnostica (ed in certi periodi atea) - è arrivata al cattolicesimo proprio grazie alla filosofia.Inoltre, la filosofia può soccorrere anche chi è già credente: anche i più grandi santi hanno attraversato periodi in cui nessun sentimento interiore confermava loro l’esistenza di Dio, come è avvenuto a Madre Teresa di Calcutta. È la «notte dello spirito», per usare l’espressione di s. Giovanni della Croce. In simili momenti, la filosofia, che può dimostrare l’esistenza di Dio e anche alcuni aspetti della sua natura (onnipotenza, sapienza, giustizia, provvidenza, ecc.), può aiutarci a rimanere convinti che Dio esiste, a riconoscerlo anche quando si addensa il buio.
Giacomo Samek Lodovici

martedì 15 dicembre 2009

DON BOSCO LO STATISTA DELL' 800

Don Bosco, «statista» del Risorgimento

L'obiettivo che don Bosco si pose fin dal 1846 era preciso: «Adoperarsi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo». Egli non rinnegò mai la sua scelta anche quando il «buon cittadino» del Regno di Sardegna divenne quello di un Regno d’Italia ostile alla Chiesa: «Mentre mi professo sacerdote cattolico ed affezionato al Capo della Cattolica Religione, mi sono pur sempre mostrato affezionatissimo al Governo, per i sudditi del quale ho sempre dedicate le deboli mie sostanze e le forze e la vita». Inoltre la sua tranquillizzante strategia pastorale – «amore al lavoro, frequenza dei Sacramenti, rispetto ad ogni autorità e fuga dai cattivi compagni» – non poteva certo essere ostacolata da amministrazioni cittadine e apparati statali, preoccupati com’erano dall’ordine sociale dell’epoca. Superate le turbolenze politico-religiose del biennio 1848-1849 con il rifiuto di aggregarsi a qualunque schieramento politico e con il deciso schierarsi in difesa della religione, don Bosco riprese la sua politica assistenziale ed educativa, sempre appoggiata dai vertici dello Stato come «opera benemerita della religione e della società», proprio mentre andavano approvando contestatissime leggi che avviavano il Paese alla modernizzazione laica dello Stato e alla sua divaricazione dalla Chiesa. Negli anni Cinquanta, non schierandosi decisamente a favore delle innovazioni politiche ma neppure opponendosi direttamente e pubblicamente – anzi tentando congiuntamente con i fratelli Cavour di risolvere il caso dell’arcivescovo di Torino – il sacerdote evitò eccessive molestie e continuò ad essere in buoni rapporti con numerosi funzionari statali e ministri, che rispondevano ai suoi appelli di sussidi e indumenti e soprattutto gli affidavano orfani. I buoni rapporti si incrinarono ai primi passi dell’Unità d’Italia. Nel maggio-giugno 1860 – sei mesi dopo la fondazione della Società salesiana – don Bosco subì una durissima perquisizione poliziesca per sospette relazioni politiche con la Santa Sede e una severa ispezione scolastica per presunte inadempienze alle nuova legislazione scolastica. Vigorosamente protestò con i rispettivi ministri, superò brillantemente la crisi e riprese con sempre crescente credito la sua attività di educatore, di responsabile di scuole e di laboratori, di pubblicista, di costruttore di chiese; allargò anzi il suo raggio di azione fuori Torino con l’accettazione