martedì 21 dicembre 2010

IL MIRAGGIO DI NON MORIRE

La vita eterna
e il miraggio di non morire
La vita eterna? In un certo senso è diventata un’altra cosa. E questo anche perché è cambiata l’immagine, ma soprattutto la presenza della morte. Ancora ricordo i risultati di una ricerca statistica inglese sulla città di Exeter. L’autore diceva: a 25 anni la metà del campione studiato era già morta. E i dati, a quanto ricordo, si riferivano al Settecento. Eravamo già lontani dall’immagine della morte del medioevo, quando era sempre e quasi naturalmente presente. Il cimitero non era un luogo lontano dalla vita quotidiana, tanto è vero che nei cimiteri si commerciava, ci si prostituiva…

Oggi? Siamo separati dai cimiteri e dalla morte. Culturalmente è vissuta come un evento imprevedibile, che ci sorprende ogni volta che la incontriamo. Nei secoli e nei millenni che stanno alle nostre spalle la durata della vita si è, pur lentamente, allungata e la morte è quasi scomparsa dai primi 20 o 30 anni di vita. Certamente si muore negli incidenti stradali, nei posti di lavoro, ma di queste morti non si parla più come di un prodotto del destino, bensì di carenze, di errori, di circostanze più o meno imprevedibili. In conclusione, la morte è ancora una scomoda inquilina della vita, ma un’inquilina il cui arrivo è sempre meno prevedibile per cui, alla fine, la cultura della morte è profondamente diversa da quella di un tempo.

Certamente si deve morire, ma la morte viene associata a una vecchiaia vissuta come un evento molto lontano che non ci riguarda da vicino. Già tutto questo contribuisce a una ricostruzione del nostro rapporto con la religione. Un tempo religione, morte e vita eterna erano collegati psicologicamente. Oggi la religiosità, spesso molto lontana dal problema della morte, diventa un evento psicologicamente più positivo. Gli aspetti sociali, culturali e psicologici della religione subiscono quindi importanti trasformazioni. Ma si sta facendo strada un altro problema che interessa da vicino la religione ed è almeno in parte il prodotto di queste secolari trasformazioni.

La vita, prolungata dai progressi delle scienze umane, comincia ad essere vissuta come psicologicamente eterna. Mi resi conto dell’esistenza di questo problema anni or sono quando partecipai a una trasmissione televisiva insieme a un biologo americano il quale osservò: «I progressi della genetica mi fanno pensare che qualcuno di quanti nascono ora sarà vivo fra 400 anni». Un’affermazione che forse contiene frammenti di verità, ma che è molto importante anche dal punto di vista culturale. Quindi, si comincia a parlare di una vita che, sul piano psicologico, anche se non nel nostro quotidiano, diventa fisicamente eterna.

Sollecitato da questa considerazione cominciai a riflettere, e dentro di me si affollarono le domande. Ma che ne sarà, nella cultura di uomini e donne di quel futuro, della vita religiosamente eterna? Come saranno consolati gli esseri umani di fronte ad una presunta o presumibile eternità fisica, satura anche di sofferenze e dolori? Cambia veramente il significato del concetto di vita eterna? Rimane, in un mondo così drammaticamente diverso, la necessità di dare una risposta religiosa ai nostri problemi.

Ma come fare di fronte a una vita psicologicamente vissuta come eterna, da un uomo più solo che mai? E probabilmente impreparato ad affrontare una realtà così diversa? Si tratta di formulazioni nuove di problemi che filosofia, teologia e psicologia hanno sempre affrontato, o di problemi nuovi per questa civiltà così differente?
Sabino Acquaviva

A proposito di «famiglia allargata»
La felicità non è un caos
«Il giorno più brutto della mia vita? Quando papà e mamma si sono separati»: la bambina che mi parla così ha 7 anni, dunque siamo arrivati ai tempi in cui una bambina di 7 anni cataloga i giorni brutti della sua vita, e stabilisce qual è il peggiore? E se il giorno in cui papà e mamma si son separati è il più brutto, ci potrà mai essere, in futuro, un giorno ancora più brutto? Sì: «Quando il papà o la mamma avranno un nuovo fidanzato».

