venerdì 24 dicembre 2010

QUEL BAMBINO CHE HA CAMBIATO LA STORIA

Natività 2010



Una stella, una domanda, una storia...
Una mangiatoia, un bimbo, una nuova vita...
Una famiglia, come le nostre, che accoglie e condivide la vita del bimbo che
arriva.
E' così che viene il Dio della storia e della vita, il Dio degli ultimi e dei
dimenticati.
Ancora una volta quel "magnificat" diventa il si di tutti coloro che accettano
la proposta dell'Emmanuele, del Dio con noi.

Ancora una volta quel bimbo si lascia accogliere dalle nostre mani e si fa uomo
per camminare con noi.

Stupore, speranza, profezia.

Buona Natale

HANDYCAPP FRANCO

martedì 21 dicembre 2010

IL MIRAGGIO DI NON MORIRE

La vita eterna
e il miraggio di non morire
La vita eterna? In un certo senso è diventata un’altra cosa. E questo anche perché è cambiata l’immagine, ma soprattutto la presenza della morte. Ancora ricordo i risultati di una ricerca statistica inglese sulla città di Exeter. L’autore diceva: a 25 anni la metà del campione studiato era già morta. E i dati, a quanto ricordo, si riferivano al Settecento. Eravamo già lontani dall’immagine della morte del medioevo, quando era sempre e quasi naturalmente presente. Il cimitero non era un luogo lontano dalla vita quotidiana, tanto è vero che nei cimiteri si commerciava, ci si prostituiva…

Oggi? Siamo separati dai cimiteri e dalla morte. Culturalmente è vissuta come un evento imprevedibile, che ci sorprende ogni volta che la incontriamo. Nei secoli e nei millenni che stanno alle nostre spalle la durata della vita si è, pur lentamente, allungata e la morte è quasi scomparsa dai primi 20 o 30 anni di vita. Certamente si muore negli incidenti stradali, nei posti di lavoro, ma di queste morti non si parla più come di un prodotto del destino, bensì di carenze, di errori, di circostanze più o meno imprevedibili. In conclusione, la morte è ancora una scomoda inquilina della vita, ma un’inquilina il cui arrivo è sempre meno prevedibile per cui, alla fine, la cultura della morte è profondamente diversa da quella di un tempo.

Certamente si deve morire, ma la morte viene associata a una vecchiaia vissuta come un evento molto lontano che non ci riguarda da vicino. Già tutto questo contribuisce a una ricostruzione del nostro rapporto con la religione. Un tempo religione, morte e vita eterna erano collegati psicologicamente. Oggi la religiosità, spesso molto lontana dal problema della morte, diventa un evento psicologicamente più positivo. Gli aspetti sociali, culturali e psicologici della religione subiscono quindi importanti trasformazioni. Ma si sta facendo strada un altro problema che interessa da vicino la religione ed è almeno in parte il prodotto di queste secolari trasformazioni.

La vita, prolungata dai progressi delle scienze umane, comincia ad essere vissuta come psicologicamente eterna. Mi resi conto dell’esistenza di questo problema anni or sono quando partecipai a una trasmissione televisiva insieme a un biologo americano il quale osservò: «I progressi della genetica mi fanno pensare che qualcuno di quanti nascono ora sarà vivo fra 400 anni». Un’affermazione che forse contiene frammenti di verità, ma che è molto importante anche dal punto di vista culturale. Quindi, si comincia a parlare di una vita che, sul piano psicologico, anche se non nel nostro quotidiano, diventa fisicamente eterna.

Sollecitato da questa considerazione cominciai a riflettere, e dentro di me si affollarono le domande. Ma che ne sarà, nella cultura di uomini e donne di quel futuro, della vita religiosamente eterna? Come saranno consolati gli esseri umani di fronte ad una presunta o presumibile eternità fisica, satura anche di sofferenze e dolori? Cambia veramente il significato del concetto di vita eterna? Rimane, in un mondo così drammaticamente diverso, la necessità di dare una risposta religiosa ai nostri problemi.

Ma come fare di fronte a una vita psicologicamente vissuta come eterna, da un uomo più solo che mai? E probabilmente impreparato ad affrontare una realtà così diversa? Si tratta di formulazioni nuove di problemi che filosofia, teologia e psicologia hanno sempre affrontato, o di problemi nuovi per questa civiltà così differente?
Sabino Acquaviva

A proposito di «famiglia allargata»
La felicità non è un caos
«Il giorno più brutto della mia vita? Quando papà e mamma si sono separati»: la bambina che mi parla così ha 7 anni, dunque siamo arrivati ai tempi in cui una bambina di 7 anni cataloga i giorni brutti della sua vita, e stabilisce qual è il peggiore? E se il giorno in cui papà e mamma si son separati è il più brutto, ci potrà mai essere, in futuro, un giorno ancora più brutto? Sì: «Quando il papà o la mamma avranno un nuovo fidanzato».

La bambina è la prima della classe, scrive perfino delle poesie. Senza rima, ma ormai chi usa più la rima? Leggevo, ieri, che ci sono bambini per i quali avere tre o quattro genitori è una festa: si divertono di più. Se poi i nuovi genitori hanno dei bambini, i figli nati dai due-tre matrimoni formano una squadra, giocano sempre, è come se fossero continuamente al parco. Questo leggevo. Ma la mia esperienza non me lo conferma. Ogni tanto la madre della bambina che ho introdotto all’inizio di questo articolo fa qualche viaggio, per stare in pace col nuovo compagno, e per non far sentire l’abbandono alla figlia la chiama col cellulare, e la prima risposta della figlia è: «Dove sei? sei sola? o sei con X?». La piccola ha un’ossessione: che la madre introduca un nuovo marito, e cioè un nuovo padre. Il bambino sente padre-madre come una coppia perfetta, si sente il frutto di una perfezione.

Se la coppia si spacca, nel bambino s’infiltra un’autosvalutazione, si sente frutto di un errore. Avevo un amico che era uscito di casa, viveva con un’altra donna, e da queste donna ebbe un nuovo figlio. Il figlio avuto dalla moglie precedente andò a trovarlo, stava al quinto piano, guardò il fratellastro in culla, uscì sul terrazzino e si buttò. Ricordi come questo, di figli finiti male o sbandati perché papà e mamma si son separati, a una certa età si fan numerosi.

Leggo che son nati termini nuovi, per indicare i nuovi ruoli introdotti col secondo o terzo matrimonio: "papigno", "mammastra", "cugipote". Non vedo la scia di affettività che questi termini si trascinano dietro. "Papigno" è il maschile di "matrigna", e la matrigna sta nelle favole come l’incarnazione del peggior male che l’inconscio delle bambine teme: è l’anti-madre. So che le matrigne eccellenti non sono poche, ma so che le bambine con questo terrore sono molte. E "papigno" è un neologismo funebre. In genere la matrigna appare quand’è morta la madre, se c’è il papigno vuol dire che non c’è il papà. Il figlio c’è perché c’è la mamma che lo ha voluto.

Se c’è la "mammastra" ci sono altri figli che lei ha voluto, non tu. La famiglia allargata è un caos generazionale, ma anche lessicale. Poiché le famiglie allargate son numerose, in Inghilterra han deciso che a scuola non si dica più ai bambini "tua madre" o "tuo padre", perché è possibile che il bambino non viva con loro. Allora si dice: "gli adulti che vivono con te". La parola "madre" è cancellata. La parola è un albero, la lingua una foresta. Se tagli una parola, tagli un albero. Ma dalla parola "mamma" derivano tanti altri alberi, germogliati dalle sue radici: se tagli quella parola, crei una radura vuota nel mezzo della società.

Un ministro italiano in carica ha confidato ieri: «Anch’io pensavo che mio figlio, intelligente, non ne risentisse, e mi sono separato. Ma si è destabilizzato. Non è giusto cercare la propria felicità a danno dei figli». È l’intuizione di un concetto profondo che va portato in superficie: se uno vive da solo, insegue una felicità individuale; se si unisce a formare una coppia, entra in un altro concetto di felicità, la felicità di coppia, che comporta anche dei doveri, la felicità dell’altro; se poi forma una famiglia, entra in una felicità di gruppo, e non può rompere impunemente il gruppo, e uccidere la felicità degli altri per chiudersi nella propria. La felicità della famiglia – e il Papa ce lo ha ricordato – non è fatta di tante felicità individuali separate, ma dalla loro fusione e dal loro accordo.
Ferdinando Camon

venerdì 3 dicembre 2010

la preghiera di DIO NOSTRO PADRE

Figlio mio che sei in Terra,
preoccupato, confuso, disorientato,
solo, triste, angustiato...
lo conosco perfettamente il tuo nome, e lo
pronuncio benedicendolo perchè ti amo.
No!.. Non sei solo, perchè Io abito in te;
insieme costruiremo questo Regno,
del quale tu sarai il mio erede.
Desidero che tu faccia sempre la mia volontà,
perchè la mia volontà
è che tu sia felice.
Devi sapere che potrai sempre contare su di me perchè non ti abbandonerò mai e che
avrai sempre il pane quotidiano, non ti preoccupare,
solo ti prego di dividerlo sempre con il tuo prossimo,
con i tuoi fratelli.
Sappi che perdono sempre le tue offese,
ancor prima che tu le commetta e
pur sapendo che le rifarai,
per questo ti prego che tu faccia lo stesso
con chi ti offende.
Desidero che tu non cada in tentazione,
per questo aggrappati forte alla mia mano e
confida sempre in me e Io ti libererò dal male.
Ricorda e non dimenticare mai
che TI AMO dall’inizio dei tuoi giorni,
e ti amerò fino alla fine...
IO TI AMERO’ SEMPRE PERCHE’ SONO TUO PADRE!
Che la mia benedizione sia con te e
che il mio Eterno Amore e la mia Pace
ti accompagnino sempre
perchè dal mondo non potrai riceverle come SOLO Io so donarle perchè...
IO SONO AMORE E PACE!

TUO,
PADRE

la preghiera di DIO NOSTRO PADRE

Figlio mio che sei in Terra,
preoccupato, confuso, disorientato,
solo, triste, angustiato...
lo conosco perfettamente il tuo nome, e lo
pronuncio benedicendolo perchè ti amo.
No!.. Non sei solo, perchè Io abito in te;
insieme costruiremo questo Regno,
del quale tu sarai il mio erede.
Desidero che tu faccia sempre la mia volontà,
perchè la mia volontà
è che tu sia felice.
Devi sapere che potrai sempre contare su di me perchè non ti abbandonerò mai e che
avrai sempre il pane quotidiano, non ti preoccupare,
solo ti prego di dividerlo sempre con il tuo prossimo,
con i tuoi fratelli.
Sappi che perdono sempre le tue offese,
ancor prima che tu le commetta e
pur sapendo che le rifarai,
per questo ti prego che tu faccia lo stesso
con chi ti offende.
Desidero che tu non cada in tentazione,
per questo aggrappati forte alla mia mano e
confida sempre in me e Io ti libererò dal male.
Ricorda e non dimenticare mai
che TI AMO dall’inizio dei tuoi giorni,
e ti amerò fino alla fine...
IO TI AMERO’ SEMPRE PERCHE’ SONO TUO PADRE!
Che la mia benedizione sia con te e
che il mio Eterno Amore e la mia Pace
ti accompagnino sempre
perchè dal mondo non potrai riceverle come SOLO Io so donarle perchè...
IO SONO AMORE E PACE!