di nuovi collegi. Nessuno – in quel decennio che vide acutizzarsi per la coscienza cristiana la «questione romana» – ignorava la fedeltà di don Bosco alla linea politica della Santa Sede; i politici non erano d’accordo con lui quando affermava la necessità, peraltro non assoluta, dello Stato pontificio per l’indipendenza del pontefice; intuivano che i connotati dell’«onesto cittadino» che don Bosco pubblicamente dichiarava di formare non erano gli stessi del «buon cittadino» del «loro» Regno d’Italia. Ma nonostante tali sue tendenze più conservatrici che democratiche, più paternalistiche che egualitarie, più clericali che laiche, forse proprio per esse fu coinvolto e si fece promotore nel decennio 1865-1875 di vari tentativi di politica ecclesiastica in vista di una soluzione dei due problemi che turbavano la vita politica e le coscienze religiose dei cittadini: la nomina dei vescovi alle sedi che ne erano prive per motivi politici e il conseguimento da parte loro delle cosiddette «temporalità». In tale opera di privatissime mediazioni don Bosco ebbe modo di farsi apprezzare dai vari Cavour, Rattazzi, Ricasoli, Menabrea, Lanza, Vigliani, Minghetti, Cambray Digny... Alla cattolicissima moglie di quest’ultimo osò chiedere di informarsi circa la possibilità che il governo italiano potesse essere rappresentato al Concilio Vaticano! Di anni di volenterose trattative, solo parzialmente riuscite, restò lo sforzo generoso di don Bosco che – su e giù per Torino, Firenze e Roma – in nome del supremo principio «lex suprema, salus animarum», si era prestato per conciliare realisticamente le competenze e le responsabilità di entrambe le parti in causa. Nei secondi anni Settanta, dimenticati i sogni di restaurazione del Regno pontificio, cessata l’attesa di castighi divini sui «nemici della Chiesa» e con la sinistra storica al potere, più laicista e anticlericale della destra, in buona parte costituita da massoni, don Bosco non ebbe più occasione di intervenire in ambito di politica ecclesiastica, ma non rinunciò ad avere contatti. Nel 1878 ricevette personalmente dal ministro Crispi l’assicurazione che il governo avrebbe lasciato piena libertà alla Chiesa di procedere al conclave. Con lo stesso statista siciliano discusse di metodi educativi, di carceri minorili e gli inviò un promemoria ispirato ai principi del suo noto sistema preventivo, ma adottabile da istituzioni educative laiche. Operava sempre allo stesso fine: «Tendere a giovare al buon costume e diminuire il numero dei discoli, che abbandonati a se stessi corrono grande pericolo di andare a popolare le prigioni. Istruire costoro, avviarli al lavoro, provvederne i mezzi, e dove sia necessità, anche ricoverarli, nulla risparmiare per impedirne la rovina, anzi farne buoni cristiani ed onesti cittadini, queste opere, dico, non possono non essere rispettate, anzi desiderate da qualsiasi governo, da qualsiasi politica». Nel 1900 il celebre criminologo Cesare Lombroso gli avrebbe dato ragione: «Gli istituti salesiani rappresentano uno sforzo colossale e genialmente organizzato per prevenire il delitto, l’unico anzi che si sia fatto in Italia».
Francesco Motto, direttore dell'Istituto Storico Salesiano

