lunedì 28 dicembre 2009

IL S. NATALE CHE NON C'E'

e con il dovuto rispetto …….. In sette mosse ecco come si può rovinare la festa
di Mario Delpini

La festa di Natale è così bella, così cristiana, così speciale che per rovinarla ci vuole molto impegno. Bisogna però riconoscere che i cristiani, quando vogliono, si impegnano seriamente. Segnalo alcuni di questi impegni:
Cambiare i nomi: non si chiamino più <>, ma <>
Applaudire maestre e bambini che per la recita di Natale mettono in scena qualche favola insulsa per non offendere i non cristiani con i racconti sulla nascita di Gesù.
Insegnare ai bambini a scrivere la letterina a Babbo Natale con una sfilza di richieste capricciose e costose, prima di insegnare a pregare Gesù Bambino per le cose che contano.
Dedicare tempo a decidere dove andare a sciare più che a preparare la confessione di Natale.
Esagerare: mangiare troppo, bere troppo, spendere troppo, così da avere il mal di testa e una malavoglia che impedisce persino di fare visita agli amici, ai poveri, al cimitero.
Trovare sollievo nel dimenticar per un giorno i problemi del mondo e l’esistenza dei poveri.
Ricordarsi di tutti, eccetto il Festeggiato: il Natale, per sé, sarebbe il compleanno di Gesù.

I cristiani si giustificano: <>. Ma il profeta risponde: <>.

I punti 5-6-7 personalmente mi hanno colpito parecchio ……

I PIU’ SINCERI AUGURI
DI UN SANTO NATALE DI GESU’
franco
E il Verbo si fece carne…

giovedì 17 dicembre 2009

LA FEDE NON E' MAI CONTRO LA RAGIONE

Fede e ragione: quel sole nella notte
I due interventi inaugurali del Convegno internazionale su Dio recentemente promosso dalla Cei hanno riproposto un tema decisivo. Il cardinal Ruini ed il filosofo Robert Spaemann hanno infatti ribadito la possibilità di elaborare delle dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio. La scelta di iniziare il Convegno con questo discorso è molto importante anche nei riguardi del mondo cattolico, perché non pochi credenti cadono nel fideismo, che nega il contributo della filosofia alla fede, considerandola inutile o addirittura perniciosa, e poggia la fede soltanto su un sentimento interiore e sulla Bibbia.In realtà, la capacità della ragione di giungere a Dio è affermata già dalla stessa Bibbia. Un passo della Lettera ai romani (I, 19-21), citato più di una volta al Convegno: «Ciò che di Dio si può conoscere è agli uomini manifesto […]. Infatti […] le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute». E la Lettera di Pietro (1 Pt, 3, 15) esorta a promuovere il cristianesimo appunto anche mediante la ragione: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi».Anche sulla scorta di questi passi la Chiesa si è molte volte pronunciata sulla possibilità di affermare Dio con la ragione. Per esempio nell’enciclica Fides et Ratio (§ 24, 36 e 53), dove, inoltre, Giovanni Paolo II ha criticato (al § 55) i "pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio". Ma potremmo citare anche molti interventi di Benedetto XVI. Similmente, il cardinal Bagnasco ha rimarcato al Convegno che «purtroppo […] sentimentalismo ed emotivismo […] finiscono per avallare l’opinione diffusa che religione e ragione appartengano a due mondi, se non contrapposti, quantomeno incomunicabili».Per contro, la filosofia può recare alla fede almeno due preziosissimi contributi.Anzitutto, le prove filosofiche dell’esistenza di Dio possono essere proposte a chi non è già cristiano, possono condurre l’ateo a convincersi dell’esistenza di Dio e possono inoltre portare il non cristiano sulla soglia della fede nel Dio cristiano. In effetti, i cristiani diventano tali sia perché ricevono la fede direttamente da Dio o da qualche persona che inoltre la testimonia, sia anche, a volte, perché vengono convinti da dei ragionamenti. Per esempio, s. Agostino si è convertito grazie a s. Ambrogio ed alla lettura dei discorsi dei filosofi neoplatonici, s. Edith Stein è arrivata al cristianesimo leggendo s. Teresa e grazie alla filosofia di s. Tommaso, e Janne Haaland Matlary – già viceministro norvegese, che era agnostica (ed in certi periodi atea) - è arrivata al cattolicesimo proprio grazie alla filosofia.Inoltre, la filosofia può soccorrere anche chi è già credente: anche i più grandi santi hanno attraversato periodi in cui nessun sentimento interiore confermava loro l’esistenza di Dio, come è avvenuto a Madre Teresa di Calcutta. È la «notte dello spirito», per usare l’espressione di s. Giovanni della Croce. In simili momenti, la filosofia, che può dimostrare l’esistenza di Dio e anche alcuni aspetti della sua natura (onnipotenza, sapienza, giustizia, provvidenza, ecc.), può aiutarci a rimanere convinti che Dio esiste, a riconoscerlo anche quando si addensa il buio.
Giacomo Samek Lodovici