TUO,
PADRE

giovedì 18 novembre 2010

IL VALORE AGGIUNTO DELL'HANDYCAPP

Bruno e Angela Carati: portatori di handicap
con sorriso, coraggio e iniziativa
La visita fatta con Don Natale a Bruno Carati, pittore di fama internazionale, e a sua moglie Angela
nella loro bella villetta di Castelseprio, immersa nel verde dei boschi del Varesotto, è certamente
una di quelle che colpiscono e rimangono impresse a lungo nella memoria.
Bruno è tetraplegico dalla nascita a causa del forcipe usato dai medici al momento del parto, per cui
ha gli arti quasi completamente immobilizzati. Angela ha un’emiparesi al braccio destro, che non
può utilizzare, a causa di una poliomielite avuta nei primi anni di vita, ma muove normalmente il
braccio sinistro e cammina autonomamente.
L’accoglienza è calorosa, anche per me che avevo visto Bruno soltanto una volta una quarantina di
anni fa, in occasione di una delle prime mostre dei suoi quadri assieme ad altri artisti che dipingono
con la bocca o con un piede. Colpisce innanzitutto la disinvoltura con la quale si definiscono
“handicappati”, rifiutando le dizioni alternative oggi così di moda come quella di “diversamente
abili”, che non alterano per nulla la sostanza dei fatti. Bruno aggiunge poi che secondo lui “il vero
handicappato è chi non ha avuto il coraggio di affrontare i problemi”.
Ci spiega le difficoltà che assieme ad Angela hanno dovuto affrontare nella loro vita, soprattutto
quando hanno avuto il figlio Manuel, che accudivano da soli potendo far uso di una sola mano
buona, quella sinistra di Angela. Il racconto fluisce spedito con frequenti battute, tra il divertito e
l’autoironico, nonostante qualche pausa di difficoltà dovuta agli spasmi della sua malattia. La moglie
gli è vicina e lo assiste amorevolmente, ricordando o suggerendo di tanto in tanto qualche altro
aneddoto.
Veniamo così trascinati pian piano nel loro mondo, fatto di difficoltà per le cose banali di tutti i
giorni (che noi eseguiamo facilmente), ma risolte con l’ausilio di attrezzi, inventati da Bruno, che
serra in bocca e tra i denti, muovendoli con grande abilità ed efficacia.
Prima di tutto la sua “bacchetta magica”, una bacchetta in legno di circa 25 cm con le estremità in
gomma, una per la presa e l’altra per muovere gli oggetti o i tasti del computer o della consolle.
Quest’ultima, anche se di fattura artigianale, è un vero prodigio in quanto gli consente di
comandare e verificare tutta l’area della villa, dotata com’è di numerosi pulsanti e di uno schema
luminoso di controllo. Poi citiamo il reggi-cornetta per telefonare, il reggi-rasoio elettrico per una
rasatura perfetta e per la pulizia delle testine, la tricicletta (a tre ruote per motivi di stabilità) per gli
spostamenti locali che si frena spingendo indietro la testa.
Alla domanda se non si perde mai d’animo di fronte alla difficoltà di risolvere un problema, ci
risponde di no. Al massimo accantona per un po’ il tutto, ci riflette con calma (tanto dorme poco ci
dice) ed infine la trova. Importante è l’analisi che lui fa; dapprima osserva attentamente come si
svolge la cosa per le persone normali e scompone l’attività nei vari movimenti necessari, quindi la
razionalizza tenendo conto di quello che lui può fare e infine studia la soluzione possibile e la
realizza.
A volte serve soltanto un po’ di tecnica e d’esercizio, come nello sbucciare la mela con il coltello
tenuto stretto tra le labbra, a volte occorrono semplici ausilii come un ferro da stiro o una molletta,
per tenere fermi il pezzo da saldare e il filo di saldatura, mentre manovra il saldatore con la bocca,
tal’altra infine servono attrezzi particolari come una specie di forchetta con la quale prepara le sue
sculture o le suppellettili per la casa, come vasi, lampadari, alzate, in materiale plastico. Si ferma
soddisfatto solo quando il risultato è perfetto. Per le pitture su vetro, la cui tecnica è piuttosto
difficile, corregge con precisione anche le più piccole sbavature servendosi di un cotton fioc.
Ricorda come già da piccolo a scuola si industriava per risolvere le difficoltà. Scriveva con la penna
tenuta in bocca e riusciva a fare i compiti come tutti i suoi compagni; nel dettato era un po’ più
lento, ma la maestra e gli amici lo aspettavano volentieri. L’unico vero problema era con i fogli di
protocollo, che, essendo più grandi, non gli permettevano di scrivere su tutta la facciata. Trovò la
soluzione, scrivendo su metà foglio in modo normale, poi girandolo e scrivendo alla rovescia
sull’altra metà così da completare lo scritto nella forma standard per l’insegnante.
Racconta sorridendo che gioca anche al biliardo, a “boccette”, mediante un cucchiaio di legno da
cucina tenuto con la bocca, che ha però tagliato nella parte inferiore per evitare di sollevare la
boccia al momento del lancio. Ingegnoso anche per i rari momenti di svago.
Angela ci fa vedere i suoi ultimi quadri, belli e interessanti, sparsi per tutta la casa. Paesaggi, fiori,
treni, alberi, realizzati su diversi supporti e con diverse tecniche, anche moderne. Bruno dipinge
solo al mattino per non affaticarsi troppo e non d’estate a causa del caldo. Riesce comunque a
Notizie da Atlantide 31.1 ottobre 2010 pagina 2/2
(Copia di questo articolo, e di tutti gli altri, è reperibile in www.parrocchiaredentore.it/oratorio/atlantide/atlantide.htm)
mantenere in tal modo da sempre sè e la sua famiglia, senza utilizzare la pensione di invalidità dello
Stato, che pure gli spetterebbe di diritto. Fa infatti parte di un’associazione con sede in
Lussemburgo, che promuove nel mondo la vendita dei quadri di artisti disabili, sia direttamente sia
utilizzandone l’immagine per bigliettini natalizi (SPAM) o per altri gadget. A fronte di una produzione
di 15-20 quadri all’anno di buon livello riceve uno stipendio fisso, che è sufficiente per le loro
esigenze.
Alla domanda se la Fede li aiuta ad affrontare la vita e le sue difficoltà Angela risponde con un
pronto e conciso “Certamente!”, ma poi il discorso scivola via su altri argomenti. Un quarto d’ora
dopo però Bruno riprende autonomamente il discorso e precisa: “Non è che andiamo così
frequentemente in Chiesa, ma il nostro rapporto col «nostro Amico lassù» è proprio speciale. A Lui
ci affidiamo e Lui ci aiuta sempre. Da tempo non lo prego più per farmi guarire; ci sarà una ragione
se sono così! Gli chiedo invece di riuscire a fare bene tutto quello che fanno gli altri. Del resto m’ha
già esaudito quella volta nel pellegrinaggio a Loreto, quando gli ho manifestato il mio desiderio di
diventare un buon pittore”. Angela aggiunge: “Tutte le volte che usciamo in auto dal cancello di
casa Gli dico: « Adesso non hai più tempo per altre cose, pensa a noi! ». Abbiamo fatto tanti
chilometri in questi anni dal 1997, da quando Bruno ha preso la patente, senza multe e senza
incidenti. Si vede che ci ha assistito proprio bene”.
Bruno interviene per spiegare la storia della patente, che non ha potuto avere in Italia, perché non
l’hanno nemmeno preso in considerazione ritenendolo un po’ matto. In Svizzera invece ce l’ha fatta
ed ora può guidare tranquillamente per le strade d’Europa senza intoppi. A volte però ci sono
spassosi inconvenienti, come ad esempio quando poliziotti o carabinieri si affacciano all’abitacolo
per chiedere chiarimenti e rimangono interdetti vedendo un’auto che non ha volante, ma solo una
barra di guida; non ha leve o manopole, ma solo una pulsantiera da aereo posta sopra il posto di
guida al posto del pannello parasole. Una volta Angela stava spiegando a Bruno qualcosa,
gesticolando animatamente con la sua mano buona, e sono stati fermati da un agente, che le ha
detto: ”Cara signora la seguo da dieci minuti; si ricordi che non si deve gesticolare quando si
guida!”, ma lei di rimando: “E’ lui che guida!”, causandogli una sorpresa ancora più grande. Non è
facile accettare che Bruno possa guidare con una mano legata alla barra, con i piedi ben fissati ai
pedali e soprattutto con tutti gli altri comandi azionati a bocca tramite la bacchetta magica. L’auto,
una Opel Astra, è stata modificata da una ditta specializzata di Biella su progetto di Bruno, mentre
tutta la parte dei collegamenti della pulsantiera aeronautica (di un Mig sovietico) con i meccanismi
di funzionamento è stata realizzata dal figlio Manuel, esperto in ingegneria elettronica.
Con essa hanno fatto numerosi viaggi da soli, tanto che i loro amici si lamentano perché sono
sempre in giro; riescono a fare anche 400 km in un giorno! Loro dicono che ciò è necessario per
seguire i molti impegni umanitari, che riguardano sia le presentazioni, che fanno nelle scuole o
presso altri enti (con un CD dal titolo “Una vita a modo mio” preparato e assemblato da Bruno) per
sensibilizzare l’opinione pubblica e per motivare gli altri in difficoltà, sia per aiutare altri artisti
disabili ad inserirsi nella loro Associazione. Un’attività instancabile e altamente meritoria se si
considera la fatica che a loro costa, tenendo anche conto del fatto che sono ormai vicini ai 70 anni.
Da qualche tempo c’è uno spettacolo teatrale ispirato alla loro vita, che una compagnia itinerante
porta in giro per l’Italia, dal titolo chiaramente allusivo alla loro situazione al momento della nascita
di Manuel: “Tre con una mano sola”. Come riporta il giornalista Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”
del 18 Luglio 2010 appena scende il buio in sala la voce narrante spiega: “Da che mondo è mondo il
teatro racconta storie inventate che sembrano vere. Noi questa sera raccontiamo una storia vera
che pare inventata”. La nostra Parrocchia pensa di organizzare nei prossimi mesi la proiezione di
questo spettacolo mediante un DVD e un incontro presso il nostro Oratorio con i nostri protagonisti.
A presto famiglia Carati! Abbiamo bisogno di quei semi della Speranza, al di là di ogni disagio e
infermità, e della Carità, sempre pronta al servizio degli altri, che in voi sono fioriti così
meravigliosamente, e di quella Fede forse semplice, ma intima e colloquiale, con il Dio biblico, che
dall’alto dei cieli si china amorevolmente come un Padre sulle sue creature. Ci serviranno per
ritrovare e ridare fiducia a noi stessi e a questo mondo dal futuro così nebuloso ed incerto.
Per maggiori informazioni: consultare il sito “www.bcarati.it”
I L GRUPPO DI ATLANTIDE

mercoledì 20 ottobre 2010

NEL CUORE DELL'UOMO C'E' LA SUA GRANDEZZA...

A una cena di raccolta fondi per una scuola che serve i disabili mentali, il padre di uno degli studenti fece un discorso che nessuno di coloro che partecipavano avrebbe mai dimenticato.
Dopo aver lodato la scuola e il personale dedito, fece una domanda: "Quando influenze esterne non interferiscono dall'esterno, la natura di tutti è perfetta. Mio figlio Shay, tuttavia, non può imparare le cose che imparano gli altri. Non può capire le cose come gli altri. Dov'è l'ordine naturale delle cose, in mio figlio?".
Il pubblico fu zittito dalla domanda.
Il padre continuò. "Io ritengo che, quando un bambino come Shay, fisicamente e mentalmente handicappato viene al mondo, si presenta un'opportunità di realizzare la vera natura umana, ed essa si presenta nel modo in cui le altre persone trattano quel bambino".
Poi raccontò la storia che segue: Shay e suo padre stavano camminando vicino a un parco, dove c'erano alcuni ragazzi che Shay conosceva che giocavano a baseball. Shay chiese: "Credi che mi lascerebbero giocare?". Il padre di Shay sapeva che la maggior parte dei ragazzi non volevano un ragazzo come lui nella squadra, ma comprendeva anche che se al figlio fosse stato permesso giocare, la cosa gli avrebbe dato un senso di appartenenza di cui aveva molto bisogno, e un po' di fiducia nell'essere accettato dagli altri, nonostante i suoi handicap.
Il padre di Shay si avvicinò a uno dei ragazzi sul campo e chiese se Shay poteva giocare, non aspettandosi un granché in riposta. Il ragazzo si guardò attorno, in cerca di consiglio e disse: "Siamo sotto di sei e il gioco è all'ottavo inning. Immagino che possa stare con noi e noi cercheremo di farlo battere all'ultimo inning".
Shay si avvicinò faticosamente alla panchina della squadra, indossò una maglietta della squadra con un ampio sorriso e suo padre si sentì le lacrime negli occhi e una sensazione di tepore al cuore. Il ragazzo vide la gioia di suo padre per essere stato accettato. In fondo all'ottavo inning, la squadra di Shay ottenne un paio di basi, ma era ancora indietro di tre. Al culmine del nono e ultimo inning, Shay si mise il guantone e giocò nel campo giusto. Anche se dalla sua parte non arrivarono dei lanci, era ovviamente in estasi solo per essere nel gioco e in campo, con un sorriso che gli arrivava da un orecchio all'altro, mentre suo padre lo salutava dalle gradinate.
Alla fine del nono inning, la squadra di Shay segnò ancora.
Ora, con due fuori e le basi occupate, avevano l'opportunità di segnare la battuta vincente e Shay era il prossimo, al turno di battuta.
A questo punto, avrebbero lasciato battere Shay e perso l'opportunità di far vincere la squadra? Sorprendentemente, a Shay fu assegnato il turno di battuta. Tutti sapevano che gli era impossibile colpire la palla, perché Shay non sapeva neppure tenere bene la mazza, per non dire cogliere la palla. Comunque, mentre Shay andava alla battuta, il lanciatore, capendo che l'altra squadra stava mettendo da parte la vincita per far sì che Shay avesse questo momento, nella sua vita, si spostò di alcuni passi per lanciare la palla morbidamente, così che Shay potesse almeno riuscire a toccarla con la mazza. Arrivò il primo lancio e Shay girò la mazza a vuoto. Il lanciatore fece ancora un paio di passi avanti e gettò di nuovo lentamente la palla verso Shay.
Mentre la palla era in arrivo, Shay girò goffamente la mazza, la colpì e la spedì lentamente sul terreno, dritta verso il lanciatore.
Il gioco avrebbe dovuto finire, a quel punto, ma il lanciatore raccolse la palla e avrebbe potuto facilmente lanciarla al primo che copriva la base e squalificare il battitore. Shay sarebbe stato fuori e questo avrebbe segnato la fine della partita. Invece, il lanciatore raccolse la palla e la lanciò proprio al di là della testa
del primo in base, fuori dalla portata dei compagni di squadra. Tutti quelli che si trovavano sugli spalti e i giocatori cominciarono a gridare: "Shay, corri in prima base! Corri in prima!" Shay non aveva mai corso in vita sua così lontano, ma riuscì ad arrivare in prima base. Corse lungo la linea, con gli occhi spalancati e pieno di meraviglia. Tutti gli gridarono: "Corri alla seconda, alla seconda, ora!" Trattenendo il fiato, Shay corse ancor più goffamente verso la seconda, ansimando e sforzandosi di raggiungerla. Quando Shay curvò verso la seconda base, la palla era fra le mani del giocatore giusto, un piccoletto, che ora aveva la possibilità per la prima volta di essere lui l'eroe della propria squadra. Avrebbe potuto lanciarla alla seconda base per squalificare il battitore, ma comprese le intenzioni del lanciatore e anche lui gettò intenzionalmente la palla in alto, ben oltre la portata della terza base. Shay corse verso la terza base in delirio, mentre gli altri si spostavano per andare alla casa base. Tutti gridavano: "Shay, Shay, Shay, vai Shay".
Shay raggiunse la terza base, quello opposto a lui corse per aiutarlo e voltarlo nella direzione giusta, e gridò: "Shay, corri in terza! Corri in terza!".
Mentre Shay girava per la terza base, i ragazzi di entrambe le squadre e quelli che guardavano erano tutti in piedi e strillavano: "Shay, corri alla base! Corri alla base, sali sul piatto!" Shay corse, salì sul piatto e fu acclamato come l'eroe che aveva segnato un 'grand slam' e fatto vincere la sua squadra.
Quel giorno, disse il padre a bassa voce e con le lacrime che ora gli rigavano la faccia, i ragazzi di entrambe le squadre aiutarono a portare in questo mondo un pezzo di vero amore e umanità.
Shay non superò l'estate e morì in inverno, senza mai scordare di essere stato l'eroe e di aver reso suo padre così felice, e di essere tornato a casa fra il tenero abbraccio di sua madre per il piccolo eroe del giorno

mercoledì 30 giugno 2010

QUELLA CROCE CHE FA PAURA

«Senza crocifisso l'Italia
non sarebbe più la stessa»
Dopo quasi tre ore, è terminata l'udienza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo sul caso del crocifisso. I giudici si sono ritirati per deliberare, ma la sentenza sarà comunicata solo tra diversi mesi. Quello di questa mattina è stato un fitto dibattimento che ha visto la presenza del magistrato Nicolò Lettieri che, a nome del governo italiano, aveva fatto ricorso dopo la sentenza del 3 novembre sorso, quando la Corte europea dei aveva dichiarato «ricevibile» il ricorso di Solie Lautsi che aveva chiesto di togliere il crocifisso dall’istituto frequentato dai figli. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia a versare cinquemila euro alla Lautsi per danno morale.