La bambina è la prima della classe, scrive perfino delle poesie. Senza rima, ma ormai chi usa più la rima? Leggevo, ieri, che ci sono bambini per i quali avere tre o quattro genitori è una festa: si divertono di più. Se poi i nuovi genitori hanno dei bambini, i figli nati dai due-tre matrimoni formano una squadra, giocano sempre, è come se fossero continuamente al parco. Questo leggevo. Ma la mia esperienza non me lo conferma. Ogni tanto la madre della bambina che ho introdotto all’inizio di questo articolo fa qualche viaggio, per stare in pace col nuovo compagno, e per non far sentire l’abbandono alla figlia la chiama col cellulare, e la prima risposta della figlia è: «Dove sei? sei sola? o sei con X?». La piccola ha un’ossessione: che la madre introduca un nuovo marito, e cioè un nuovo padre. Il bambino sente padre-madre come una coppia perfetta, si sente il frutto di una perfezione.

Se la coppia si spacca, nel bambino s’infiltra un’autosvalutazione, si sente frutto di un errore. Avevo un amico che era uscito di casa, viveva con un’altra donna, e da queste donna ebbe un nuovo figlio. Il figlio avuto dalla moglie precedente andò a trovarlo, stava al quinto piano, guardò il fratellastro in culla, uscì sul terrazzino e si buttò. Ricordi come questo, di figli finiti male o sbandati perché papà e mamma si son separati, a una certa età si fan numerosi.

Leggo che son nati termini nuovi, per indicare i nuovi ruoli introdotti col secondo o terzo matrimonio: "papigno", "mammastra", "cugipote". Non vedo la scia di affettività che questi termini si trascinano dietro. "Papigno" è il maschile di "matrigna", e la matrigna sta nelle favole come l’incarnazione del peggior male che l’inconscio delle bambine teme: è l’anti-madre. So che le matrigne eccellenti non sono poche, ma so che le bambine con questo terrore sono molte. E "papigno" è un neologismo funebre. In genere la matrigna appare quand’è morta la madre, se c’è il papigno vuol dire che non c’è il papà. Il figlio c’è perché c’è la mamma che lo ha voluto.

Se c’è la "mammastra" ci sono altri figli che lei ha voluto, non tu. La famiglia allargata è un caos generazionale, ma anche lessicale. Poiché le famiglie allargate son numerose, in Inghilterra han deciso che a scuola non si dica più ai bambini "tua madre" o "tuo padre", perché è possibile che il bambino non viva con loro. Allora si dice: "gli adulti che vivono con te". La parola "madre" è cancellata. La parola è un albero, la lingua una foresta. Se tagli una parola, tagli un albero. Ma dalla parola "mamma" derivano tanti altri alberi, germogliati dalle sue radici: se tagli quella parola, crei una radura vuota nel mezzo della società.

Un ministro italiano in carica ha confidato ieri: «Anch’io pensavo che mio figlio, intelligente, non ne risentisse, e mi sono separato. Ma si è destabilizzato. Non è giusto cercare la propria felicità a danno dei figli». È l’intuizione di un concetto profondo che va portato in superficie: se uno vive da solo, insegue una felicità individuale; se si unisce a formare una coppia, entra in un altro concetto di felicità, la felicità di coppia, che comporta anche dei doveri, la felicità dell’altro; se poi forma una famiglia, entra in una felicità di gruppo, e non può rompere impunemente il gruppo, e uccidere la felicità degli altri per chiudersi nella propria. La felicità della famiglia – e il Papa ce lo ha ricordato – non è fatta di tante felicità individuali separate, ma dalla loro fusione e dal loro accordo.
Ferdinando Camon

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