martedì 15 dicembre 2009

DON BOSCO LO STATISTA DELL' 800

Don Bosco, «statista» del Risorgimento

L'obiettivo che don Bosco si pose fin dal 1846 era preciso: «Adoperarsi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo». Egli non rinnegò mai la sua scelta anche quando il «buon cittadino» del Regno di Sardegna divenne quello di un Regno d’Italia ostile alla Chiesa: «Mentre mi professo sacerdote cattolico ed affezionato al Capo della Cattolica Religione, mi sono pur sempre mostrato affezionatissimo al Governo, per i sudditi del quale ho sempre dedicate le deboli mie sostanze e le forze e la vita». Inoltre la sua tranquillizzante strategia pastorale – «amore al lavoro, frequenza dei Sacramenti, rispetto ad ogni autorità e fuga dai cattivi compagni» – non poteva certo essere ostacolata da amministrazioni cittadine e apparati statali, preoccupati com’erano dall’ordine sociale dell’epoca. Superate le turbolenze politico-religiose del biennio 1848-1849 con il rifiuto di aggregarsi a qualunque schieramento politico e con il deciso schierarsi in difesa della religione, don Bosco riprese la sua politica assistenziale ed educativa, sempre appoggiata dai vertici dello Stato come «opera benemerita della religione e della società», proprio mentre andavano approvando contestatissime leggi che avviavano il Paese alla modernizzazione laica dello Stato e alla sua divaricazione dalla Chiesa. Negli anni Cinquanta, non schierandosi decisamente a favore delle innovazioni politiche ma neppure opponendosi direttamente e pubblicamente – anzi tentando congiuntamente con i fratelli Cavour di risolvere il caso dell’arcivescovo di Torino – il sacerdote evitò eccessive molestie e continuò ad essere in buoni rapporti con numerosi funzionari statali e ministri, che rispondevano ai suoi appelli di sussidi e indumenti e soprattutto gli affidavano orfani. I buoni rapporti si incrinarono ai primi passi dell’Unità d’Italia. Nel maggio-giugno 1860 – sei mesi dopo la fondazione della Società salesiana – don Bosco subì una durissima perquisizione poliziesca per sospette relazioni politiche con la Santa Sede e una severa ispezione scolastica per presunte inadempienze alle nuova legislazione scolastica. Vigorosamente protestò con i rispettivi ministri, superò brillantemente la crisi e riprese con sempre crescente credito la sua attività di educatore, di responsabile di scuole e di laboratori, di pubblicista, di costruttore di chiese; allargò anzi il suo raggio di azione fuori Torino con l’accettazione di nuovi collegi. Nessuno – in quel decennio che vide acutizzarsi per la coscienza cristiana la «questione romana» – ignorava la fedeltà di don Bosco alla linea politica della Santa Sede; i politici non erano d’accordo con lui quando affermava la necessità, peraltro non assoluta, dello Stato pontificio per l’indipendenza del pontefice; intuivano che i connotati dell’«onesto cittadino» che don Bosco pubblicamente dichiarava di formare non erano gli stessi del «buon cittadino» del «loro» Regno d’Italia. Ma nonostante tali sue tendenze più conservatrici che democratiche, più paternalistiche che egualitarie, più clericali che laiche, forse proprio per esse fu coinvolto e si fece promotore nel decennio 1865-1875 di vari tentativi di politica ecclesiastica in vista di una soluzione dei due problemi che turbavano la vita politica e le coscienze religiose dei cittadini: la nomina dei vescovi alle sedi che ne erano prive per motivi politici e il conseguimento da parte loro delle cosiddette «temporalità». In tale opera di privatissime mediazioni don Bosco ebbe modo di farsi apprezzare dai vari Cavour, Rattazzi, Ricasoli, Menabrea, Lanza, Vigliani, Minghetti, Cambray Digny... Alla cattolicissima moglie di quest’ultimo osò chiedere di informarsi circa la possibilità che il governo italiano potesse essere rappresentato al Concilio Vaticano! Di anni di volenterose trattative, solo parzialmente riuscite, restò lo sforzo generoso di don Bosco che – su e giù per Torino, Firenze e Roma – in nome del supremo principio «lex suprema, salus animarum», si era prestato per conciliare realisticamente le competenze e le responsabilità di entrambe le parti in causa. Nei secondi anni Settanta, dimenticati i sogni di restaurazione del Regno pontificio, cessata l’attesa di castighi divini sui «nemici della Chiesa» e con la sinistra storica al potere, più laicista e anticlericale della destra, in buona parte costituita da massoni, don Bosco non ebbe più occasione di intervenire in ambito di politica ecclesiastica, ma non rinunciò ad avere contatti. Nel 1878 ricevette personalmente dal ministro Crispi l’assicurazione che il governo avrebbe lasciato piena libertà alla Chiesa di procedere al conclave. Con lo stesso statista siciliano discusse di metodi educativi, di carceri minorili e gli inviò un promemoria ispirato ai principi del suo noto sistema preventivo, ma adottabile da istituzioni educative laiche. Operava sempre allo stesso fine: «Tendere a giovare al buon costume e diminuire il numero dei discoli, che abbandonati a se stessi corrono grande pericolo di andare a popolare le prigioni. Istruire costoro, avviarli al lavoro, provvederne i mezzi, e dove sia necessità, anche ricoverarli, nulla risparmiare per impedirne la rovina, anzi farne buoni cristiani ed onesti cittadini, queste opere, dico, non possono non essere rispettate, anzi desiderate da qualsiasi governo, da qualsiasi politica». Nel 1900 il celebre criminologo Cesare Lombroso gli avrebbe dato ragione: «Gli istituti salesiani rappresentano uno sforzo colossale e genialmente organizzato per prevenire il delitto, l’unico anzi che si sia fatto in Italia».
Francesco Motto, direttore dell'Istituto Storico Salesiano