Il ricorso dell'Italia era sostenuto da altri dieci altri governi. «L'Italia senza il crocifisso non sarebbe più l'Italia, come la Francia con il crocifisso non sarebbe più la Francia», ha detto Joseph Weiler, che rappresentava otto dei dieci governi cui la Corte di Strasburgo ha consentito di intervenire in difesa delle posizioni del governo italiano nel caso del crocifisso.
«Non penso che tutti coloro che cantano Dio salvi la regina credano in Dio, ma penso che sarebbero scioccati se si dicesse che questa frase va cambiata o tolta perchè offende qualcuno», ha argomentato Weiler. La tesi di Weiler assomiglia molto a quella esposta nella memoria del governo italiano: se si leva il crocifisso, poi si dovrà intervenire in mille altre circostanze per levare croci dalle bandiere, parole dagli inni nazionali, foto di capi di Stato dalle aule. «Magari un giorno la Gran Bretagna potrà decidere di cambiare o togliere questa frase -ha detto Weiler- ma questa non una decisione che può essere presa dalla Corte».

I dieci Stati europei che appoggiano l'Italia nella difendere i crocifissi nelle aule delle scuole pubbliche (tra cui Armenia, Bulgaria, Cipro, Grecia, Lituania, Malta, Russia e San Marino) sostengono che si tratta di «un simbolo nazionale», oltreché religioso. «Il crocifisso – ha aggiunto Weiler - è rispettato anche dalla popolazione laica».
Weiler, che indossava la kippah ebraica, si è domandato se sia possibile ritirare un'immagine della regina d'Inghilterra dalle aule britanniche, perché è il capo della Chiesa anglicana. E la sua risposta è stata «no»; e ha aggiunto che il tribunale di Strasburgo non potrà dire un giorno se rimuovere il termine «Dio» dall'inno inglese, perché sarà «il popolo a deciderlo». Poi ha fatto notare che Soile Lautsi «vuole imporre all'Italia di essere uno Stato laico». In questo senso, i due rappresentanti del governo italiano, hanno affermato che Lautsi è «una militante atea» che «cerca di imporre nella scuola il suo concetto personale di laicismo».

Nicola Lettieri e Giuseppe Albenzio si sono detti contrari alla soppressione dei simboli religiosi, perché questo gioverebbe «a favore degli atei e degli agnostici razionalisti». Ma la religione, hanno aggiunto i due avvocati dello Stato, ha «una dimensione sociale, pubblica e collettiva». Dopo aver ricordato che in Italia si può andare a scuola anche con il velo islamico e che il piano di studi è «pluralista e alieno dal proselitismo e dall'indottrinamento», Lettieri ha concordato con Weiler nel ricordare che il crocifisso rappresenta «un sentimento popolare italiano» e ha aggiunto che il caso Lautsi «non è giuridico, ma politico e ideologico».

Anche la chiesa cattolica e ortodossa di Serbia hanno espresso il loro appoggio all'Italia, che contesta il divieto di esporre il crocifisso nelle scuole pubbliche. «Rispettiamo le opinioni e il pensiero di ogni cittadino di un'Europa multietnica e multiculturale, ma riteniamo che allo stesso modo i cristiani abbiano diritto alle loro opinioni e all'aperta espressione della propria appartenenza religiosa», si afferma in una dichiarazione della chiesa cattolica serba. In essa si aggiunge che la croce è il segno di una tradizione culturale-religiosa, che ha avuto un ruolo decisivo nella formazione della cultura europea. «La maggioranza delle popolazione europea è costituita da cristiani, e vietare di mostrare i simboli della fede cristiana offenderebbe il sentimento di tale maggioranza», aggiunge la dichiarazione.
Anche la chiesa ortodossa serba ha espresso il suo appoggio all'Italia nel ricorso alla Corte europea di Strasburgo sulla questione del crocifisso. «Speriamo che tale iniziativa trovi risposta positiva in seno alla Corte europea dei diritti dell'uomo», ha fatto sapere il Sinodo ortodosso in una nota.

«Credo che abbiamo tutte le carte in regola per un risultato positivo», ha dichiarato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, commentando l'udienza della Grande Chambre della Corte dei diritti dell'uomo. «L'udienza di oggi ha mostrato uno straordinario intervento del rappresentante italiano - ha dichiarato Frattini - e un intervento altrettanto importante di rappresentanti di dieci Paesi, un numero di parlamentari europei che si sono associati al nostro ricorso». Si tratta, ha concluso il capo della Diplomazia italiana, di «una grande battaglia per la libertà e per l'identità dei nostri valori cristiani».

Crocifisso, Europa alla prova
Potrebbe essere quello dell’avvocato Nicolò Paoletti a sostegno del ricorso della cittadina italiana di origine filandese, Soile Lautsi, il primo degli interventi nel dibattimento della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che riesamina la sua sentenza del 3 novembre contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Il risame si impone dopo il ricorso presentato dal nostro Paese il 28 gennaio scorso.

Successivamente Nicola Lettieri in difesa del nostro governo. E a sostegno delle memorie presentate da dieci Paesi membri del Consiglio d’Europa ( interverrà il giurista statunitense Joseph Weiler, un ebreo osservante, noto per i suoi scritti in favore della inclusione delle «radici giudeo-cristiane» nella costituzione europea. Poi a sostegno di un documento di trentatre membri del Parlamento europeo, tra cui Carlo Casini, presidente della Commissione affari costituzionali della "Camera" della Ue, si pronuncerà un legale della Alliance Defense Fund (Adf) una organizzazione di legali statunitensi cristiani con filiali anche in altri Paesi molto attiva nelle battaglie per i diritti dell’uomo, la libertà religiosa e la difesa della vita.

Le altre parti, organizzazioni non governative che sono intervenute nel dibattimento con la presentazione di documenti, come le Acli e l’European centre for law and justice Zentralkomitee des deutschen Katholiken, Semaines sociales de France e Associazioni cristiane lavoratori italiani, numerose a sostegno della posizione italiana, e qualcuna come l’Associazione nazionale del libero pensiero in accordo con le tesi della Lautsi.

Nel corso di queste arringhe i giudici della Grande Chambre potrebbero chiedere dei chiarimenti ai vari intervenuti. In conclusione ci saranno dieci minuti di replica dell’avvocato della Lautsi e dell’agente del governo italiano.

Comunque l’udienza non si concluderà con un verdetto. La Corte infatti ha già anticipato che saranno necessari da sei ai dodici mesi, prima che venga resa pubblica la decisione. In un recente caso tedesco sono trascorsi più di 14 mesi tra l’udienza in Grande Camera e la pubblicazione della sentenza finale. Come è noto la Corte è un organismo che fa parte del Consiglio d’Europa (Coe) a cui aderiscono 47 Paesi, e si fonda sulla Convenzione dei diritti dell’Uomo firmata a Roma nel 1950. Il Coe non deve essere confuso con l’Unione europea i cui membri sono 27. Al Cosiglio infatti ed alla corte dopo il crollo del comunismo dal 1990 hanno aderito numerosi Paesi dell’Est, tra cui la Russia. Ed è proprio la memoria a favore della posizione italiana della Federazione russa, Paese prevalentemente di religione prevalentemente ortodossa, insieme all’apporto di giuristi americani protestanti, e a quello dell’ebreo Weiler a smentire una delle tesi della sentenza del tre novembre, che il crocifisso sia un simbolo che interessi solo i cattolici.

In particolare l’Adf è una fondazione nata nel 1994 a Phoenix nell’Arizona da un gruppo di leader religiosi di varie professioni religiose: cattolici come anche ebrei e protestanti. Lo scopo dell’iniziativa è di coordinare e dare fondi ad avvocati che sono disposti a occuparsi di casi che coinvolgano libertà di religione, difesa della vita e difesa del matrimonio così come concepito dalla Costituzione italiana.
Pier Luigi Fornari

Battaglia di civiltà
Dieci Paesi con l’Italia «Quel simbolo non si tocca»
È una rappresentanza molto nutrita e diversificata di presenze quella che oggi sfilerà nella Corte europea dei diritti umani di Strasburgo in difesa del crocifisso. Oltre alle due parti direttamente in causa – Soile Lautsi e il Governo italiano – c’è anche un folto gruppo di parti terze che intervengono nel dibattimento alla Grande Chambre, e sotto questo profilo il piatto pesa nettamente a favore dell’Italia.

Ci sono ben dieci Paesi che hanno presentato memorie in difesa del crocifisso. E poi vi sono 33 parlamentari che hanno presentato un documento preparato dalla Alliance Defense Fund, una organizzazione di avvocati nata negli Usa, molto attiva in tutto il mondo a difesa dei diritti umani, della vita e della famiglia. Sono intervenute con un loro documento anche organizzazioni non governative cattoliche, le Acli, le Settimane sociali di Francia, il comitato centrale dei cattolici tedeschi. A favore della posizione italiana ha presentato una memoria anche il Centro europeo per la legge e la giustizia.

A sostegno della Lautsi, invece, c’è l’Associazione nazionale del libero pensiero. A difendere otto delle dieci nazioni che si sono costituite a favore della posizione italiana sarà il giurista Joseph Weiler, un ebreo osservante che si è già battuto per il riconoscimento delle radici giudeo cristiane dell’Europa. Secondo la Federazione Russa la sentenza ha ristretto il margine di discrezionalità degli Stati membri nelle questioni di libertà di religiosa ad una formula angusta, non tenendo conto delle differenze storiche e culturali dei Paesi europei, delle legittime diversità degli approcci nazionali e delle «imprevedibili conseguenze alle quali la sentenza può condurre».

La memoria russa conclude che esponendo i crocifissi nelle classi lo Stato chiamato a rispondere presso la Corte, cioè l’Italia, nell’adempiere la sue funzioni rispetto all’educazione e all’insegnamento, non ha mancato di assicurare che l’educazione e l’apprendimento siano impartiti in modo oggettivo, critico e pluralistico, rispettando anche le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori in accordo con la Convenzione come modificata nei vari protocolli. Anche i Bulgari ricordano alla Corte la sussidiarietà riaffermata dal Consiglio d’Europa nel 1995, e inoltre registrano una grande inconsistenza tra la sentenza del 3 novembre e i giudizi precedenti di Strasburgo in merito agli articoli della Convenzione citati.

Analogo il principio fondamentale assunto alla base del ragionamento dalla Lituania, che mette in chiaro come il simbolo religioso non possa essere interpretato in un <+corsivo>vacuum<+tondo>, e neppure le garanzie della Convenzione debbano essere intese non tenendo conto delle specificità degli Stati, particolarmente in una sfera dove non c’è consenso in Europa. La Romania non vede come la raccomandazione di togliere il crocifisso potrebbe servire a conciliare le religioni dei cittadini, in realtà togliendo la possibilità di manifestarle. Il Principato di Monaco, ricordando che i simboli religiosi figurano sulle bandiere di numerosi Stati, rileva che non sono di per sé una minaccia alle libertà previste della Convenzione. Anche l’Armenia è convinta che l’esposizione del crocifisso non priva i genitori del loro diritto di educare i figli in conformità con le loro convinzioni religiose e filosofiche. San Marino interviene in difesa dell’Italia anche perché preoccupato: nonostante le sentenze riguardino solo il caso specifico, la Corte ha invitato a più riprese gli Stati a modificare la legislazione per evitare casi analoghi.

Per Malta l’eliminazione di un simbolo della identità nazionale dallo spazio pubblico, per il fatto che ha anche un significato religioso per la maggioranza di quella comunità, appare incongrua e sproporzionata. Il governo greco individua nella sentenza contraddizioni con la giurisprudenza precedente, osservando che se la democrazia non può essere ridotta sempre alla supremazia costante dell’opinione maggioritaria, a più forte ragione non deve riservare alla maggioranza un trattamento ingiusto. Cipro infine, ricordando alla Corte che non ha competenza sull’ordinamento e la programmazione delle scuole, richiama il margine di valutazione che deve essere riservata ai singoli Stati.
Pierluigi Fornari
L'ANALISI
Cultura e storia unica bussola degli Stati
Il 28 gennaio scorso è stato presentato dall’Italia un ricorso alla sentenza pronunciata il 3 novembre. Il documento tra l’altro ha sottolineato che «imporre a uno Stato di rimuovere il simbolo religioso che esiste già e la cui presenza è giustificata dalla tradizione del Paese (senza che questo simbolo obblighi all’adesione di fede), implica un valore negativo contro ciò che rappresenta questo simbolo e viola la libertà religiosa». Inoltre il ricorso del governo chiede «se la semplice presenza di "inerti", come il crocifisso, possa turbare la coscienza del non credente, o se, invece, non si utilizzi questo turbamento per manifestare una vera intolleranza della dimensione religiosa».

Peraltro, argomenta il ricorso, «la neutralità assoluta dello Stato in materia religiosa è una chimera». Infatti qualsiasi normativa in materia «può essere un modo, una posizione che può offendere la sensibilità di un certo numero di persone, come è inevitabile e riconosciuto dalla stessa Corte. Così, in questo caso, le persone di fede potrebbero sentirsi offese per il fatto di non poter vedere il loro simbolo religioso sul muro». In proposito, il ricorso cita il giurista ebreo Joseph Weiler, il quale ha osservato che «la rinuncia da parte di uno Stato a tutte le forme di simbolismo religioso non è una posizione più neutrale di quella di chi aderisce a una forma di simbolismo religioso determinato». Nel contesto della realtà storica e della cultura italiana, rimuovere il crocifisso dalle pareti delle scuole non ha nulla a che fare con il comportamento di uno Stato veramente laico, ma, ancora citando Weiler, «significa semplicemente che si concentrano nel simbolismo dello Stato, una visione del mondo piuttosto che un’altra, passando per tutte le neutralità».

Il ricorso accenna, infine, al principio di sussidiarietà: «Inoltre, come riconosciuto dalla stessa Corte, le autorità nazionali hanno una notevole discrezionalità in una materia così complessa e delicata, strettamente legata alla cultura e alla storia». Poiché «la neutralità si oppone allo stato confessionale che promuove apertamente una particolare religione, ma anche allo stato basato su un secolarismo militante che promuove l’agnosticismo o l’ateismo, ne consegue che l’incompetenza dello Stato a rispondere a domande sulla trascendenza non può condurre anche alla promozione di ateismo o di agnosticismo con l’eliminazione dei simboli religiosi dalla vita pubblica».

La memoria dell’Italia presentata il 30 marzo ribadisce che l’errore della Corte è proprio questo: «optare per la neutralità, mentre si realizza, in effetti solo una posizione di vantaggio a favore di un atteggiamento a-religioso o anti-religioso; la prova è che in questo caso, la ricorrente, che è partner della Uaar (Unione degli ates e degli agnostici, razionalisti) agisce in quanto ateo militante. Il suo scopo è semplicemente quello di ottenere, con il pretesto della laicità dello Stati, che la sua ideologia a-religiosa o addirittura anti-religiosa prevalga: in questo caso sulla religione professata dalla maggioranza della popolazione, e, come vedremo in seguito, contro la volontà della stragrande maggioranza degli altri genitori. Il riferimento alla laicità dello Stato fatto dal ricorrente (la quale laicità non ha alcun fondamento nella Convenzione) non è che una invocazione per imporre una ideologia a-religiosa o anti-religiosa per qualsiasi religione e cancellare la tradizione del Paese ospitante».