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mercoledì 2 dicembre 2009

VIVERE D'AMORE

Guglielmo di Saint-Thierry,il «Dottore della Dolcezza»
Cari fratelli e sorelle,in una precedente Catechesi ho presentato la figura di Bernardo di Chiaravalle, il "Dottore della dolcezza", grande protagonista del secolo dodicesimo. Il suo biografo – amico ed estimatore – fu Guglielmo di Saint-Thierry, sul quale mi soffermo nella riflessione di questa mattina. Guglielmo nacque a Liegi tra il 1075 e il 1080. Di nobile famiglia, dotato di un’intelligenza viva e di un innato amore per lo studio, frequentò famose scuole dell’epoca, come quelle della sua città natale e di Reims, in Francia. Entrò in contatto personale anche con Abelardo, il maestro che applicava la filosofia alla teologia in modo così originale da suscitare molte perplessità e opposizioni. Anche Guglielmo espresse le proprie riserve, sollecitando il suo amico Bernardo a prendere posizione nei confronti di Abelardo. Rispondendo a quel misterioso e irresistibile appello di Dio, che è la vocazione alla vita consacrata, Guglielmo entrò nel monastero benedettino di Saint-Nicaise di Reims nel 1113, e qualche anno dopo divenne abate del monastero di Saint-Thierry, in diocesi di Reims. In quel periodo era molto diffusa l’esigenza di purificare e rinnovare la vita monastica, per renderla autenticamente evangelica. Guglielmo operò in questo senso all’interno del proprio monastero, e in genere nell’Ordine benedettino. Tuttavia incontrò non poche resistenze di fronte ai suoi tentativi di riforma, e così, nonostante il consiglio contrario dell’amico Bernardo, nel 1135, lasciò l’abbazia benedettina, smise l’abito nero e indossò quello bianco, per unirsi ai cistercensi di Signy. Da quel momento fino alla morte, avvenuta nel 1148, si dedicò alla contemplazione orante dei misteri di Dio, da sempre oggetto dei suoi più profondi desideri, e alla composizione di scritti di letteratura spirituale, importanti nella storia della teologia monastica.Una delle sue prime opere è intitolata De natura et dignitate amoris (La natura e la dignità dell’amore). Vi è espressa una delle idee fondamentali di Guglielmo, valida anche per noi. L’energia principale che muove l’animo umano - egli dice - è l’amore. La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell’amare. In definitiva, un solo compito è affidato a ogni essere umano: imparare a voler bene, ad amare, sinceramente, autenticamente, gratuitamente. Ma solo alla scuola di Dio questo compito viene assolto e l’uomo può raggiungere il fine per cui è stato creato. Scrive infatti Guglielmo: "L’arte delle arti è l’arte dell’amore… L’amore è suscitato dal Creatore della natura. L’amore è una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio" (La natura e la dignità dell’amore 1, PL 184,379). Imparare ad amare richiede un lungo e impegnativo cammino, che è articolato da Guglielmo in quattro tappe, corrispondenti alle età dell’uomo: l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. In questo itinerario la persona deve imporsi un’ascesi efficace, un forte controllo di sé per eliminare ogni affetto disordinato, ogni cedimento all’egoismo, e unificare la propria vita in Dio, sorgente, mèta e forza dell’amore, fino a giungere al vertice della vita spirituale, che Guglielmo definisce come "sapienza". A conclusione di questo itinerario ascetico, si sperimenta una grande serenità e dolcezza. Tutte le facoltà dell’uomo - intelligenza, volontà, affetti - riposano in Dio, conosciuto e amato in Cristo.Anche in altre opere, Guglielmo parla di questa radicale vocazione all’amore per Dio, che costituisce il segreto di una vita riuscita e felice, e che egli descrive come un desiderio incessante e crescente, ispirato da Dio stesso nel cuore dell’uomo. In una meditazione egli dice che l’oggetto di questo amore è l’Amore con la "A" maiuscola, cioè Dio. È lui che si riversa nel cuore di chi ama, e lo rende atto a riceverlo. Si dona a sazietà e in modo tale, che di questa sazietà il desiderio non viene mai meno. Questo slancio d’amore è il compimento dell’uomo" (De contemplando Deo 6, passim, SC 61bis, pp. 79-83). Colpisce il fatto che Guglielmo, nel parlare dell’amore a Dio attribuisca una notevole importanza alla dimensione affettiva. In fondo, cari amici, il nostro cuore è fatto di carne, e quando amiamo Dio, che è l’Amore stesso, come non esprimere in questa relazione con il Signore anche i nostri umanissimi sentimenti, come la tenerezza, la sensibilità, la delicatezza? Il Signore stesso, facendosi uomo, ha voluto amarci con un cuore di carne!Secondo Guglielmo, poi, l’amore ha un’altra proprietà importante: illumina l’intelligenza e permette di conoscere meglio e in modo profondo Dio