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mercoledì 2 dicembre 2009

VIVERE D'AMORE

Guglielmo di Saint-Thierry,il «Dottore della Dolcezza»
Cari fratelli e sorelle,in una precedente Catechesi ho presentato la figura di Bernardo di Chiaravalle, il "Dottore della dolcezza", grande protagonista del secolo dodicesimo. Il suo biografo – amico ed estimatore – fu Guglielmo di Saint-Thierry, sul quale mi soffermo nella riflessione di questa mattina. Guglielmo nacque a Liegi tra il 1075 e il 1080. Di nobile famiglia, dotato di un’intelligenza viva e di un innato amore per lo studio, frequentò famose scuole dell’epoca, come quelle della sua città natale e di Reims, in Francia. Entrò in contatto personale anche con Abelardo, il maestro che applicava la filosofia alla teologia in modo così originale da suscitare molte perplessità e opposizioni. Anche Guglielmo espresse le proprie riserve, sollecitando il suo amico Bernardo a prendere posizione nei confronti di Abelardo. Rispondendo a quel misterioso e irresistibile appello di Dio, che è la vocazione alla vita consacrata, Guglielmo entrò nel monastero benedettino di Saint-Nicaise di Reims nel 1113, e qualche anno dopo divenne abate del monastero di Saint-Thierry, in diocesi di Reims. In quel periodo era molto diffusa l’esigenza di purificare e rinnovare la vita monastica, per renderla autenticamente evangelica. Guglielmo operò in questo senso all’interno del proprio monastero, e in genere nell’Ordine benedettino. Tuttavia incontrò non poche resistenze di fronte ai suoi tentativi di riforma, e così, nonostante il consiglio contrario dell’amico Bernardo, nel 1135, lasciò l’abbazia benedettina, smise l’abito nero e indossò quello bianco, per unirsi ai cistercensi di Signy. Da quel momento fino alla morte, avvenuta nel 1148, si dedicò alla contemplazione orante dei misteri di Dio, da sempre oggetto dei suoi più profondi desideri, e alla composizione di scritti di letteratura spirituale, importanti nella storia della teologia monastica.Una delle sue prime opere è intitolata De natura et dignitate amoris (La natura e la dignità dell’amore). Vi è espressa una delle idee fondamentali di Guglielmo, valida anche per noi. L’energia principale che muove l’animo umano - egli dice - è l’amore. La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell’amare. In definitiva, un solo compito è affidato a ogni essere umano: imparare a voler bene, ad amare, sinceramente, autenticamente, gratuitamente. Ma solo alla scuola di Dio questo compito viene assolto e l’uomo può raggiungere il fine per cui è stato creato. Scrive infatti Guglielmo: "L’arte delle arti è l’arte dell’amore… L’amore è suscitato dal Creatore della natura. L’amore è una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio" (La natura e la dignità dell’amore 1, PL 184,379). Imparare ad amare richiede un lungo e impegnativo cammino, che è articolato da Guglielmo in quattro tappe, corrispondenti alle età dell’uomo: l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. In questo itinerario la persona deve imporsi un’ascesi efficace, un forte controllo di sé per eliminare ogni affetto disordinato, ogni cedimento all’egoismo, e unificare la propria vita in Dio, sorgente, mèta e forza dell’amore, fino a giungere al vertice della vita spirituale, che Guglielmo definisce come "sapienza". A conclusione di questo itinerario ascetico, si sperimenta una grande serenità e dolcezza. Tutte le facoltà dell’uomo - intelligenza, volontà, affetti - riposano in Dio, conosciuto e amato in Cristo.Anche in altre opere, Guglielmo parla di questa radicale vocazione all’amore per Dio, che costituisce il segreto di una vita riuscita e felice, e che egli descrive come un desiderio incessante e crescente, ispirato da Dio stesso nel cuore dell’uomo. In una meditazione egli dice che l’oggetto di questo amore è l’Amore con la "A" maiuscola, cioè Dio. È lui che si riversa nel cuore di chi ama, e lo rende atto a riceverlo. Si dona a sazietà e in modo tale, che di questa sazietà il desiderio non viene mai meno. Questo slancio d’amore è il compimento dell’uomo" (De contemplando Deo 6, passim, SC 61bis, pp. 79-83). Colpisce il fatto che Guglielmo, nel parlare dell’amore a Dio attribuisca una notevole importanza alla dimensione affettiva. In fondo, cari amici, il nostro cuore è fatto di carne, e quando amiamo Dio, che è l’Amore stesso, come non esprimere in questa relazione con il Signore anche i nostri umanissimi sentimenti, come la tenerezza, la sensibilità, la delicatezza? Il Signore stesso, facendosi uomo, ha voluto amarci con un cuore di carne!Secondo Guglielmo, poi, l’amore ha un’altra proprietà importante: illumina l’intelligenza e permette di conoscere meglio e in modo profondo Dio e, in Dio, le persone e gli avvenimenti. La conoscenza che procede dai sensi e dall’intelligenza riduce, ma non elimina, la distanza tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e il tu. L’amore invece produce attrazione e comunione, fino al punto che vi è una trasformazione e un’assimilazione tra il soggetto che ama e l’oggetto amato. Questa reciprocità di affetto e di simpatia permette allora una conoscenza molto più profonda di quella operata dalla sola ragione. Si spiega così una celebre espressione di Guglielmo: "Amor ipse intellectus est - già in se stesso l’amore è principio di conoscenza". Cari amici, ci domandiamo: non è proprio così nella nostra vita? Non è forse vero che noi conosciamo realmente solo chi e ciò che amiamo? Senza una certa simpatia non si conosce nessuno e niente! E questo vale anzitutto nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri, che superano la capacità di comprensione della nostra intelligenza: Dio lo si conosce se lo si ama!Una sintesi del pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry è contenuta in una lunga lettera indirizzata ai Certosini di Mont-Dieu, presso i quali egli si era recato in visita e che volle incoraggiare e consolare. Il dotto benedettino Jean Mabillon già nel 1690 diede a questa lettera un titolo significativo: Epistola aurea (Lettera d’oro). In effetti, gli insegnamenti sulla vita spirituale in essa contenuti sono preziosi per tutti coloro che desiderano crescere nella comunione con Dio, nella santità. In questo trattato Guglielmo propone un itinerario in tre tappe. Occorre - egli dice - passare dall’uomo "animale" a quello "razionale", per approdare a quello "spirituale". Che cosa intende dire il nostro autore con queste tre espressioni? All’inizio una persona accetta la visione della vita ispirata dalla fede con un atto di obbedienza e di fiducia. Poi con un processo di interiorizzazione, nel quale la ragione e la volontà giocano un grande ruolo, la fede in Cristo è accolta con profonda convinzione e si sperimenta un’armoniosa corrispondenza tra ciò che si crede e si spera e le aspirazioni più segrete dell’anima, la nostra ragione, i nostri affetti. Si giunge così alla perfezione della vita spirituale, quando le realtà della fede sono fonte di intima gioia e di comunione reale e appagante con Dio. Si vive solo nell’amore e per amore. Guglielmo fonda questo itinerario su una solida visione dell’uomo, ispirata agli antichi Padri greci, soprattutto ad Origene, i quali, con un linguaggio audace, avevano insegnato che la vocazione dell’uomo è diventare come Dio, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. L’immagine di Dio presente nell’uomo lo spinge verso la somiglianza, cioè verso un’identità sempre più piena tra la propria volontà e quella divina. A questa perfezione, che Guglielmo chiama "unità di spirito", non si giunge con lo sforzo personale, sia pure sincero e generoso, perché è necessaria un’altra cosa. Questa perfezione si raggiunge per l’azione dello Spirito Santo, che prende dimora nell’anima e purifica, assorbe e trasforma in carità ogni slancio e ogni desiderio d’amore presente nell’uomo. "Vi è poi un’altra somiglianza con Dio", leggiamo nell’Epistola aurea, "che viene detta non più somiglianza, ma unità di spirito, quando l’uomo diventa uno con Dio, uno spirito, non soltanto per l’unità di un identico volere, ma per non essere in grado di volere altro. In tal modo l’uomo merita di diventare non Dio, ma ciò che Dio è: l’uomo diventa per grazia ciò che Dio è per natura" (Epistola aurea 262-263, SC 223, pp. 353-355).Cari fratelli e sorelle, questo autore, che potremmo definire il "Cantore dell’amore, della carità", ci insegna ad operare nella nostra vita la scelta di fondo, che dà senso e valore a tutte le altre scelte: amare Dio e, per amore suo, amare il nostro prossimo; solo così potremo incontrare la vera gioia, anticipo della beatitudine eterna. Mettiamoci quindi alla scuola dei Santi per imparare ad amare in modo autentico e totale, per entrare in questo itinerario del nostro essere. Con una giovane santa, Dottore della Chiesa, Teresa di Gesù Bambino, diciamo anche noi al Signore che vogliamo vivere d’amore. E concludo proprio con una preghiera di questa Santa: "Io ti amo, e tu lo sai, divino Gesù! Lo Spirito d'amore mi incendia col suo fuoco. Amando Te attiro il Padre, che il mio debole cuore conserva, senza scampo. O Trinità! Sei prigioniera del mio amore. Vivere d'amore, quaggiù, è un darsi smisurato, senza chiedere salario … quando si ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al Cuore divino, che trabocca di tenerezza! E corro leggermente. Non ho più nulla, e la mia sola ricchezza è vivere d'amore".