Secondo la memoria inoltre la Corte si basa su «una concezione strettamente individualistica della religiosità», che non si attaglia all’Italia e ad altri Paesi europei. Il documento cita la ricerca fatta dal professor Carlo Cardia, in cui si sostiene che il concetto di neutralità in Italia è molto diverso dalla laicità francese; è più benevolo verso qualsiasi tipo di religione, ma tuttavia anche coerente alla Convenzione. Sulla base dell’analisi dei pronunciamenti passati si osserva poi che in applicazione del principio di sussidiarietà «la Corte ha riconosciuto che le autorità nazionali sono in una posizione migliore rispetto al giudice europeo per valutare le situazioni locali e l’applicazione della Convenzione a queste specifiche realtà. Al tal fine la Corte riconosce agli Stati membri un "margine di discrezionalità nazionale", strettamente correlato al grado di "consenso" esistente tra i Paesi europei».

Degno di nota infine quanto decise nel gennaio del 2006 la sesta sezione del Consiglio di Stato ponendo fine alla vicenda in Italia. L’esposizione del crocifisso anche per i non credenti «è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civilità italiana».
Pier Luigi Fornari


Crocifisso: LE TAPPE
23 LUGLIO 2002 Solie Lautsi impugna al Tar Veneto la decisione del consiglio dell’istituto frequentato dai figli di mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche. Il Tar pone il problema alla Consulta.

DICEMBRE 2004 La Consulta dichiara la questione inammissibile perché attinente norme regolamentari.

MARZO 2005 Il Tar rigetta il ricorso.

13 FEBBRAIO 2006 Il Consiglio di Stato conferma la sentenza del Tar individuando nel crocifisso un valore laico costituzionale. Luglio 2006 la Lautsi ricorre alla Corte di Strasburgo.

3 NOVEMBRE 2009 La Corte dichiara ricevibile il ricorso e condanna l’Italia a versare cinquemila euro alla Lautsi per danno morale.

28 GENNAIO 2010 Ricorso del governo italiano con cui si chiede che la questione sia rinviata alla Grande Chambre

2 MARZO 2010 Un comitato della Corte dichiara «ricevibile» il ricorso italiano

30 APRILE 2010 L’Italia presenta una memoria ulteriore a riguardo

30 GIUGNO 2010 Il ricorso italiano viene discusso davanti alla Grande Chambre. Dieci Stati membri del Consiglio d’Europa hanno presentato memorie a sostegno dell’Italia.

AVVENIRE

martedì 29 giugno 2010

LA LIBERTA' DI DIO

«Cristo ci ha liberati per la libertà!»
Cari fratelli e sorelle!

Le letture bibliche della santa Messa di questa domenica mi danno l’opportunità di riprendere il tema della chiamata di Cristo e delle sue esigenze, tema sul quale mi sono soffermato anche una settimana fa, in occasione delle Ordinazioni dei nuovi presbiteri della Diocesi di Roma. In effetti, chi ha la fortuna di conoscere un giovane o una ragazza che lascia la famiglia di origine, gli studi o il lavoro per consacrarsi a Dio, sa bene di che cosa si tratta, perché ha davanti un esempio vivente di risposta radicale alla vocazione divina. E’ questa una delle esperienze più belle che si fanno nella Chiesa: vedere, toccare con mano l’azione del Signore nella vita delle persone; sperimentare che Dio non è un’entità astratta, ma una Realtà così grande e forte da riempire in modo sovrabbondante il cuore dell’uomo, una Persona vivente e vicina, che ci ama e chiede di essere amata.

L’evangelista Luca ci presenta Gesù che, mentre cammina per la strada, diretto a Gerusalemme, incontra alcuni uomini, probabilmente giovani, i quali promettono di seguirlo dovunque vada. Con costoro Egli si mostra molto esigente, avvertendoli che "il Figlio dell’uomo – cioè Lui, il Messia – non ha dove posare il capo", vale a dire non ha una propria dimora stabile, e che chi sceglie di lavorare con Lui nel campo di Dio non può più tirarsi indietro (cfr Lc 9,57-58.61-62). Ad un altro invece Cristo stesso dice: "Seguimi", chiedendogli un taglio netto dei legami familiari (cfr Lc 9,59-60). Queste esigenze possono apparire troppo dure, ma in realtà esprimono la novità e la priorità assoluta del Regno di Dio che si fa presente nella Persona stessa di Gesù Cristo. In ultima analisi, si tratta di quella radicalità che è dovuta all’Amore di Dio, al quale Gesù stesso per primo obbedisce. Chi rinuncia a tutto, persino a se stesso, per seguire Gesù, entra in una nuova dimensione della libertà, che san Paolo definisce "camminare secondo lo Spirito" (cfr Gal 5,16). "Cristo ci ha liberati per la libertà!" – scrive l’Apostolo – e spiega che questa nuova forma di libertà acquistataci da Cristo consiste nell’essere "a servizio gli uni degli altri" (Gal 5,1.13). Libertà e amore coincidono! Al contrario, obbedire al proprio egoismo conduce a rivalità e conflitti.

Cari amici, volge ormai al termine il mese di giugno, caratterizzato dalla devozione al Sacro Cuore di Cristo. Proprio nella festa del Sacro Cuore abbiamo rinnovato con i sacerdoti del mondo intero il nostro impegno di santificazione. Oggi vorrei invitare tutti a contemplare il mistero del Cuore divino-umano del Signore Gesù, per attingere alla fonte stessa dell’Amore di Dio. Chi fissa lo sguardo su quel Cuore trafitto e sempre aperto per amore nostro, sente la verità di questa invocazione: "Sei tu, Signore, l’unico mio bene" (Salmo resp.), ed è pronto a lasciare tutto per seguire il Signore. O Maria, che hai corrisposto senza riserve alla divina chiamata, prega per noi!

mercoledì 9 giugno 2010

SE L'AMORE....

Se taci, taci per amore; se parli, parla per amore; se correggi, correggi per amore; se perdoni, perdona per amore...♥... (Sant'Agostino)

lunedì 19 aprile 2010

I MIRACOLI DELL'AMORE

L'AMORE HA ABBRACCIATO LA CROCE E L'HA VINTA, HA DISTRUTTO LA MORTE, HA FATTO NUOVE TUTTE LE COSE. L'AMORE è PIù GRANDE DELLA VITA STESSA

venerdì 2 aprile 2010

IL CORAGGIO DI DIO

IL CORAGGIO DI DIO

Dio ha avuto molto coraggio, a realizzare il Suo disegno di salvezza. Qualcuno mi potrà obiettare che lui era Dio e tutto è possibile a lui, ma bisogna riconoscere comunque che ha avuto coraggio. Ha avuto coraggio a nascere rinunciando alla sua onnipotenza assumendo la condizione umana di un bambino che deve essere curato in tutto, che fa la pipì addosso, che piange in continuazione come tutti i bambini del mondo. Ha avuto coraggio, perché dopo qualche tempo dalla sua nascita, ha dovuto fuggire in Egitto con i suoi genitori a causa della minaccia di morte di Erode. Lui Dio che fugge davanti a un uomo,1 uomo che aveva paura di un bambino. Alla morte di Erode Gesù con i suoi genitori, ritorna dall’Egitto e si stabilisce a Nazareth dove lui Dio, vive e cresce sottomesso ai suoi genitori : Maria e Giuseppe. Ha avuto coraggio, perché dopo qualche tempo, il suo padre putativo Giuseppe muore lasciandoli soli al mondo e Lui aiuta la sua mamma nei problemi di ogni giorno, sino all’età di trent’anni. Ha avuto coraggio, perché prima di iniziare la sua attività apostolica ha digiunato 40 giorni, ha subito le tentazioni e dopo averle superate e aver mangiato è andato a farsi battezzare sul fiume giordano lui Dio da San Giovanni battista. Ha avuto coraggio perché ha cominciato a predicare, dove i sommi sacerdoti e dottori della legge gli contestavano quello che predicava e nonostante facesse miracoli per testimoniare la veridicità di quello che predicava. Ha avuto coraggio, perché tra gli apostoli che ha chiamato c’era anche Giuda che poi l’avrebbe tradito. Ha avuto coraggio, di andare incontro alla sua passione, senza aver prima sudato sangue ed attaccato un orecchio ad uno dei suoi persecutori, poi si è consegnato alle guardie del tempio che l’hanno portato davanti a Caifa per essere giudicato, lui Dio che non aveva fatto niente se non del bene. Ha avuto coraggio ad affrontare i giudizi di Erode antipa ed infine di Pilato che dopo aver fatto scegliere alla gente se volevano libero Gesù o Barabba, (la gente scelse Barabba) , lo fece flagellare e poi gli misero una corona di spine sulla testa. Ha avuto coraggio, perché dopo tutto questo dolore, ha preso la sua pesante croce e si è incamminato sulla strada del golgota per andare a morire. Ha avuto coraggio, mentre lo inchiodavano sulla croce, egli perdonava i suoi assassini. Ha avuto coraggio, non rispondendo agli oltraggi di un ladrone promettendo il paradiso all’altro ladrone e per ultima cosa, donò sua madre all’apostolo Giovanni dicendo: “donna ecco tuo figlio, figlio ecco tua madre”. Ha avuto coraggio infine perché prima di morire bevve un po’ di aceto e poi lui Dio raccomandò l’anima a suo Padre e morì per noi. Dio ha avuto coraggio…. Molto coraggio perché crede dopo 2000 ancora in noi
Buona santa Pasqua
CIO’ CHE CI DISTINGUE DA TUTTI E’ CHE NOI CRISTIANI ABBIAMO LA MISERICORDIA. TUTTE LE NOSTRE SITUAZIONI NON CONTANO NULLA. IL NOSTRO VALORE E’ AMARE CRISTO. E NON PER RAGIONE, NE’ PER LINGUA, NE’ PER COSTUMI NOI SIAMO DIVERSI DAGLI ALTRI UOMINI….VIVIAMO IN ORIENTE ED OCCIDENTE, SIAMO UGUALI NEL VESTITO, NEL CIBO E NEL RESTO, MA TESTIMONIAMO UNA VITA DIVERSA. VIVIAMO NELLA NOSTRA PATRIA, COME STRANIERI PARTECIPIAMO A TUTTO, DA TUTTO SIAMO DISTACCATI ANONIMO CRISTIANO DEL 2 SECOLO.
LA CENA PASQUALE EBRAICA (SEDER)
LA CENA PASQUALE EBRAICA SI SVOLGE ANCHE OGGI SECONDO UN RITO MOLTO ANTICO, CHE COMPRENDE TRE PARTI PRINCIPALI: RACCONTO DELLA LIBERAZIONE DALLA SCHIAVITÚ D' EGITTO - CENA - PREGHIERE E CANTI FINALI.
DURANTE LA CENA VENGONO CONSUMATI CIBI E BEVANDE CHE HANNO UN SIGNIFICATO SIMBOLICO.
CIBI SPECIALI CHE FANNO RIVIVERE ALL’ EBREO LA SUA STORIA PASSATA E LA RENDONO ATTUALE.
L’ AGNELLO PASQUALE RICORDA COME JHWH ( DIO ) ABBIA “SALTATO” LE CASE DEGLI EBREI AL MOMENTO DELLA MORTE DEI PRIMOGENITI D’ EGITTO.
IL PANE AZZIMO E’ IN RELAZIONE AL FATTO CHE , AL MOMENTO DELLA LIBERAZIONE DALLA SCHIAVITÚ D’EGITTO , NON CI FU IL TEMPO NECESSARIO PER FARE LIEVITARE IL PANE .
QUESTO TIPO DI PANE RAPPRESENTA ANCHE IL PANE DELLA DEBOLEZZA IN RICORDO DELLA SCHIAVITÚ, MENTRE IL LIEVITO E’ SIMBOLO DI FORZA.
LE ERBE AMARE (SEDANO E LATTUGA) RICORDANO LE AMAREZZE SOFFERTE DURANTE LA SCHIAVITÚ.
QUELLA STORIA PASSATA NON E’ MAI DEL TUTTO PASSATA PERCHÉ SI ATTUALIZZA IN OGNI EBREO CHE COMPIE IL RITO DI PASQUA.
LA LIBERAZIONE OPERATA DAL SIGNORE AL TEMPO DI MOSÉ É LIBERAZIONE DI OGNI SINGOLO ISRAELITA E IL RITO É IL MODO DI PRENDERNE COSCIENZA E DI PARTECIPARE AD ESSO.
LA BENEDIZIONE , DI ALCUNE COPPE DI VINO A INIZIO PASTO, E’ PRECEDUTO E SEGUITO DA LETTURE E PREGHIERE .

mercoledì 24 marzo 2010

LA SETE DI UN FIGLIO

HO SETE….

Ho sete Mio Dio e Padre mio della Tua misericordia,
ho sete della Tua giustizia,
ho sete del Tuo amore che perdona,
ho sete delle Tue carezze,
ho sete dei Tuoi abbracci,
ho sete di Te che non mi lasci solo nella mia apparente solitudine,
ho sete dei Tuoi baci,
ho sete della Tua correzione,
ho sete dei Tuoi rimbrotti,
ho sete della Tua croce, perché non mi lamenti della mia che Tu mi hai donato,
ho sete della Tua sapienza, della Tua speranza che non delude.
Ho sete Papo, dell’acqua della fonte che è presso di Te e che zampilla per la Vita eterna,
ho sete, Padre mio, ho molta sete….

handycapp

sabato 27 febbraio 2010

QUANDO MANCA L'AMORE

All'origine di ogni ingiustizia
c'è una mancanza di amore



All'origine di ogni ingiustizia materiale e sociale c'è il peccato, che "consiste fondamentalmente in una disobbedienza a Dio, vale a dire una mancanza d'amore". Lo ha ricordato il Papa all'omelia della celebrazione eucaristica presieduta nel pomeriggio del 17 febbraio, mercoledì delle Ceneri, nella basilica romana di Santa Sabina all'Aventino.