e, in Dio, le persone e gli avvenimenti. La conoscenza che procede dai sensi e dall’intelligenza riduce, ma non elimina, la distanza tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e il tu. L’amore invece produce attrazione e comunione, fino al punto che vi è una trasformazione e un’assimilazione tra il soggetto che ama e l’oggetto amato. Questa reciprocità di affetto e di simpatia permette allora una conoscenza molto più profonda di quella operata dalla sola ragione. Si spiega così una celebre espressione di Guglielmo: "Amor ipse intellectus est - già in se stesso l’amore è principio di conoscenza". Cari amici, ci domandiamo: non è proprio così nella nostra vita? Non è forse vero che noi conosciamo realmente solo chi e ciò che amiamo? Senza una certa simpatia non si conosce nessuno e niente! E questo vale anzitutto nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri, che superano la capacità di comprensione della nostra intelligenza: Dio lo si conosce se lo si ama!Una sintesi del pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry è contenuta in una lunga lettera indirizzata ai Certosini di Mont-Dieu, presso i quali egli si era recato in visita e che volle incoraggiare e consolare. Il dotto benedettino Jean Mabillon già nel 1690 diede a questa lettera un titolo significativo: Epistola aurea (Lettera d’oro). In effetti, gli insegnamenti sulla vita spirituale in essa contenuti sono preziosi per tutti coloro che desiderano crescere nella comunione con Dio, nella santità. In questo trattato Guglielmo propone un itinerario in tre tappe. Occorre - egli dice - passare dall’uomo "animale" a quello "razionale", per approdare a quello "spirituale". Che cosa intende dire il nostro autore con queste tre espressioni? All’inizio una persona accetta la visione della vita ispirata dalla fede con un atto di obbedienza e di fiducia. Poi con un processo di interiorizzazione, nel quale la ragione e la volontà giocano un grande ruolo, la fede in Cristo è accolta con profonda convinzione e si sperimenta un’armoniosa corrispondenza tra ciò che si crede e si spera e le aspirazioni più segrete dell’anima, la nostra ragione, i nostri affetti. Si giunge così alla perfezione della vita spirituale, quando le realtà della fede sono fonte di intima gioia e di comunione reale e appagante con Dio. Si vive solo nell’amore e per amore. Guglielmo fonda questo itinerario su una solida visione dell’uomo, ispirata agli antichi Padri greci, soprattutto ad Origene, i quali, con un linguaggio audace, avevano insegnato che la vocazione dell’uomo è diventare come Dio, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. L’immagine di Dio presente nell’uomo lo spinge verso la somiglianza, cioè verso un’identità sempre più piena tra la propria volontà e quella divina. A questa perfezione, che Guglielmo chiama "unità di spirito", non si giunge con lo sforzo personale, sia pure sincero e generoso, perché è necessaria un’altra cosa. Questa perfezione si raggiunge per l’azione dello Spirito Santo, che prende dimora nell’anima e purifica, assorbe e trasforma in carità ogni slancio e ogni desiderio d’amore presente nell’uomo. "Vi è poi un’altra somiglianza con Dio", leggiamo nell’Epistola aurea, "che viene detta non più somiglianza, ma unità di spirito, quando l’uomo diventa uno con Dio, uno spirito, non soltanto per l’unità di un identico volere, ma per non essere in grado di volere altro. In tal modo l’uomo merita di diventare non Dio, ma ciò che Dio è: l’uomo diventa per grazia ciò che Dio è per natura" (Epistola aurea 262-263, SC 223, pp. 353-355).Cari fratelli e sorelle, questo autore, che potremmo definire il "Cantore dell’amore, della carità", ci insegna ad operare nella nostra vita la scelta di fondo, che dà senso e valore a tutte le altre scelte: amare Dio e, per amore suo, amare il nostro prossimo; solo così potremo incontrare la vera gioia, anticipo della beatitudine eterna. Mettiamoci quindi alla scuola dei Santi per imparare ad amare in modo autentico e totale, per entrare in questo itinerario del nostro essere. Con una giovane santa, Dottore della Chiesa, Teresa di Gesù Bambino, diciamo anche noi al Signore che vogliamo vivere d’amore. E concludo proprio con una preghiera di questa Santa: "Io ti amo, e tu lo sai, divino Gesù! Lo Spirito d'amore mi incendia col suo fuoco. Amando Te attiro il Padre, che il mio debole cuore conserva, senza scampo. O Trinità! Sei prigioniera del mio amore. Vivere d'amore, quaggiù, è un darsi smisurato, senza chiedere salario … quando si ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al Cuore divino, che trabocca di tenerezza! E corro leggermente. Non ho più nulla, e la mia sola ricchezza è vivere d'amore".

PAPA BENEDETTO XVI
DA AVVENIRE