PAPA BENEDETTO XVI
DA AVVENIRE

martedì 10 novembre 2009

MORO UNA TRAGEDIA INFINITA

10 Novembre 2009
IL CASO
Moro, ecco la verità su Zaccagnini e Paolo VI
L’allora segretario della Dc e il Pontefice erano disposti a fare «tutto il possibile» per il leader sequestrato dalle Br. Senza debolezze.

Venti anni dalla sua morte… Conobbi Benigno Zaccagnini la sera del 17 o 18 marzo 1978, subito dopo il rapimento di Moro e la strage di via Fani. Elio ed Ettorina Brigante, sorella di sua moglie Anna, che lo ospitavano nella loro casa di via della Camilluccia, mi chiesero per telefono se potevo dare un 'sostegno spirituale' a Benigno. Da quella sera spessissimo, anche fino a notte tarda, gli sono stato vicino nel tempo di quei 53 giorni di un dolore che per lui durò altri 11 anni, fino alla morte, 5 novembre 1989. L’ho visto pensare, soffrire, piangere e pregare fino alla sera dei funerali di Moro. Ebbene: ancora oggi, nelle Commemorazioni anche solenni come quella a Montecitorio e nei libri a lui dedicati con belle parole sull’uomo, sul politico e sul testimone di 'laicità' cristiana ­magari un po’ adattata alle circostanze di oggi - c’è sempre un vuoto, e su quei 53 giorni si scivola via tra pudore e timore, come fosse meglio non parlarne. Aleggia come l’ombra di una 'omissione' - ci hanno fatto anche libri! - con sottintesa un’accusa che tocca non solo Zaccagnini, ma con lui anche Paolo VI. Già: nelle Lettere di Moro si leggono cose dure verso Zaccagnini, ma anche verso Paolo VI, che «ha fatto pochino, forse ne avrà scrupolo». E nessuno ricorda che Moro aveva informazioni solo dai carnefici, che forse nulla gli dicevano della realtà in cui proprio Paolo VI le provò tutte, in Italia e all’estero, presso organismi internazionali, Croce Rossa, Amnesty e Onu, e fece raccogliere una grande somma, nel caso servisse. A metà aprile di quel 1978 Civiltà Cattolica (bozze sempre viste in Segreteria di Stato) scrisse che ­salvo trattare alla pari tra Stato e Br - si doveva fare tutto il possibile per liberare Moro: tutto… In quei giorni e in quelle notti ho visto anche Zaccagnini deciso a fare questo tutto possibile, ma salvo tentativi di sciacallaggio politico non si aprì alcuna via per salvare il suo amico e guida, colui che solo lo aveva convinto ad accettare la Segreteria della Dc. La sua frase drammatica ripetuta tante volte fu questa: «Se ci fosse uno spiraglio!». Lo spiraglio non ci fu mai, e anzi Moro fu ucciso proprio la mattina del 9 maggio, quando uno parve potersi aprire. Lui del resto non aveva concesso nulla: diventato un ingombro, doveva morire. Ebbene: dopo Moro e la sua famiglia, dopo gli uomini della scorta e le loro famiglie, prime vittime di quel dramma furono proprio loro due, Benigno Zaccagnini e Paolo VI. Seguii da vicino quel dramma anche in altro modo. Ero in quotidiano contatto - e Zac lo sapeva - con monsignor Cesare Curioni, allora storico cappellano a San Vittore e poi ispettore generale dei cappellani di tutte le carceri italiane, che per conto del Papa provò tante altre strade, anche parlando con Renato Curcio e Alberto Franceschini, Br allora processati a Torino, che a lui si dissero del tutto estranei alla vicenda. Fu Curioni, tra l’altro, a scrivere di notte e sotto dettatura del Papa, presente monsignor Macchi, la prima bozza rivolta agli «Uomini delle Brigate Rosse». Per ragioni varie allora ero in contatto anche con Tonino Tatò, segretario di Enrico Berlinguer, e anch’essi sapevano. La 'strategia della fermezza' ­giudizio informato, e non col senno di poi - non fu scelta feroce imposta a Zac dal ferreo Pci, ma obbligo di una realtà senza alternativa, dolorosissimo per Zaccagnini e per Paolo VI. Falsa quindi la 'vulgata' del Pci che comandava con gelida fermezza, di Zaccagnini che obbediva tremebondo e impotente e del Papa e del Vaticano che si limitarono a preghiere e lamenti opponendosi ad ogni concessione: ingiuria senza fondamento, anche se aleggia nelle commemorazioni e in omissioni di recenti libri. Uno Zaccagnini passivo e poco energico? Eppure - lo ha scritto anche Enzo Biagi, mai smentito ­egli stesso mi disse che se quel 16 marzo le Br non avessero rapito Aldo Moro, dopo l’approvazione del nuovo governo egli si sarebbe dimesso da segretario: non condivideva alcune nomine di ministri fatte a sua insaputa. Poco energico? La sera dei funerali di Moro nella chiesa di Cristo Re vietata agli uomini della Dc dalla famiglia, in casa Brigante ci fu un’altra messa di requiem, e arrivò una telefonata di Fanfani: chiedeva al segretario il permesso di partecipare, eccezione personale, alle esequie. La risposta di Benigno fu forte e secca: «No! Sei libero, ma se vai ti denuncio ai probiviri e ti faccio espellere dal partito!». Ultimo: qualche settimana dopo, nei giorni delle votazioni per il nuovo presidente della Repubblica, Benigno mi dice al telefono che è addolorato perché gli uomini della Dc, Piccoli e altri, non vogliono votare Pertini come presidente. Chiedo se a suo parere la scelta di Pertini è giusta e opportuna. Mi risponde che è anziano, talora irruento e imprevedibile, ma galantuomo e pulito. Allora ripenso alla sua confidenza sulle dimissioni: «Chiama i tuoi 'amici' e di’ loro che se domani non votano Pertini tu ti dimetti!». Il giorno dopo Sandro Pertini fu eletto presidente della Repubblica. Il mite Zac aveva fatto la sua parte: come sempre.
Gianni Gennari

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venerdì 6 novembre 2009

LA LIBERTA' DELLA CROCE DI CRISTO...

La Croce in quanto vessillo di cultura e di vittoria; di trionfo dell'Amore sull'Odio e sul Male; di speranza e fede su ogni

disperazione e negazione gratuita o pessimista; di fraternità universale contro ogni rigurgito etnico, o nazionalista o ideologico,

sempre in agguato e mai del tutto sconfitti, in ogni parte della terra; la Croce, quale dimensione umana più universale, alla

quale nessuno può scampare, tantomeno i pagani, tantomeno i non cristiani; la Croce quale formidabile arma, contro ogni

miseria materiale e specialmente spirituale.