"Tu ami tutte le tue creature, Signore,
e nulla disprezzi di ciò che hai creato;
tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni,
perché tu sei il Signore nostro Dio" (Antifona d'ingresso).
Venerati Fratelli nell'episcopato,
cari fratelli e sorelle!
Con questa commovente invocazione, tratta dal Libro della Sapienza (cfr. 11, 23-26), la liturgia introduce la celebrazione eucaristica del Mercoledì delle Ceneri. Sono parole che, in qualche modo, aprono l'intero itinerario quaresimale, ponendo a suo fondamento l'onnipotenza d'amore di Dio, la sua assoluta signoria su ogni creatura, che si traduce in indulgenza infinita, animata da costante e universale volontà di vita. In effetti, perdonare qualcuno equivale a dirgli: non voglio che tu muoia, ma che tu viva; voglio sempre e soltanto il tuo bene.
Questa assoluta certezza ha sostenuto Gesù durante i quaranta giorni trascorsi nel deserto della Giudea, dopo il battesimo ricevuto da Giovanni nel Giordano. Quel lungo tempo di silenzio e di digiuno fu per Lui un abbandonarsi completamente al Padre e al suo disegno d'amore; fu esso stesso un "battesimo", cioè un'"immersione" nella sua volontà, e in questo senso un anticipo della Passione e della Croce. Inoltrarsi nel deserto e rimanervi a lungo, da solo, significava esporsi volontariamente agli assalti del nemico, il tentatore che ha fatto cadere Adamo e per la cui invidia la morte è entrata nel mondo (cfr. Sap 2, 24); significava ingaggiare con lui la battaglia in campo aperto, sfidarlo senza altre armi che la fiducia sconfinata nell'amore onnipotente del Padre. Mi basta il tuo amore, mi cibo della tua volontà (cfr. Gv 4, 34): questa convinzione abitava la mente e il cuore di Gesù durante quella sua "quaresima". Non fu un atto di orgoglio, un'impresa titanica, ma una scelta di umiltà, coerente con l'Incarnazione ed il battesimo nel Giordano, nella stessa linea di obbedienza all'amore misericordioso del Padre, che ha "tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito" (Gv 3, 16).
Tutto questo il Signore Gesù lo ha fatto per noi. Lo ha fatto per salvarci, e al tempo stesso per mostrarci la via per seguirlo. La salvezza, infatti, è dono, è grazia di Dio, ma per avere effetto nella mia esistenza richiede il mio assenso, un'accoglienza dimostrata nei fatti, cioè nella volontà di vivere come Gesù, di camminare dietro a Lui. Seguire Gesù nel deserto quaresimale è dunque condizione necessaria per partecipare alla sua Pasqua, al suo "esodo". Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre, simbolo della comunione con Dio; ora, per ritornare a questa comunione e dunque alla vera vita, la vita eterna, bisogna attraversare il deserto, la prova della fede. Non da soli, ma con Gesù! Lui - come sempre - ci ha preceduto e ha già vinto il combattimento contro lo spirito del male. Ecco il senso della Quaresima, tempo liturgico che ogni anno ci invita a rinnovare la scelta di seguire Cristo sulla via dell'umiltà per partecipare alla sua vittoria sul peccato e sulla morte.
In questa prospettiva si comprende anche il segno penitenziale delle Ceneri, che vengono imposte sul capo di quanti iniziano con buona volontà l'itinerario quaresimale. È essenzialmente un gesto di umiltà, che significa: mi riconosco per quello che sono, una creatura fragile, fatta di terra e destinata alla terra, ma anche fatta ad immagine di Dio e destinata a Lui. Polvere, sì, ma amata, plasmata dal suo amore, animata dal suo soffio vitale, capace di riconoscere la sua voce e di rispondergli; libera e, per questo, capace anche di disobbedirgli, cedendo alla tentazione dell'orgoglio e dell'autosufficienza. Ecco il peccato, malattia mortale entrata ben presto ad inquinare la terra benedetta che è l'essere umano. Creato ad immagine del Santo e del Giusto, l'uomo ha perduto la propria innocenza ed ora può ritornare ad essere giusto solo grazie alla giustizia di Dio, la giustizia dell'amore che - come scrive san Paolo - "si è manifestata per mezzo della fede in Cristo" (Rm 3, 22). Da queste parole dell'Apostolo ho tratto lo spunto per il mio Messaggio, rivolto a tutti i fedeli in occasione di questa Quaresima: una riflessione sul tema della giustizia alla luce delle Sacre Scritture e del loro compimento in Cristo.
Anche nelle letture bibliche del Mercoledì delle Ceneri è ben presente il tema della giustizia. Innanzitutto, la pagina del profeta Gioele e il Salmo responsoriale - il Miserere - formano un dittico penitenziale, che mette in risalto come all'origine di ogni ingiustizia materiale e sociale vi sia quella che la Bibbia chiama "iniquità", cioè il peccato, che consiste fondamentalmente in una disobbedienza a Dio, vale a dire una mancanza d'amore. "Sì - confessa il Salmista - le mie iniquità io le riconosco, / il mio peccato mi sta sempre dinanzi. / Contro te, contro te solo ho peccato, / quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto" (Sal 50/51, 5-6). Il primo atto di giustizia è dunque riconoscere la propria iniquità, e riconoscere che questa è radicata nel "cuore", nel centro stesso della persona umana. I "digiuni", i "pianti", i "lamenti" (cfr. Gl 2, 12) ed ogni espressione penitenziale hanno valore agli occhi di Dio solo se sono segno di cuori sinceramente pentiti. Anche il Vangelo, tratto dal "discorso della montagna", insiste sull'esigenza di praticare la propria "giustizia" - elemosina, preghiera, digiuno - non davanti agli uomini, ma solo agli occhi di Dio, che "vede nel segreto" (cfr. Mt 6, 1-6.16-18). La vera "ricompensa" non è l'ammirazione degli altri, ma l'amicizia con Dio e la grazia che ne deriva, una grazia che dona pace e forza di compiere il bene, di amare anche chi non lo merita, di perdonare chi ci ha offeso.
La seconda lettura, l'appello di Paolo a lasciarsi riconciliare con Dio (cfr. 2 Cor 5, 20), contiene uno dei celebri paradossi paolini, che riconduce tutta la riflessione sulla giustizia al mistero di Cristo. Scrive san Paolo: "Colui che non aveva conosciuto peccato - cioè il suo Figlio fatto uomo -, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio" (2 Cor 5, 21). Nel cuore di Cristo, cioè nel centro della sua Persona divino-umana, si è giocato in termini decisivi e definitivi tutto il dramma della libertà. Dio ha portato alle estreme conseguenze il proprio disegno di salvezza, rimanendo fedele al suo amore anche a costo di consegnare il Figlio unigenito alla morte, e alla morte di croce. Come ho scritto nel Messaggio quaresimale, "qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana ... Grazie all'azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia "più grande", che è quella dell'amore (cfr. Rm 13, 8-10)".
Cari fratelli e sorelle, la Quaresima allarga il nostro orizzonte, ci orienta verso la vita eterna. In questa terra siamo in pellegrinaggio, "non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura" dice la Lettera agli Ebrei (Eb 13, 14). La Quaresima fa capire la relatività dei beni di questa terra e così ci rende capaci alle rinunce necessarie, liberi per fare il bene. Apriamo la terra alla luce del Cielo, alla presenza di Dio in mezzo a noi.



(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2010)

LA BELLEZZA DELLA DISABILITA'

LA BELLEZZA DELLA DISABILITA’, OVVERO ANCHE HANDY E’ BELLO

chiunque
Chiunque mi legge sa che sono disabile e vivo da solo da trent’anni in un paese vicino a Milano, e sa anche che nello scritto dei miei post sono aiutato dal mio amico computer che riconosce la mia voce. 55 anni di questa disabilità possono sembrare tanti e qualcuno affermare che io non ho avuto una vita felice, ma si sbaglia perché anche essere disabili non vuol dire essere infelici, non è sufficiente avere due gambe buone se poi ci si droga, non serve a nulla avere un corpo perfetto, se poi si ricorre alla chirurgia estetica o peggio ancora ci si suicida perché scontenti della propria vita nonostante la non disabilità evidente a occhio umano. È evidente che si può sempre amare anche quando si è completamente paralizzati come me o parzialmente paralizzati, perché questo va oltre la paresi, infatti ci sono persone che nonostante non siano disabili non sono capaci di amare, hanno un’idea funerea della vita, ci sono persone invece che pur essendo disabili apprezzano la vita, perché anche la vita disabile è un dono di Dio di cui di cui bisogna essere perché Lui, fa nuove tutte le cose, anche la disabilità. Qui di seguito potete leggere degli articoli che ne parlano descrivendo le varie difficoltà di chi ha una disabilità non dovuta per volontà di Dio, ma per volontà degli uomini, non tutti per fortuna, che la considerano sbagliando una disgrazia. Io ho parlato di bellezza perché la disabilità non ti permette di essere egoista in quanto per fare una cosa bisogna essere in due in quanto tu da solo non lo puoi fare, ma in due sì, e qui sta la tua bellezza e non è per niente un’umiliazione, perché l’umiliazione è un’altra cosa.
FIGLI DI UN LAVORO MINORE

La legge di dieci anni fa impone alle aziende di assumere una "quota" di lavoratori disabili, ma questo non avviene. Ecco perché. E come si può rimediare.

È l’ultimo effetto della crisi economica. Ma nessuno ne parla. Dopotutto, loro sono già tra chi sta in fondo alla fila, lavoratori "zavorra" più degli altri, secondo la denuncia recente del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana. Loro sono i lavoratori disabili, quelli per i quali dieci anni fa una legge dello Stato ha previsto una quota di posti lavoro "protetti" e l’obbligatorietà di assunzione per le aziende.
Ebbene, oggi la crisi e la possibilità per le aziende di accedere alla cassa integrazione, alla mobilità, alle procedure di riduzione dell’orario di lavoro sospendono l’obbligo di assunzione per chi non è abile come gli altri. È l’ultimo premio agli imprenditori e l’ultimo danno ai disabili, che si consuma nel silenzio. Aggrava una situazione già precaria, perché quella legge del 1999 non ha mantenuto le sue promesse, tra controlli poco incisivi e tantissime possibilità pratiche di aggirarla. Invece, per la maggior parte dei disabili il lavoro è vita, argine e trincea contro la depressione, e non semplicemente uno stipendio alla fine del mese.
La legge prevede che in un’azienda che abbia tra 15 e 35 dipendenti ci sia un disabile, due fino a 50 dipendenti e per le aziende più grandi sia riservato a loro il 7 per cento dei posti di lavoro. Ma accade poche volte. È sufficiente che l’azienda versi un contributo al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili per essere esonerata dall’assumerli. Può anche decidere di non rispettarla affatto, la legge, tanto la sanzione è di 51,65 euro al giorno, troppo bassa, al punto da essere conveniente. E spesso si confida su controlli carenti, che permettono di farla franca per anni e anni.
Così il lavoro per le persone disabili oggi in Italia resta un "miraggio", come ha denunciato un sondaggio del sito www.superabile.it, uno dei più cliccati portali italiani sui problemi dell’incontro tra lavoro e disabilità. Il tasso di occupazione delle persone con disabilità in Italia è del 19,3 per cento contro il 55,8 per cento di quelle senza disabilità, secondo l’Istat. Ma il dato risale ad alcuni anni fa, quando la crisi economica non aveva fatto sentire i suoi effetti. Il risultato è migliaia di posti riservati a lavoratori disabili non coperti e centinaia di migliaia di lavoratori disabili iscritti perennemente alle liste di collocamento speciali.
Collocamento sotto accusa
In sostanza, è fallito l’accompagnamento da parte degli uffici di collocamento e delle reti pubbliche di protezione del lavoro dei disabili nelle aziende e negli enti pubblici. Inoltre poco lavoro è stato affidato alle cooperative sociali che si occupano dell’inserimento occupazionale delle persone disabili.
È il collocamento a essere messo sotto accusa. Secondo l’ultima indagine dell’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, che opera in collaborazione con il ministero del Welfare e altri enti pubblici, solo il 13 per cento dei disabili ha trovato un impiego attraverso gli uffici di collocamento. Insomma, lo Stato fa poco per i disabili e non aiuta le imprese, soprattutto nei primi tempi di inserimento, con le figure dei tutor previste dalla legge. Molte associazioni che si occupano di handicap rilevano, come ha fatto l’Anffas, che senza il sostegno delle cooperative sociali o delle agenzie per il lavoro «i disabili faticano a trovare un’occupazione», nonostante una legge molto avanzata. L’ultima relazione al Parlamento sulla sua applicazione, a dieci anni dall’entrata in vigore, spiega che gli avviamenti al lavoro, 31 mila circa nel 2007, sono pochi a fronte di circa 700 mila persone iscritte al collocamento.
Qualcuno ha cercato di farvi fronte. La Regione Lazio ha istituito una specie di "bollino H" per le aziende che sono più attente all’inserimento di persone disabili. Ma non basta.
Perché spesso le assunzioni vengono fatte, ma poi i disabili sono abbandonati, lasciati senza far niente, emarginati, come denuncia l’Ufficio per le politiche della disabilità della Cgil, al quale arrivano circa 15 casi al giorno di discriminazione sul posto di lavoro.
La legge che dieci anni fa aveva trasformato il collocamento obbligatorio in collocamento mirato per i disabili ha bisogno per lo meno di un tagliando. Ma sarà difficile programmarlo in tempo di crisi e di denaro che manca, soprattutto per gli ammortizzatori sociali. La norma è molto avanzata, ma fa fatica a essere applicata.
Lo ha fatto notare anche il rapporto Il lavoratore disabile: una risorsa per la comunità, ricerca affidata alla fondazione Laboratorio per le politiche sociali (Labos) e all’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispesl) dal ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, presentata la scorsa settimana al Cnel a Roma.
Manca l’inserimento sociale
Fa notare Silvano Miniati, consigliere del Cnel, che «è sufficiente che venga rintracciato un disabile finto e tutta l’attenzione si sposta sui falsi invalidi, che esistono ma non rappresentano il problema, perché il problema sono i veri invalidi e il ruolo che devono ricoprire nelle aziende».
Il direttore della fondazione Labos Claudio Calvaruso osserva che «l’inserimento lavorativo di un disabile è una questione che riguarda non soltanto le aziende, ma anche l’intera comunità. La legge approvata dieci anni fa è perfetta e validissima per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, ma non lo è altrettanto se allarghiamo il campo all’inserimento sociale».

Alberto Bobbio


CUOCHI E CAMERIERI ALLA TRATTORIA DEGLI AMICI
Tredici disabili lavorano in una trattoria nel cuore di Roma a Trastevere. È la Trattoria degli amici, aperta otto anni fa dalla Comunità di Sant Egidio, segnalata dal Gambero Rosso, che ha vinto l’anno scorso il premio della Cisl come migliore esempio di inserimento lavorativo. Quattro disabili lavorano in cucina, gli altri servono ai tavoli. Quest’anno, con la collaborazione di Birra Peroni, la Trattoria ha tenuto il secondo corso di formazione professionale di commis di sala e cucina a cui hanno partecipato 18 disabili.


«La Ru486 ha ucciso mia figlia»

Un'immagine di Holly Patterson
Holly Patterson aveva appena compiuto 18 anni quando entrò in un consultorio californiano dell’associazione «Planned parenthood» chiedendo una pillola per abortire. In realtà non sappiamo cosa chiese. Sappiamo solo che era spaventata. Era incinta. I suoi genitori non lo sapevano. Voleva che qualcuno l’aiutasse. Holly ricevette una pastiglia da 200 mg di mifepristone che prese al consultorio e un’altra da 800 mg di misoprostol, con l’istruzione di inserirla vaginalmente 24 ore più tardi. Le fu dato un appuntamento una settimana dopo, il 17 settembre 2003, alle due del pomeriggio, per verificare che il feto fosse stato espulso e che «fosse andato tutto bene». Nulla andò bene. Holly morì un’ora prima dell’appuntamento, nel pronto soccorso dell’ospedale di Pleasanton. Suo padre, chiamato d’urgenza, non aveva mai sentito parlare della Ru486 prima che un medico lo informasse che, in seguito a un aborto chimico, sua figlia «non ce l’avrebbe fatta».

Ma Monty Patterson continuava a non capire cosa potesse aver trasformato la sua sana, energica ragazza nella creatura pallida e incapace di parlare che lo guardava terrorizzata, poco prima di spirare. Nei mesi successivi Patterson avrebbe imparato molto: a uccidere sua figlia era stata la sepsi provocata da un’infezione dal batterio «clostridium sordellii», indotta dall’assunzione della Ru486. E che la morte poteva essere evitata. Oggi gira gli Usa per spiegare che la Ru486 è un autentico veleno: Patterson ha discusso dei rischi della pillola alla Casa Bianca, in frequenti testimonianze in Congresso, con la Fda, con associazioni di pazienti. In seguito al suo attivismo 70 deputati hanno redatto la “legge di Holly” che chiede la sospensione della Ru486 e la revisione dell’iter che ha portato alla sua approvazione. Ma la legge non è mai stata approvata dal Congresso.

Signor Patterson, qual è il suo giudizio sulla pillola abortiva?
«La mia preoccupazione è la sua sicurezza per le donne. Per me è un problema di salute. Io volevo solo salvare mia figlia, ma non l’ho potuto fare. Tutto quello che mi resta è cercare di informare altre Holly di quello che può succedere loro».

Che informazioni dovrebbero avere?
«Al momento una 18enne come Holly non riceve abbastanza informazioni per prendere una decisione consapevole quando sceglie di terminare chimicamente la sua gravidanza. Nessuno ha interesse a spiegarle cosa le potrebbe succedere. Ma non solo a una 18ennne. Prenda Oriane Shevin. Era avvocato. Sposata, madre di due figli. Ha avuto una terza gravidanza e ha fatto come Holly. È andata in un consultorio, ha preso una pillola. È morta. Aveva ricevuto abbastanza informazioni? No. Quello che si trova su Internet, presso i medici che praticano aborti, sono i dati messi in circolazione dalla società che distribuisce la Ru486 negli Usa, la Danco Laboratories, o da organizzazioni abortiste. Sostengono che il rischio è minimo, che le infezioni sono rare e curabili. Non è vero! Queste donne sono lasciate sole e senza mezzi per difendersi».

È una delle caratteristiche della pillola abortiva quella di consentire l’aborto "fai da te"...
«I fatti mostrano che questa idea dell’aborto nella "privacy della tua casa" pone un fardello enorme sulle spalle delle donne. Le costringe a capire da sole quando qualcosa non va. Holly ha fatto tutto quello che le avevano detto. Dopo tre giorni ha chiamato il consultorio lamentandosi di forti crampi addominali, e le hanno detto di prendere una dose maggiore di antidolorifico. Il giorno dopo è andata al pronto soccorso. Le hanno dato un antidolorifico ancora più forte e l’hanno mandata a casa. Tre giorni più tardi è tornata all’ospedale e nel giro di poche ore è morta. Non aveva febbre, solo dolori. Altre tre donne hanno avuto gli stessi sintomi. E si sono sentite dire che era tutto normale».

Di chi è la colpa?
«I reparti di pronto soccorso non sono preparati a riconoscere i sintomi di infezioni come questa. Spesso le donne che vi si rivolgono non dicono nemmeno di aver assunto la pillola abortiva. Holly lo fece, ma non le fu di nessun aiuto».

L’ente americano che vigila sui farmaci – la Fda – ha ammesso che l’azienda distributrice della pillola abortiva non ha comunicato tutti i casi di "effetti avversi"...
«Sì, perché negli Stati Uniti queste comunicazioni sono volontarie. Sappiamo però che ci sono molte altre donne che hanno rischiato di morire o sono morte per colpa della Ru486, e di cui non è stato detto nulla. L’aborto è una procedura circondata dal segreto, specialmente nel caso di giovani come Holly: a 17 anni è rimasta incinta di un 24enne che non voleva farlo sapere ai genitori. Non possiamo scaricare sulle spalle di queste ragazze la responsabilità di dubitare delle informazioni che ricevono nei consultori o su Internet. Io stesso ho faticato a raccogliere dati affidabili».

Lei a chi si è rivolto?
«A Didier Sicard, professore di medicina all’Università Descartes di Parigi, ex presidente del Comitato bioetico francese che ha dato il via libera alla Ru486. Sua figlia, Oriane Shevin, è morta dopo aver assunto la pillola abortiva. Ora anche lui sostiene che i rischi legati alla Ru486 sono molto più alti di quanto si ammette, e che le informazioni circolanti non sono oggettive. I dati parlano di un rischio di "fallimento" del protocollo del 5-7%. Da dove vengono quei numeri? Dal distributore della pillola. È come chiedere alla volpe di fare la guardia al pollaio. Da quando mia figlia è morta sono stato contattato da decine di donne che mi hanno detto di dover la vita a Holly. Avevano preso la pillola, non stavano bene. Sono andate su Internet, hanno letto la mia storia, e sono corse all’ospedale dicendo che forse avevano un’infezione in atto. In alcuni casi era vero, e hanno ricevuto antibiotici in tempo».

È una consolazione?
«L’unica. Se Holly fosse sopravvissuta, sarebbe la prima a voler raccontare la sua storia per aiutare altre come lei. Non ho potuto proteggere mia figlia, forse posso proteggere le figlie di altri».
Elena Molinari da avvenire

Europa, gli anni di Erode
Dal 1997 tredici milioni di aborti

Nei 27 Paesi dell’Unione europea l’aborto è la causa di mortalità più estesa, ben prima dei decessi dovuti a incidenti stradali o a malattie come il tumore. Ogni secondo, negli Stati facenti parte l’Ue, si verificano 25 interruzioni di gravidanza, un trend che fa assommare all’enorme cifra di 1.237.731 gli aborti praticati in un anno (dati del 2007). Sono questi alcuni dei (terribili) numeri del rapporto «L’aborto in Europa» reso noto dall’Istituto europeo di politica familiare (Ipf), con sede a Madrid, e che diffonde i suoi studi in varie lingue. Proprio il Paese iberico è balzato di recente agli onori della cronaca per l’enorme marcia pro-vida tenutasi a Madrid contro la legge del governo Zapatero che apre la strada all’aborto libero per le minorenni.

«Le cifre parlano di migliaia di tragedie personali, famigliari e sociali davanti alle quali la società non può più continuare a restare indifferente – annota l’Ipf nell’introduzione al rapporto –. Tutto questo rappresenta una sfida prioritaria per la società e per le amministrazioni pubbliche, perché ogni madre che ricorre all’aborto costituisce una sconfitta per la società».

I numeri, dunque. Quelli del documento sono sconvolgenti: un milione e 200mila bambini non nati in un anno rappresenta l’intera popolazione una grande città del Continente. Nel decennio preso in considerazione l’Unione europea ha «perso» 13 milioni di bambini perché abortiti: come se scomparissero, assommate, l’intera popolazione della Svezia attuale e quella dell’Irlanda. Ciò significa che una gravidanza su 5 (il 19,1% per la precisione) nel Vecchio continente termina con un aborto. Tale fatto contribuisce all’«inverno demografico» che attanaglia l’Europa: nel 2008 le nascite sono diminuite di 774mila unità rispetto al 1982, con un saldo negativo del 12,5%.

Il rapporto di Ipf – che si basa su dati Eurostat e quelli forniti dai diversi Paesi – smonta alcuni cliché delle organizzazioni pro-aborto, ad esempio quello che recita «più contraccettivi = meno aborti». Orbene, se negli ultimi anni gli strumenti anticoncezionali hanno ormai dilagato – un esempio, la diffusione istituzionalizzata di preservativ nelle scuole superiori di diversi Paesi –, non per questo si assiste a un calo delle interruzioni di gravidanza. Anzi: se nel 1997 nei 15 Paesi allora facenti parti dell’Unione europea si registravano 837.409 aborti, dieci anni dopo questi sono saliti del 12,6%, arrivando a quota 931.396. Spagna e Gran Bretagna sono i Paesi con il maggior trend di crescita: Madrid ha avuto nel giro di 10 anni 62.500 aborti in più, il Regno Unito ha assistito ad un +27.500. Vi è un dato poi ulteriormente preoccupante, soprattutto sul versante educativo: un aborto ogni 7 viene richiesto da una donna con meno di 20 anni. Qui il primato spetta alla Gran Bretagna (48150), dove il problema delle adolescenti incinte rappresenta ormai un allarmante problema sociale, seguita da Francia (31779) e Romania (17272).

Ma quali sono i Paesi europei che nell’ultimo decennio hanno registrato il maggior numero di aborti? Il triste primato spetta alla Romania, con 2.114.639 aborti; segue la Francia (2.079.387), la Gran Bretagna (2.037.657), l’Italia (1.321.756), la Germania e la Spagna.
Una buona notizia arriva invece se si prendono in considerazione il numero di gravidanze soppresse nei dodici Paesi entrati a far parte della Ue negli ultimi anni, perlopiù nazioni dell’Est europeo: nel 1997 vi si praticavano 650.869 aborti, nel 2007 si è scesi a 306.335, con una diminuzione del 52,9%. Anche guardando alla situazione del nostro Paese, il rapporto di Ipf offre un lumicino di speranza: siamo uno dei Paesi in cui nell’ultimo decennio l’aborto è in calo. Nel 2007 da noi si sono avute 126.562 interruzioni di gravidanza, ovvero 13.604 in meno rispetto a 10 anni prima.

La Spagna rappresenta il «buco nero» dell’indagine di Ipf: se, come detto, essa è il Paese dei Ventisette dove l’interruzione di gravidanza si è più diffusa negli ultimi 10 anni, nel 2008 (secondo le stime di Ipf) avrebbe raggiunto quota 120mila aborti, diventando il 4° Paese Ue per vite nascenti soppresse.

Da questa amara constatazione l’Istituto di politica famigliare lancia un appello al mondo della politica: «È necessario e urgente che le amministrazioni pubbliche realizzino una vera politica di prevenzione (dell’aborto, ndr) basata sull’aumento dell’aiuto sociale ed economico in favore delle donne incinte» tralasciando di «perseguire politiche di contraccezione superate» che «non sono la soluzione più adeguata per la società. È necessario cogliere la sfida – chiosa il documento – e realizzare una vera politica di formazione – e non solo di informazione – in favore della vita aiutando le donne incinte».
Lorenzo Fazzini



E' semplice stare dalla parte giusta
Amare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene na¬turale. È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof¬fre. È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo. Innaturale e terri¬bile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel¬la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi¬coltà. Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile. Amare la vita è semplice. E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio. Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri¬mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen¬so di una verità basilare: ogni essere umano è « de¬gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita. Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.

Chi sta con la vi¬ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria¬mente la finisce. Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario. Eppure, og¬gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar¬dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co¬sa è sbagliato. E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren¬derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari. Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor¬te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im¬portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser¬vono la vita e non la negano. Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca¬sa di cura ' Talamoni' di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine. E vi raccontiamo i medici che al Centro ' Cyclotron' dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem¬pre più impressionanti risposte scientifiche alle do-mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege¬tativo. Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol¬di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die¬ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag¬gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta¬nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua.

E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen¬te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub¬bliche strutture di assistenza). Questi sono gli esempi, i fatti. E poi ci sono le chiac¬chiere. I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe-ranza » , sarebbe crudele. Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso. L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi ma¬gistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co¬me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta¬mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten¬za degli inabili. Le chiacchiere anche feroci di chi, in¬somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose. Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen¬za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita. Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo¬no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro¬fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle. Parole cat¬tive che vogliono rendere «morte» sinonimo di «li¬bertà» , e perciò non sono e non saranno mai spec¬chio dell’animo vero della gente.
Marco Tarquinio

AL SUO FIANCO
«Lei, creatura. E l’evidenza della sua vitalità»
Nevica in questo inizio di febbraio, e il lago è can¬cellato dalle nuvole basse. Nella stanza al secondo piano del¬la clinica Beato Talamoni Eluana non c’è più da un anno, dalla not¬te del 3 febbraio 2009, quando un’ ambulanza la portò via, a Udine, dove sarebbe morta. Quella not¬te pioveva forte, e anche oggi su Lecco si rovescia pioggia mista a neve, ed è buio come se l’inverno non dovesse finire mai. In clini¬ca, tutto è uguale. Suor Albina Corti, la responsabile, è sempre di corsa tra corridoi e reparti. Quando finalmente si ferma e ti si siede davanti ne incontri il volto aperto da lombarda, restio alle parole e però incline al sorriso. «Sì, è un anno», dice, come chi ri¬corda qualcosa che ha costante¬mente nei pensieri. Poi, cam¬biando impercettibilmente il to¬no della voce: «Sa, l’altro giorno u¬na dipendente è venuta ad an¬nunciarmi che aspetta un bam¬bino. Era contenta e anche un po’ preoccupata, per via del lavoro. Ma, le ho detto, i problemi li af¬fronteremo: intanto dobbiamo essere felici per il tuo bambino che arriva. E insieme abbiamo gioito di questa nuova vita. Allo¬ra, istintivamente ho pensato a E¬luana. Era viva anche lei, mi sono detta; era anche lei come quel bambino una persona, una crea¬tura» . Una persona, e quasi una figlia, dopo quindici anni qui dentro. Imboccata, lavata, accudita per quindici anni.

Suor Rosangela, quella che era accanto a Eluana ogni giorno, non partecipa a que¬sto colloquio, non interrompe il suo silenzio. Ma anche nei tratti forti di suor Albina, in quel dire ' era viva', compare un’incrina¬tura, l’affiorare di una sofferenza profonda.

Madre, «se per qualcuno è mor¬ta, lasciatela a noi che la sentia¬mo viva» : furono le vostre sole parole un anno fa. Per molti E¬luana era solo un corpo vegetan¬te. In quale modo voi la sentiva¬te viva?
«Che fosse viva – risponde la suo¬ra – era un’evidenza, e non solo perché respirava naturalmente, senza alcuna macchina. Pensi a un bambino neonato: non capi¬sce, non parla, non risponde, ma forse non è una evidenza che è u¬na persona? E quel solo suo esse¬re vivo, non dà gioia?»