E qui non si può fare a meno di ricordare a titolo di esempio, le parole della comunista e atea Natalia Ginzburg; la quale pur

comunista e atea, ciononostante indipendentemente dalla fede in Dio che più non aveva, fu pure un esempio di laica colta e

intelligente.



E ciò possiamo dire, perché malgrado i suoi limiti ideologici, ma con la forza della sola tradizione culturale, dimostrò esser

capace di leggere persino il senso più intimo della nostra stessa cultura (capacità che dovrebbero avere tutti i laici veri, senza

degradarsi a laicisti), onde priva di dubbio, poteva dire già nel 1988:



A me dispiace che il Crocifisso scompaia per sempre da tutte le classi. Mi sembra una perdita. Tutte o quasi tutte le persone che

conosco dicono che va tolto. A me dispiace che il Crocifisso scompaia. Se fossi un insegnante, vorrei che nella mia classe non

venisse toccato… Il Crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E' l'immagine della rivoluzione cristiana, che ha

sparso per il mondo l'idea dell'uguaglianza fra gli uomini fino allora assente… Il Crocifisso è segno del dolore umano. La corona

di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze… Fa parte della storia del mondo… Prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli

uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui

aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà tra gli uomini… A me sembra bene che i ragazzi,

i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola. Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle

spalle il peso di una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici perché troppo forte

e da troppi secoli è impressa l'idea della croce nel nostro pensiero. Tutti, cattolici e laici portiamo o porteremo il peso d'una

sventura, versando sangue e lacrime cercando di non crollare. Questo dice il Crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici .



[Natalia Ginzburg (1916-1991) il 25 marzo 1988 ha scritto sul quotidiano L'Unità, un articolo dal titolo "Non togliete quel

Crocifisso" . Un commento su questo tema e articolo, è apparso su CulturaCattolica.it nel 2003 a cura di Vitaliano Mattioli ].


1 : Cosi come l’Italia e la Germania nazi-fasciste avevano in loro un germe di autodistruzione, similmente l’Europa odierna ha in sé stessa un più profondo e pericoloso focolaio di autodistruzione… .

________






APPENDICE DOCUMENTARIA



Da: http://www.avvenire.it/


Crocifissi, Bertone:

«L'Europa ci lascia solo le zucche»

"Io dico che questa Europa del terzo millennio ci lascia solo le zucche delle feste recentemente ripetute e ci toglie i simboli più cari. Questa è veramente una perdita": lo ha detto il segretario di Stato vaticano, card. Tarcisio Bertone a proposito dela sentenza di Strasburgo. "La nostra reazione - ha aggiunto - non può che essere di deplorazione" e "ora dobbiamo cercare con tutte le forze di conservare i segni della nostra fede per chi crede e per chi non crede".

"Abbiamo ascoltato tante voci - ha affermato il porporato - e anche l'eco del dolore di chi si sente un pò tradito nelle sue proprie radici pensando che questo simbolo religioso è simbolo di amore universale, non di esclusione ma di accoglienza. Questo credo che sia l'esperienza di tutti".

"Io dico purtroppo - ha aggiunto Bertone che ha preso parte a una conferenza stampa presso l'ospedale Bambin Gesù - che questa Europa del terzo millennio ci lascia solo le zucche delle feste recentemente ripetute prima del primo novembre e ci toglie i simboli più cari". Secondo il porporato inoltre "tutte le nostre città, le nostre strade, le nostre case, le scuole" presentano simboli religiosi come il crocifisso e dunque, ha chiesto, "dobbiamo togliere tutti i crocifissi? Penso a tutte le opere d'arte che presentano il crocifisso e la Pietà, mi domando se questo è un segno di ragionevolezza oppure no". Il segretario si Stato ha poi detto ai giornalisti di non aver ancora sentito l'opinione del Papa sul tema. "Lo vedrò domani", ha affermato. LA SENTENZA DELLA CORTEGianluca Cazzaniga

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha emesso ieri una sentenza provvisoria contro l’Italia per la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche, giudicata una violazione sia della libertà religiosa dei bambini che del diritto dei genitori di educare i loro figli alla luce delle loro convinzioni religiose. A parere della Corte di Strasburgo l’Italia ha violato l’articolo 2, protocollo 1 (diritto all’istruzione) e l’articolo 9 (libertà di pensiero, di coscienza, di religione) della Convenzione per i diritti dell’uomo. I giudici della Corte avevano già emesso alcune sentenze in materia di diritto all’educazione e di libertà religiosa, ma questa è la prima che riguarda la presenza dei simboli religiosi nelle scuole. Una camera composta da sette giudici della seconda sezione della Corte, tra cui l’italiano Vladimiro Zagrebelsky, ha condannato all’unanimità il governo italiano a pagare un risarcimento di 5 mila euro per danni morali alla cittadina italiana che ha sollevato il caso. Per ora si tratta di una sentenza provvisoria e il giudice Nicola Lattieri, che difende l’Italia davanti alla Corte di Strasburgo, ha già dichiarato che il governo vuole chiedere il rinvio alla Grande Camera della Corte per riaprire la partita. Se il ricorso del governo non fosse accolto, la sentenza emessa ieri diverrebbe definitiva dopo tre mesi. Quindi spetterebbe al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa decidere, entro sei mesi, quali azioni il governo italiano dovrebbe prendere per non incorrere in ulteriori violazioni legate alla presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche. La vicenda approdata a Strasburgo nasce dalla battaglia giudiziaria avviata anni fa da Soile Lautsi, cittadina italiana di origini finlandesi, sposata con un professionista padovano e madre di due figli. Nel 2002 i due ragazzi frequentavano la scuola media statale "Vittorino da Feltre" di Abano Terme. Nelle aule scolastiche, come succede da secoli in ogni istituto scolastico del nostro Paese, c’era il crocifisso appeso dietro la cattedra.