Le risponderebbero in molti: un bambino cresce e va verso la vi¬ta, Eluana era lì da tanti anni im¬mobile, assente…
« Non era così totalmente inerte e assente. Quando la si chiamava per nome reagiva con una quasi impercettibile agitazione che però noi, abituate a starle accan¬to, coglievamo. E la sua pelle, sembrava assaporare le carezze. Certo sperare in un migliora¬mento non era immaginabile, a meno di chiamare questo miglio¬ramento ' miracolo'. Però Eluana era viva. Quando l’altro giorno ho sentito delle ricerche riportate dal New England Journal of Medicine su quei pazienti in stato vegetati¬vo in cui alcune aree cerebrali rea¬giscono agli stimoli, mi sono chie¬sta se anche lei non poteva esse¬re in simili condizioni» .

Com’era concretamente la gior¬nata di Eluana, come viveva in quella stanza al secondo piano?
«Molti si immaginano una came¬ra di rianimazione, un corpo at¬taccato a una macchina. Qui non c’era nessuna macchina. Eluana respirava naturalmente. Al matti¬no veniva lavata, e per tagliarle i capelli ogni tanto veniva un par¬rucchiere. Era una donna fisica¬mente sana, bella, non magra, mai ammalata, con una pelle ro¬sea da bambino. Dopo l’igiene c’era la fisioterapia, poi veniva messa in carrozzella, se c’era bel tempo si andava in giardino. A Natale, l’avevamo portata in chie¬sa con noi» .

È la vita che fa oggi in una di que¬ste stanze un altro paziente nelle stesse condizioni. Nella sua ca-mera però si alternano la moglie e i parenti e gli amici, in una rete di affetti. Eluana, di visite non ne riceveva quasi: negli ultimi tem¬pi il padre aveva ristretto la cer¬chia delle persone ammesse a ve¬dere la figlia. Suore, infermiere e medici le erano però sempre ac¬canto. Suor Rosangela, soprattut¬to. E non smettevano di parlarle, come si parla a una persona viva. «Quel giorno che è stato annun¬ciato che venivano a prenderla – riprende suor Albina senza guar¬darci, come fissa nel suo ricordo – noi non ci credevamo. Era stato minacciato tante volte, e non era successo niente. Quel pomerig¬gio invece è arrivato il padre, e mi ha detto che Eluana se ne anda¬va. L’ho pregato: ci ripensi, per fa-vore, signor Englaro. Lui non ha risposto, ha salutato e se ne è an¬dato. Mi è sembrato in quel mo-mento un uomo pietrificato dal¬la sua stessa scelta» . E in quella notte di pioggia, ri¬corda la suora, «Eluana sembra¬va all’improvviso agitata. Sono ar¬rivati gli infermieri. Noi le parla¬vamo, le ripetevamo di stare tran¬quilla. Le dicevamo che andava in un posto in cui le volevano be¬ne» ( di nuovo la voce della suora si incrina). « Le abbiamo dato un bacio. L’hanno portata via» .

L’assedio dei giornalisti, il lam¬peggiare dei flash, l’Italia ammu¬tolita a guardare. E qui quella stanza abbandonata. Le fotogra¬fie e i quadri alle pareti, i due pe¬luches sul letto ( il terribile vuoto delle stanze di chi se ne va per sempre). E le quattordici Miseri¬cordine di Lecco a aspettare, in¬sieme a tutta la loro congregazio¬ne: a pensare a quella ragazza, per quindici anni come una figlia, che andava a morire di sete e di fame. Quelle donne, a pregare. Madre Albina tace, le parole non possono bastare. Dice solo, pen¬sando all’ultimo saluto: «Ho pen¬sato che la Via Crucis la si fa da soli. Anche il Signore, quel gior¬no, si è trovato solo» . Dai corridoi intanto, dalle stanze, il sommesso rumore di un ospe¬dale quieto e affaccendato: car¬relli che passano, telefoni che suonano, voci. (Qui e altrove, in chissà quante case di cura, quan¬ti malati ogni giorno, passivi in un letto, vengono lavati, curati, ali¬mentati come Eluana? Non in sta¬to vegetativo magari, ma sempli¬cemente persi nella demenza o nell’Alzheimer; o nati incapaci, e per sempre incoscienti e bambi¬ni? Li curano, li accudiscono nel¬l’antica certezza quasi tacita¬mente tramandata dal cristiane¬simo: sono persone. Ma, pensate a un mondo di questa certezza di¬mentico, che rivendicando li¬bertà, diritti e 'dignità della vita' mandi gli inermi a morire, come Eluana. E poi come su Wikipedia affermi di lei: morta 'per morte naturale').

Madre, lei cosa risponderebbe a quelli, e sono tanti, che dicono: se toccasse a me d’essere immo¬bile e incosciente in un letto, fa¬temi morire?
«Direi di pensarci davvero. Senza fermarsi a immaginare astratta¬mente ciò che non sanno. Perché organizzano una vita da malati di cui non hanno alcuna esperienza. E una morte, di cui sanno ancor meno» .

Una pausa. « Perché, vede – e qui la suora sembra riprendere ener¬gia e speranza – certi pazienti co¬me Eluana bisogna vederli con i propri occhi. Non immaginarli soltanto: perché allora prevale la paura. Vederli come sono, vivi, in una stanza piena delle loro cose, come una stanza di casa nostra; vivi e così indifesi, così inermi. Proprio come bambini neonati. Come si può non amare chi è co¬sì inerme e bisognoso di noi, an¬che se non capisce e non rispon¬de? Come si può non amare un bambino?» . E c’è in questa domanda la chia¬ve della dedizione delle Miseri¬cordine a Eluana, e di tanti altri, a tanti altri sconosciuti malati. Un amore per la vita non astratto, ma che attinge alla sorgente di una maternità profonda, e più gran¬de di quella carnale. Dove un pa¬dre ha giudicato che quel modo di vita era intollerabile, non degno, delle madri per quindici anni hanno abbracciato: grate di un fremito della pelle, grate comun¬que di quel respiro. Come due di¬versi sguardi sul mondo si sono incrociati sopra a questa tran¬quilla clinica di Lecco. Poi, quel¬la notte, l’ambulanza è partita e E-luana se ne è andata. Altri come lei, forse, arriveranno. E suor Al¬bina e le sue sorelle e le infermie¬re li cureranno. Serene, certe. Co¬me dicendo, nella forza pacata delle loro facce: «Non vedete? È un’evidenza, che sono vivi».
Dal nostro inviato a Lecco Marina Corradi
IL LUNGO CALVARIO
Quando Eluana chiamò «mamma»
Ospedale di Sondrio, Divisione di Lun¬godegenza, ore 4 del mattino del 15 ottobre 1993. Eluana è in stato vege¬tativo 'permanente' – come si diceva allora – da quasi due anni. Nella sua stanza succe-de qualcosa: «La paziente ha cominciato a la¬mentarsi facendo versi...», si legge nella 'Do-cumentazione clinica' che la riguarda (e rac¬conta i 17 anni dall’incidente alla morte). Non è un’eccezione che Eluana emetta suoni, so¬spiri, gemiti, le accade da due anni e lo farà per altri 15, fino al giorno prima della morte a 'La Quiete' di Udine. Ma quella notte non si placa, forse appare più agitata del solito, forse ha accanto un’infermiera più attenta, forse lì con lei è rimasta sua madre, non lo sappiamo. Fatto sta che Eluana continua a 'lamentarsi', come volesse dire qualcosa, e chi è lì la incoraggia, porge l’orecchio a quei 'versi', finché – è scritto nella cartella clinica – «stimolata a dire la parola 'mamma' è riu¬scita a dirla due volte, in modo comprensibi¬le».

Sono passati quasi due anni dall’inciden¬te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi¬ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im¬magine cui ci si rivolge nel bisogno. Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so¬spiro più lungo... Messaggi spediti dal profon-do di una coscienza nascosta, da sottolinea¬re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go¬mito sinistro», era scritto qualche pagina pri¬ma. Ogni genitore resta sempre in attesa, scru¬ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga¬ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac¬carezza, spera.

Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma¬dre», ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia». Poi quel¬l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co¬me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do¬po anni di silenzi: «Mamma, mamma». Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di 'sonno', di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi¬mento». È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai. Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise¬ricordine, dove la famiglia chiede che sia o¬spitata perché è là che Saturna l’aveva parto¬rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa. La speranza non muore, specie se i me¬dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata¬mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»...

Fantasie di una madre che vede ciò che vuo¬le vedere? No, osservazioni di medici e in¬fermieri: «...Emetteva qualche vocalizzo, fis¬sava e cercava di incrociare lo sguardo del¬l’interlocutore ». «Messa prona con appog¬gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo». « Sembra muovere le dita dei piedi su co¬mando... ». Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo». La speranza non muore, ma ce ne vuole dav¬vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano. Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not¬te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan¬do il padre la fa trasferire a 'La Quiete' di U-dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial¬mente finalizzato al suo «recupero funziona¬le» e «alla promozione sociale dell’assistita»). E durante il viaggio questa volta Eluana si di¬batte, fino a espellere il sondino.
Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola

RISVEGLIATO
Massimiliano, rinascere con un segno di croce
Due vite parallele, quelle di Eluana e Massimiliano, alme¬no per un lungo tratto: han¬no entrambi 21 anni quan¬do un incidente d’auto, a pochi mesi l’uno dall’altro, interrompe il corso norma¬le della vita e spazza via pensieri, azioni, speranze. Per entrambi è l’inizio del lungo sonno, chiusi in un corpo che sembra non co¬municare più nulla a nes¬suno. Poi nella vita di Max succede qualcosa e tra i due giovani è il bivio: «Dopo quasi 10 anni di stato vege¬tativo, la sera di Natale del 2000 Max ha sollevato la mano e ha fatto da solo il gesto che gli avevo sempre fatto fare io, il segno della Croce. Credevo di essere impazzita» . Così Lucrezia Tresoldi, la mamma che, con il marito Ernesto, ave¬va passato giorni e notti at¬torno a quel figlio, parlan¬dogli, muovendogli braccia e gambe, stimolandolo sen¬za sosta.

Qual era stata la diagnosi?
Il cervello era così lesiona¬to che i medici escludevano nel modo più assoluto qual¬siasi ripresa anche parzia¬le. Un neurologo fece un paragone: Max era come u¬na centralina elettrica, se tagli i fili non ci sarà mai più alcun contatto. Sulla cartel¬la clinica scrivevano ogni giorno ' non collabora'. Non vedevano segni di ri¬sposta, loro.

Perché, voi li vedevate?
Io un giorno colsi il movi¬mento di un mignolo. Ma i neurologi dissero che era un riflesso condizionato, che mi illudevo. Negli anni quante volte ci hanno dato degli illusi o dei visionari...

Oggi i fatti vi danno ragio¬ne, ma in effetti non era fa¬cile credervi, allora.
Il fatto incredibile è che quelle lesioni cerebrali Max le ha ancora, come rileva la risonanza magnetica, il che prova quanto poco si sap¬pia del cervello umano. Per tanti anni nessun se¬gno di coscienza. Poi? Dopo nove anni di stato ve¬getativo abbiamo visto un sorriso. I neurologi soste-nevano che era uno spasmo involontario, ma la cosa si ripeté e mai per caso, sem¬pre quando gli amici di Max lo venivano a trovare. Un anno dopo, quando nostro figlio si è risvegliato, ci ha spiegato quei sorrisi... Du¬rante quei lunghi dieci an¬ni Massimiliano era sempre stato ' qui', con noi, solo che non poteva comuni¬carlo. Al risveglio ricordava perfettamente chi in passa¬to era venuto a trovarlo, rac¬contava episodi avvenuti in camera sua...

Quanto conta che lo ab¬biate portato a casa e la fa¬miglia gli sia sempre stata accanto?
Gli studi dimostrano che lo stimolo maggiore per que¬sti casi è proprio il contatto con i genitori. Anche l’in¬fermiere più bravo non po¬trà mai trasmettere le sen¬sazioni, i rumori, gli ' odo¬ri' della famiglia, soprat¬tutto l’amore, che sul cer¬vello ha effetti molto forti. Quando lo abbiamo porta¬to a casa, dopo 8 mesi di o¬spedali e di sondino, aveva già ricevuto l’estrema un¬zione, non poteva più de-glutire, pesava 39 chili, era tutto piagato, aveva 40 di febbre. Noi a casa gli abbia¬mo tolto il sondino e, cuc¬chiaino per cucchiaino, lo abbiamo imboccato con i frullati, a ogni sorso gli muovevamo il collo perché imparasse il movimento giusto. Ci sono voluti mesi.

Il giorno prima della mor¬te, l’équipe di Udine ha provato a far bere acqua a Eluana per dimostrarne l’incapacità.
Una follia: a una persona in agonia? E con i liquidi Max si strozza anche oggi che mangia spaghetti e cotolet¬te. Comunque ci vogliono mesi e mesi di esercizio co¬stante, dopo anni di sondi¬no.

Max accetta la sua disabi¬lità?
È un ragazzo felice e rin¬grazia Dio se tre medici su cinque si opposero al di¬stacco dalle macchine. Da un mese a questa parte sta pronunciando sempre nuove parole e ora ha il so¬gno di camminare, grazie a uno speciale ausilio che però aspettiamo dall’Asl... Lo vedremo mai?

Che aiuti ricevete dalla Asl?
Tre ore a settimana di fisio¬terapia, cioè zero. Ci siamo comprati il letto antidecu¬bito, l’aspiratore per il ca¬tarro, la palestra. Solo da un anno ci possiamo permet¬tere il logopedista, ma quanti anni fa Max avrebbe parlato, se le sedute fosse¬ro iniziate prima? Perché nessun genitore in questo anno ha seguito la via aperta da Englaro? Tutti combattono per otte¬nere gli aiuti e garantire a questi figli le cure cui han¬no diritto, non per farli mo¬rire. Magari avessimo tutti le suore Misericordine.
Lucia Bellaspiga
LA RICERCA IN BELGIO
Liegi, dove si trova la vita anche nei «vegetativi»
Chilometri di fili, scrivanie som¬merse di cartelle cliniche, i ri¬cercatori che studiano accam¬pati nei corridoi, perché manca lo spazio, ma c’è così tanto da fare: il Centro Cyclotron dell’Università di Liegi è, a oggi, l’unico posto al mon¬do in cui le domande sullo stato ve¬getativo trovano una risposta. Non è la risposta del cuore, o della fe¬de, o dell’etica: quelle sembrano non bastare a chi ragiona in termini di 'e¬videnze' sulla vita umana. A Liegi la risposta è quella oggettiva della scienza, e a piantartela davanti agli occhi è un fisico nucleare che del¬l’etica potrebbe persino infischiarse¬ne. Non fosse per quella videata in cui un cervello comincia a colorarsi, a da¬re segnali di coscienza e attività là do¬ve era impossibile persino sognarle. Non fosse che il cervello appartiene a un malato in stato vegetativo da 5 an¬ni – la giovane vittima di un inciden¬te stradale, per essere precisi – in un Paese come il Belgio, dove l’eutanasia è pratica legale già da tempo.

Da qualche mese è lui il protagonista indiscusso del laboratorio di Steven Laureys e lo è anche della ricerca ap¬pena pubblicata sul New England Journal of Medicine, che tanto ha fat¬to scalpore sui giornali e in tv. Perché questo 'vegetale', considerato privo di ogni traccia di coscienza e perce¬zione di sé, incapace di seguire gli og¬getti con gli occhi e inchiodato a un letto senza via di scampo, senza bat¬tito di ciglio, può comunicare. Può di¬re sì o no, se qualcuno gli chiede con¬ferma del suo nome. Può spostarsi, mentalmente, e allo stesso modo per¬sino giocare a tennis. Pensare che a vederlo dal vetro dell’o- spedale, Alan (lo chiameremo così, per questioni di privacy), è un caso disperato. Proprio come Rom Hou¬ben, l’uomo che ha commosso il mondo raccontando i suoi sedici an¬ni di urla nella gabbia dello stato ve¬getativo, e che oggi è a Liegi, per una visita di controllo.

Lo vedi coricato nello scanner, coi suoi movimenti in¬consulti, senti la voce della dottores¬sa Audrey che gli dice «relax», attra¬verso il microfono: nella stanza ci so¬no sei medici, fuori altrettanti prati-canti e ricercatori, ed è incredibile, perché al centro di questo consesso i¬perspecializzato, al cuore di tanta at¬tenzione e del dibattito che si innesca davanti alle immagi¬ni della risonanza magnetica, c’è quel¬la che per alcuni è so¬lo una vita spezzata, inutile, un fantasma d’essere umano. Non qui. 'Miracoli' di Liegi, li chiamano: in realtà non c’è alcun prodigio in corso, se non quello di vedere la vita – e non smet¬tere di cercarla – là dove sembrereb¬be aver vinto la morte. Il Cyclotron non è l’Enterprise, non siamo nello 'spazio profondo': il pa¬lazzo grigio è un po’ scalcinato, un punti¬no sulla collina uni¬versitaria di Liegi, e la struttura è pubblica, finanziata nei tempi e nei modi noti an¬che in Italia, efficaci magari, ma lenti. Ci sono i macchinari che troveresti in qualsiasi altro ospe¬dale o centro di ri¬cerca: la Pet (la tomografia a emissio¬ne di positroni), la Rmnf (la risonan¬za magnetica nucleare funzionale).

Ci sono gli specialisti che preparerebbe ogni università: neurologi, psicologi, fisici, chimici. Eppure qui c’è una ri¬voluzione in corso, che attira le mae¬stranze intellettuali di mezzo piane¬ta e non accenna ad arrestarsi. Inizia con Athena, Audry e Marie Aurélie: età media 25 anni, la prima greca, la seconda fiamminga, la terza italo¬belga. Insieme, sono l’enciclopedia di neurologia applicata ai disordini di coscienza che tutti gli specialisti del campo vorrebbero in tasca. La matti¬na vanno in corsia, incontrano le fa¬miglie dei pazienti, effettuano i test comportamentali sui vegetativi: la pressione sulle dita, il giro della stan¬za con lo specchio (i pazienti in que¬sto seguono più facilmente la propria immagine con gli occhi, che quella di un oggetto), le stimolazioni sonore. È il protocollo aggiornato della Coma recovery scale, quello che qui è basta¬to già un centinaio di volte per rico-noscere una diagnosi sbagliata su un paziente (risultato non essere affatto vegetativo) e che è facilmente reperi¬bile online. Eppure il resto del mon¬do – tranne Athena, Audrey e Marie Aurelie – sembra non saperlo. Il pomeriggio tocca agli esami: le ri¬sonanze, le tomografie, in una paro¬la le partite di tennis. In un altro la¬boratorio Andrea Soddu, fisico delle particelle italiano convertito alle neu¬roscienze, analizza le immagini del cervello dei pazienti a riposo, ottenu¬te con la risonanza. Immagini e ana¬lisi, anche qui nessun prodigio.

Dopo una settimana la normalissima riu¬nione di confronto, in cui tesi e anti¬tesi sono messe in campo, e si giun¬ge a una diagnosi condivisa. Steven Laureys, che è il responsabile del Coma group, lo ripete di continuo a chi incontra, a chi telefona, ai con¬vegni e alle conferenze: «Quello che facciamo può essere fatto da qualsia¬si parte, si deve solo cominciare». Non basta: nel pomeriggio arrivano altre cinque chiamate, una è dall’Italia. È la mamma di Luca, vive a Milano, suo fi¬glio è immobile e in stato vegetativo da dodici anni. Chiede aiuto. Vorreb¬be che i medici di Liegi lo vedessero, perché «siete gli unici a vedere vera¬mente ». Sarebbe disposta a dividere la spesa con un’altra famiglia, anche loro hanno un figlio così. Non hanno abbastanza soldi per il viaggio però, e forse il ragazzo non è trasportabile: «Perché i medici che ho incontrato fi¬nora non mi hanno detto niente di più?». Stato vegetativo, ci sono rispo¬ste. Basta vederle. Il professor Steven Laureys (il medico al centro) insieme a due assistenti del Centro Cyclotron che dirige all’Università di Liegi, durante l’esame clinico a un paziente
Dal nostro inviato a Liegi Viviana Daloiso

IL CAMMINO DI SPERANZA
I familiari dei pazienti: una rete di solidarietà per fare vivere i nostri cari
L e famiglie di coloro che sono colpiti da una grave lesione cerebrale o che sono caduti in stato vegetativo sono vittime solo in seconda battuta, ma devono soppor¬tare un carico di fatica e di dolore che sgo¬mentano. E tuttavia non rinunciano, anche a prezzo di grandi sacrifici, a prestarsi nell’aiu¬to ai loro cari. In questo anno trascorso dalla morte di Eluana Englaro hanno però ottenu¬to che la società si accorgesse un po’ di loro e riflettesse su quale siano le necessità delle per¬sone colpite da queste gravissime disabilità. Quel che conta, lo slancio che permette di an¬dare avanti, sottolineano i rappresentanti del¬le associazioni dei familiari, «è l’amore verso i propri cari». «Noi ripetiamo che anche in stato vegetativo sono persone, che hanno gli stessi diritti de¬gli altri cittadini, in particolare quello di ave¬re una vita con una qualità dignitosa». P

aolo Fogar, presidente della Federazione naziona¬le associazioni trauma cranico (Fnatc) si ri¬chiama alla Carta di San Pellegrino e alla Con¬venzione Onu sui diritti delle persone con di¬sabilità per richiamare le richieste di assi- stenza che le famiglie ripetono. «È importan¬te che quei documenti non restino enuncia¬ti. Occorre lavorare perché si trovino mezzi e sostegni, non solo economici, per aiutare le fa¬miglie: che non parlano di morte, ma di vita». Anche Gian Pietro Salvi, presidente della Re¬te- associazioni riunite per il trauma cranico e le gravi cerebrolesioni acquisite, aggiunge: «Le famiglie sono gli eroi del quotidiano, la batta¬glia è comunque lunga e logorante: se non so¬no aiutate, si ammalano. È compito delle isti¬tuzioni e della società non lasciarle sole». E da questo punto di vista la presenza delle asso¬ciazioni che lavorano al tavolo istituito al mi¬nistero della Salute per giungere a scrivere un Libro bianco dell’assistenza a queste persone è un primo passo, ma cruciale, sottolinea Ful¬vio De Nigris, direttore del Centro studi ricer¬ca sul coma-Gli amici di Luca onlus. «È mol¬to importante anche come si comunicano le notizie relative al coma e agli stati vegetativi: occorre infatti tutelare queste persone grave¬mente disabili, raccontare ciò di cui hanno bi¬sogno e le strutture dedicate disponibili (che sono ancora poche). Se c’è stato un frutto del¬la vicenda Englaro è proprio la reazione di tut¬ti coloro che vivono questi problemi e che so¬no riusciti un po’ a farsi sentire».

«Da un lato – osserva Paolo Fogar – sono sta¬ti fatti progressi, ma la situazione è ancora a macchia di leopardo. Accanto a Regioni, co¬me Lombardia e Friuli-Venezia Giulia, che danno anche un contributo economico alle fa¬miglie, i Livelli essenziali di assistenza (Lea) non prevedono la riabilitazione a lungo ter¬mine per queste persone, che ne hanno biso¬gno sempre per evitare spasticità. Ma i fami¬liari continuano a parlare di vita e non di mor¬te ». E si battono in tutte le sedi: una di queste sono le conferenze di consenso con le società scientifiche, dove vengono stilate le racco¬mandazioni che devono diventare buona e ordinaria prassi medica e assistenziale.

«En¬tro la fine dell’anno – aggiunge Fogar – parte¬ciperemo alla conferenza di consenso della Simfer (Società italiana di medicina fisica e riabilitativa) sulla buona pratica nella riabili¬tazione ospedaliera delle persone con gravi cerebrolesioni acquisite. Mentre questo me¬se a Siena le associazioni saranno presenti a un’altra conferenza di consenso sulla riabili¬tazione cognitiva dell’adulto. Si tratta di a¬spetti importanti, che toccano la vita di que¬ste persone: le famiglie si battono per la vita, ma servono riabilitazione, ausili, valutazioni accurate». Questi documenti, poi, per diven¬tare prassi «devono essere portate in Confe¬renza Stato-Regioni». Solo così si concretizzano gli aiuti e si evita la solitudine, «la vera condanna di queste fami¬glie – sottolinea Fulvio De Nigris –, che ri¬schiano di sentirsi isolate dal resto della so¬cietà. D’altra parte occorre anche fare molta formazione nella società, a partire dai giova¬ni ». «Ci vuole amore, passione e competenza per dedicarsi a queste persone – conclude Sal¬vi – ma le famiglie lo fanno per uno slancio vi¬tale di amore verso i loro cari».
Enrico Negrotti

Bambini Down,
la strage silenziosa
Oggi le reazioni all’assurdo gruppo di Facebook sono perlopiù solidali e indignate, ma non sempre la nostra società mostra sentimenti di accettazione verso le persone con sindrome di Down (SD). Senza elencare un lungo elenco di discriminazioni più o meno palesi che queste persone devono spesso sopportare, c’è un dato abbastanza significativo: nella stragrande maggioranza dei casi di fronte a una diagnosi prenatale di SD, la gravidanza si conclude in un aborto. Non sono opinioni, ma i dati che emergono dalle poche indagini scientifiche condotte sull’argomento, come il recente articolo pubblicato il 26 ottobre scorso dal British Medical Journal (2009; 339:b3794) che indica come Oltremanica nell’arco di vent’anni siano leggermente diminuite (meno 1 per cento) le nascite di bambini con sindrome di Down, mentre l’aumento dell’età materna ne faceva prevedere un incremento significativo (più 48 per cento): a essere aumentati altrettanto sono stati i test prenatali. E anche in Europa, secondo un’indagine del 2003, veniva indicato un calo nei nati tra il 1975 e il 1999 statisticamente significativo. In Italia l’incidenza dei bambini con SD è di circa 1 ogni 1000-1200 nati – secondo diverse valutazioni – cioè 500-600 bambini l’anno.

L’indagine condotta da Joan Morris, docente di statistica medica all’Università di Londra, e da Eva Alberman, professore emerito, è significativa nella crudezza dei numeri. Vengono presi in esame i nati vivi con sindrome di Down e le diagnosi prenatali in Inghilterra e Galles tra il 1989 e il 2008, analizzando i dati del Registro nazionale di citogenetica della sindrome di Down. In un riquadro riassuntivo si indica che era già noto che le madri più anziane sono maggiormente a rischio di concepire bambini con la sindrome di Down, e che gli screening prenatali per la sindrome di Down sono più disponibili oggi rispetto ai primi anni Novanta. Quello che la ricerca aggiunge è che «il numero di diagnosi di sindrome di Down è cresciuto del 71 per cento (da 1075 nel 1989/90 a 1843 nel 2007/2008), mentre i nati vivi sono diminuiti dell’1 per cento (da 755 a 743), a causa degli screening prenatali e delle conseguenti interruzioni di gravidanza». Dal punto di vista demografico si osserva che «in assenza di screening prenatali e conseguenti aborti, il numero di nascite di persone con sindrome di Down sarebbe cresciuto del 48 per cento a causa della scelta dei genitori di far famiglia più tardi».

Analoghi risultati ha ottenuto una ricerca condotta nel 2003 da Daniela Pierannunzio, Pierpaolo Mastroiacovo, Piero Giorgi e Gian Luca Di Tanna che ha preso in esame i dati relativi a 31 registri internazionali delle malformazioni congenite raccolti dall’International Clearinghouse for Births Defects monitoring Systems nel periodo tra 1974 e 2000. I risultati generali indicano che la prevalenza alla nascita totale è pari a 9,07 per 10mila nascite con un calo nel corso degli anni statisticamente significativo. In particolare si passa da 16,10 bambini con SD ogni 10mila nati nel 1975 a 6,09 nel 1999: un risultato «dovuto al corrispondente aumento di interruzioni di gravidanza a sua volta dovuto alla diffusione generalizzata della diagnosi prenatale».

Si tratta di risultati che devono far riflettere ma che non possono stupire, se solo si ricorda il dibattito che ha preceduto (e seguito) l’approvazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita e la campagna referendaria. Il ritornello di chi sosteneva la necessità di effettuare la diagnosi preimpianto era per eliminare «alcune gravi patologie», quali appunto sindrome di Down (che non è una malattia), fibrosi cistica, talassemia. Inutile dire che, siccome cure per correggere la sindrome di Down non esistono, la «cura» si traduce in una eliminazione dell’embrione: anche perché – si sosteneva (e si sostiene), la donna poi può sempre abortire. E anche se la legge 194 non prevede affatto l’eliminazione del feto per motivi di discriminazione genetica, questo avviene spesso. Al punto che il clamoroso caso dell’aborto «sbagliato» nel 2007 all’ospedale San Paolo di Milano non ha sollevato nessuna onda di protesta. Era stato deciso di abortire selettivamente la gemellina con SD: un errore in fase di intervento portò invece alla morte di quella sana. Ma la bambina con SD fu eliminata con un secondo aborto. Recentemente sono stati assolti i medici che avevano compiuto l’intervento errato: non per violazione della 194, bensì per l’imperizia dell’operazione.
Enrico Negrotti AVVENIRE