La signora Lautsi, convinta sulla base di chissà quale teoria, che la presenza del simbolo cristiano in classe fosse contrario a quella laicità a lei tanto cara - o forse si tratta di laicismo – andò a scuola a protestare, invocando un parere della Cassazione del 2000, secondo cui la presenza dei crocifissi nelle cabine elettorali sarebbe contrario al principio della laicità dello Stato. Nel maggio del 2002 il preside della "Vittorino da Feltre" decise di lasciare i crocifissi nelle aule. Un approccio in seguito raccomandato anche da una direttiva del ministero dell’Educazione. Non contenta, la signora Lautsi decise di presentare ricorso al Tar del Veneto, che nel gennaio del 2004 rinviò il caso alla Corte costituzionale per stabilire se la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche fosse conforme o meno ai principi sanciti nella Costituzione italiana. Nel marzo del 2005 l’Alta corte rigettò le istanze sollevate dalla caparbia italo-finlandese, giudicando che il crocifisso è sia il simbolo della storia e della cultura italiana e, quindi, della stessa identità nazionale; sia il simbolo dei principi di uguaglianza, libertà, tolleranza. Nonché della laicità dello Stato. Anche il Consiglio di Stato, nel febbraio del 2006, respinse il ricorso presentato da Soile Lautsi. Ieri, invece, ignorando completamente i pronunciamenti dei giudici italiani, la Corte di Strasburgo ha dato ragione alla signora Lautsi. «La presenza del crocifisso, che è impossibile non notare nelle aule scolastiche, potrebbe essere facilmente interpretata dagli alunni di ogni età come un simbolo religioso», si legge nel comunicato diffuso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. «Questo potrebbe essere incoraggiante per gli alunni religiosi, ma allo stesso tempo potrebbe disturbare gli alunni atei o quelli che praticassero altre religioni, specialmente se appartenessero a minoranze».

I giudici (tra cui l'italiano Zagrebelsky). I sette giudici autori della sentenza sono: Francoise Tulkens (Belgio, presidente), Vladimiro Zagrebelsky (Italia), Ireneu Cabral Barreto (Portogallo), Danute Jociene (Lituania), Dragoljub Popovic (Serbia), Andras Sajò (Ungheria), e Isil Karakas (Turchia).

BY METOZZI ORLANDO

giovedì 5 novembre 2009

La storia non è finita

Taylor: «La storia non è finita»
Il rifiuto delle «storie della sottrazione» è uno dei lati dell’intuizione secondo cui gli esseri umani «costruiscono» nuove identità, nuovi immaginari e concezioni della loro posizione nel cosmo e nella storia. Le virgolette alla nozione di «costruzione» intendono segnalare che questo non è qualcosa che facciamo in modo deliberato e controllato. Noi siamo più come sonnambuli, che sono trasportati fra differenti costruzioni. Vale a dire: vi è certo qualche elemento di intenzionalità (siamo catturati da nuove idee morali e religiose, come quella della sola fide), ma vi sono anche una gran quantità di conseguenze non volute. Nemmeno intendo dire con «costruzione» che i mutamenti non corrispondano a nulla nella realtà, che siano completamente arbitrari. Tutto questo fa forse di «costruzione» un termine inadatto, ma non ne ho trovato uno migliore. Con esso voglio indicare che un mutamento storico importante non sorge perché semplicemente diffondiamo alcune credenze o alcune delimitazioni concettuali, ma che noi siamo sempre impegnati nella ridefinizione della nostra capacità di agire e stiamo sempre modificando noi stessi. Come parlare di una direzione di cambiamento? Veniamo qui alla questione hegeliana, perché Hegel vede all’opera una direzione di cambiamento che muove la storia (lo spirito si dipana, la ragione realizza compiutamente se stessa). Ho detto che non ritengo che i cambiamenti siano puramente arbitrari. Se qualcosa come la dottrina della sola fide ha potuto avere un tale grande impatto sulla storia, essa deve corrispondere a qualcosa di importante nella condizione umana, qualcosa a cui l’adozione di questa dottrina rispondeva. Impariamo a conoscere la nostra natura osservando che cosa è accaduto nella storia. Fin qui, la prospettiva è hegeliana. Tuttavia, dove Hegel sbaglia è nell’assumere che vi sia una sola direzione di cambiamento, che vi sia cioè una sola linea di sviluppo che ci trascina in avanti. Chiaramente, invece, la storia ci mostra che non è così. Ci sono larghe analogie fra i potenti itinerari di cambiamento che osserviamo nelle diverse civiltà, ma non possono essere tutte ricondotte a un’unica linea di sviluppo. Prendiamo ad esempio il periodo assiale. Jaspers ha ragione nel sostenere che qui sia accaduto qualcosa di importante: un certo senso di trascendenza o di un bene più alto si presenta in diverse civiltà evolute. Queste hanno poi un enorme potere di trascinamento su coloro che vivono ai margini di queste civiltà. Tuttavia, è molto arduo mettere in luce quale sia l’elemento comune qui, per esempio fra i profeti ebraici, i filosofi greci, il Buddha e Confucio. Queste nuove aperture non possono essere messe a confronto lungo un asse che va da quelle che riflettono realmente il cambiamento storico e quelle che lo riflettono solo imperfettamente o solo in prima approssimazione. Questo tipo di gerarchia riflette la ristrettezza di pensiero e l’arroganza dell’Occidente e Hegel ne era soggiogato (non siamo però moralistici, era arduo non vederla così in Europa a quel tempo). In altri termini, è vero sia che certi sviluppi storici possono essere visti come il dipanarsi di un importante potenziale umano (e qui siamo certamente in territorio hegeliano), sia che la tavolozza di questi sviluppi è piuttosto ampia e non può essere ristretta in anticipo (e qui rompiamo con Hegel). Certamente c’è spazio per ulteriori sorprese. Dovremmo anche aggiungere che queste dinamiche, benché corrispondano a un importante potenziale, quasi sempre comportano la perdita di altri potenziali umani. Per esempio, il «disincanto» del mondo non consiste solo nel nostro perdere alcune credenze bizzarre e improbabili sulle reliquie o sugli spiriti del bosco; esso consiste anche nel nostro sviluppare un nuovo modo di stare al mondo come «sé compressi» ( buffered selves); e questo significa la perdita di un certo tipo di sensibilità. Così, Hegel ha ragione nel sostenere che a) certi cambiamenti sono la realizzazione di importanti potenziali, ma egli ha torto b) perché non vi è un’unica direzione per tali cambiamenti. Vi sono piuttosto forme rivali o analoghe, per indicare le quali fatichiamo a trovare un termine generale, come con le rivoluzioni del periodo assiale. Inoltre, Hegel ha torto c) per il fatto che questi mutamenti comportano perdite e guadagni e spesso ci mettono di fronte a profondi dilemmi. La storia umana sembra orientata verso l’uniformità, perché alcuni sviluppi conferiscono un grande potere economico e militare alle società che li adottano. Questo costringe altre società a sviluppare almeno degli equivalenti funzionali, se non vogliono essere sottomesse. Tuttavia, questi equivalenti funzionali devono essere sviluppati a partire dalle risorse culturali disponibili alle società stesse, cosicché noi abbiamo non una sola modernità, ma modernità multiple. Penso che la «postmodernità» sia soltanto la continuazione di certe tendenze della modernità. La modernità stessa è sempre stata qualcosa con cui abbiamo lottato, perché include nuove concezioni dell’ordine (come l’ordine morale moderno) e varie forme di ribellione contro queste ultime. Entrambe queste istanze contengono una parte di verità, dal mio punto di vista. Abbiamo bisogno di una qualche versione dell’ordine morale moderno per vivere vite decenti, in cui certe forme di barbarie umana, di disuguaglianza, di sfruttamento possano essere ridotte al minimo; ma non possiamo avere un’adorazione feticistica per questi ordini, o pretendere che essi esauriscano le nostre vite normative. Ciò che sembra assurdo e talvolta ridicolo da questo punto di vista è la inesorabile «seriosità» ( sérieux) di questa lotta fra coloro che credono in un ordine assoluto e coloro che vogliono rifiutare qualsiasi ordine. Entrambe le posizioni sono ugualmente insostenibili ed è doloroso vedere tanta energia, anche fra le menti migliori, dispersa in questa inutile battaglia.
Charles Taylor

mercoledì 21 ottobre 2009

Quella povertà mortale

21 Ottobre 2009
Il piccolo Elvis, la sua e nostra Napoli, l'assedio di antichi e nuovi mali
Morire di povertà là dove di povertà si vive
Elvis, 6 anni, da Capo Verde, è venuto a morire di povertà a Napoli. Non c’è luogo più atroce per morire di stenti perché a Napoli, per antica consuetudine, di povertà, piuttosto, si vive. I «bassi» dove Elvis viveva con la mamma, hanno la porta che s’affaccia sui vicoli ma, più ancora, sulla vita: come a guardarla meglio in faccia e ad affrontarla giorno dopo giorno con i mezzi che anche chi sbarca da altri mondi di privazione, impara presto a conoscere. Nei «bassi» si sta stretti; anche una piccola famiglia di madre e figlio finisce per avere poco spazio, perché c’è sempre da far posto a un inquilino che si chiama povertà. E a un inquilino così, non sempre bastano i tributi ordinari, né accade spesso che si lasci intenerire da quella rete di mutuo soccorso sempre all’opera, una forma di solidarietà corrente e minuta, che attraversa i vicoli e li anima molto più della sporadica luce del sole. Anche la povertà mostra di essere diventata più esigente. È uscita dai «bassi» e, non solo a Napoli, si è mossa alla conquista di spazi più vasti, e, un tempo, inesplorati. Gli uffici studi la seguono, passo su passo, su mappe di carta. Ma chi la vede avvicinarsi alla sua porta ha imparato a distinguerla da lontano, e a temerne i segni: ciò che, forse, non poteva fare mamma Manuela, lei che la povertà l’aveva già in casa e riusciva, in qualche modo a domarla. Proprio Elvis, il trovarsi a suo agio tra i compagni nel vicolo, e la cartella della scuola sempre in ordine, era il segno semmai opposto di una timida e scarna agiatezza che mai – sembrava – potesse essere scalfita da una bolletta della luce arrivata in ritardo. Anche la soglia di povertà, come del resto quella della ricchezza, ha parametri suoi, e quel braciere di carbonella, che nei bassi è stato sempre usato come un utensile di casa, ha finito per bruciare più che dare calore a una vita. Una tale forma di povertà non estrema non fa che rendere ancora più insopportabile questa morte che è riuscita a insinuarsi, infida e velenosa, tra varchi sguarniti, dove la povertà riesce a colpire anche attraverso le orme che lascia. Una vita di stenti non equivale sempre a una vita di miseria. E non è detto che dai «bassi» è possibile scorgere solo orizzonti cupi. Ma a sei anni, nel respiro di vita che lo ha accompagnato, a Elvis toccava certo il diritto di non doversi occupare di tutto questo. Aveva, a suo modo, già imparato a guardare avanti. A scuola era bravo e anche simpatico, e i suoi compagni andavano a cercarlo, quando non lo vedevano. Non poteva sapere di quel respiro di vita già insidiato dai residui di una povertà tenace e caparbia che è arrivata a inseguirlo da un capo all’altro del mondo. Con tutti i suoi drammi e le sue continue emergenze, anche Napoli, nel vasto panorama dei disagi nel mondo, può risultare un approdo. Ma proprio qui, nelle quinte nascoste di una città che, facendo scudo ai suoi poveri, cerca di salvare anche se stessa, Elvis si è visto atrocemente chiedere il conto. Ha dato i suoi pochi anni, ma ha lasciato scorgere quanto grandi fossero le sue speranze. E Napoli lascia intuire quando il suo cuore resta ferito. La morte di Elvis, e il dramma della mamma, in lotta per la vita, non sono entrati a far parte di una sua cronaca ordinaria. C’entra, ma non spiega tutto, neppure il sentimento di protezione per i bambini. Il dramma di Elvis è, in tutti i sensi, anche il dramma di una città che, pur assediata dai suoi mali antichi, non può fare a meno di guardarsi intorno per scorgere anche l’insidia dei nuovi. Anche la povertà cambia pelle. Ed è un braciere sempre acceso.
Angelo Scelzo da avvenire

lunedì 12 ottobre 2009

anche mussolini è stato una spia

06/10/2009 di alessio altichieri - corriere della sera
Le cento sterline che Mussolini intascava dalla "perfida Albione"
Scritto da: Alessio Altichieri alle 22:47
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Cento sterline. Cento sterline alla settimana. Per quasi un anno Benito Mussolini, nel 1917, fu stipendiato dai servizi segreti britannici. Sorprendente, forse, per l’uomo che molti anni dopo avrebbe dichiarato guerra alla “perfida Albione”. Ma la politica è spregiudicata, sicché non bisogna meravigliarsi che gl’inglesi, più tardi “stramaledetti” dal fascismo, fossero alleati preziosi in una stagione precedente. Stupisce piuttosto, e qui sta la novità, l’esiguità della somma: cento sterline, il prezzo con cui l’intelligence britannica si comprò la fedeltà di Mussolini, non erano molti soldi nemmeno a quel tempo. “In genere, rivalutiamo per sessanta: perciò, possiamo stimare quella sovvenzione in seimila sterline d’oggi”, dice Peter Martland, professore di storia moderna all’Università di Cambridge. Neppure 5.500 euro al cambio odierno, quindi, per fare una politica, certo congeniale a Mussolini, che era vitale per la Gran Bretagna in guerra contro gl’Imperi Centrali. “Fu un vero affare, perché ormai il conflitto sembrava perso”, osserva Martland. Possibile che con quelle cento sterline si sia cambiato il corso della storia europea? “Comunque, se avesse vinto la Germania, non saremmo qui a parlarne”, commenta lo storico.Vediamo. Nell’autunno del 1917 le sorti della Grande Guerra sono appese a un filo. La Russia rivoluzionaria ha sospeso i combattimenti contro la Germania, l’Italia ha subito la rotta di Caporetto. La situazione è disperata. Se anche l’Italia dovesse abbandonare il conflitto, solo Francia e Gran Bretagna resterebbero a opporsi a Germania e Austria. Londra deve fare di tutto per garantire che l’Italia non receda dall’alleanza: “C’era il timore che il governo italiano dopo Caporetto dovesse fronteggiare rivolte, ondate pacifiste”, riassume Martland. Ma i britannici avevano a Roma un uomo di prim’ordine, il tenente colonnello Samuel Hoare, dell’intelligence militare, il quale aveva organizzato una rete di un centinaio di agenti che agivano per la Gran Bretagna. Riferiscono sul morale della nazione, sulla condizione delle banche, sul contrabbando di oro e valuta verso la Svizzera che, come sempre nella storia italiana, aumenta nei momenti di grave crisi. Qualcuno consiglia a Hoare di avvicinare il giornalista Benito Mussolini che, cacciato dall’”Avanti!” e dal partito socialista per la sua linea interventista, sostiene ora la politica con un nuovo giornale, “Il Popolo d’Italia”. Hoare acconsente e, conosciuto Mussolini, fa di più: propone una sovvenzione per la testata.Il suo capo a Londra, Sir George Macdonagh, tentenna. “Hoare lo convince, dicendo che, se la sovvenzione è negata, è pronto a pagare di tasca propria”, spiega Martland. E si fa l’accordo: cento sterline alla settimana. Ricorderà molti anni più tardi, nel 1954, Hoare, ormai divenuto Lord Templewood, nelle sue memorie: “’Lasci fare a me’, fu la risposta che Mussolini mandò attraverso il mio intermediario: ‘Mobiliterò i mutilati di Milano, che spaccheranno la testa a ogni pacifista che tentasse di tenere una manifestazione di strada contro la guerra’. E fu di parola, i fasci neutralizzarono davvero i pacifisti milanesi”, concluse Hoare - sorvolando, da signore, sulle cifre. Naturalmente, non è che Mussolini abbia salvato le sorti dell’Italia e della guerra, ma anche il suo interventismo, fino al Piave e al riordinamento dell’esercito italiano sbandato, servì alla causa britannica. “L’investimento rese, anche se non so se Mussolini usasse i soldi per il giornale: viste le sue inclinazioni, ritengo probabile che abbia speso quei soldi per le sue amiche”, dice Martland, che fa due conti: “Era buon prezzo, se si pensa che la guerra all’epoca costava alla Gran Bretagna quattro milioni di sterline al giorno”. La storia è abbastanza nota, molto meno era l’entità del compenso, almeno fino a pochi giorni fa, quando è stata presentato a Londra un volume di mille pagine, la storia del Security Service, cioè il controspionaggio britannico, comunemente chiamato Mi5. Con il titolo“The Defence of the Realm”, che riprende il motto del servizio, “Regnum Defende”, è stata scritta da Christopher Andrew, già autore del celebre “Archivio Mitrokhin” che fece tanto scalpore dieci anni fa, e celebra in modo assolutamente originale (non era mai successo che un servizio segreto di tale importanza pubblicasse la propria “storia autorizzata”) il primo secolo di vita del Mi5, che nel 1917 includeva anche le operazioni all’estero, e naturalmente l’intelligence militare. Andrew, per svolgere il compito immane di consultare 400 mila files, s’è avvalso dell’aiuto di Martland, che proprio a Cambridge aveva a disposizione l’archivio Templewood, un altro forziere di documenti. E lì, spulciando le carte, Martland ha trovato la cifra del compenso britannico a Mussolini, le cento sterline. “Non credo che il dettaglio sia mai stato pubblicato: l’archivio Templewood è disponibile a chiunque, ma bisognava metterci il naso”.Pur di battere la Germania, andava bene anche l’aiuto di un Mussolini: d’altronde, perfino Winston Churchill disse che, pur di trovare alleati contro Hitler, sarebbe stato pronto ad andare all’inferno ad accordarsi con il diavolo. Oggi, con sano patriottismo, sia Andrew che Martland sottolineano l’opera meritoria per la difesa del regno svolta in cent’anni dal Security Service – e dai suoi agenti. “Hoare a Roma aveva antenne sensibili: fu il primo a capire, già allora, che il capo della corrente filo-tedesca in Vaticano era il futuro papa, l’arcivescovo Eugenio Pacelli, nunzio a Monaco di Baviera”. E lo stesso Hoare, per coincidenza, avrà ancora un rapporto privilegiato con Mussolini vent’anni dopo, quando sarà diventato Foreign Secretary, cioè ministro degli Esteri, e dovrà confrontarsi con quello che era ormai il Duce del fascismo, lanciato nell’avventura coloniale. Con il suo omologo francese, Pierre Laval, Hoare firmerà un patto per consentire all’Italia di sottomettere l’Abissinia e lasciare all’Etiopia lo sbocco al mare che il “Times”ridicolizzerà come “un corridoio per i cammelli”. Era l’inizio della politica dell’”appeasement” verso il nazifascismo che, fino alla seconda guerra mondiale, illuderà il governo Chamberlain. Ma questa è un’altra storia.(“The Defence of the Realm: The Autorized History of MI5”, di Christopher Andrew, è pubblicato da Allen Lane, 1032 pagine, 30 sterline. Nelle foto, dall’alto: Benito Mussolini davanti a una statua che lo ritrae; i bersaglieri nella battaglia di Caporetto, secondo una "Domenica del Corriere" del novembre 1917; Thames House, la sede del Mi5 a Londra; il logo del Security Service; "Profilo continuo - Testa di Benito Mussolini", di Renato Giuseppe Bertelli, terracotta smaltata, 1933; gli agenti del Mi5 sono protagonisti di una serie di successo della Bbc, "Spooks").

giovedì 8 ottobre 2009

stranieri: ricchezza o delinquenti?

Immigrati cioè criminali?Esagerato, ecco i dati
Immigrato uguale delinquente. Non sem­pre, ma spesso. Perché l'arrivo di tanti stranieri avrebbe fatto schizzare il nu­mero dei reati. Ma è proprio così? Numeri al­la mano, lo staff scientifico del Dossier im­migrazione Caritas- Migrantes, in collabora­zione con l'agenzia Redattore sociale, dimo­stra l'inconsistenza di un approccio frutto di approssimazione, luoghi comuni, se non di precise strategie politico- mediatiche. Lo studio su La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi parte dal ri­sultato di molte indagini sociologiche: per 6 italiani su 10 gli immigrati hanno provocato un aumento del tasso di criminalità, tra loro 5 o 6 volte più alto di quello degli italiani. Fal­so, afferma la ricerca. Il tasso di criminalità degli immigrati regolari è sì più alto di quel­lo degli italiani, ma bisogna considerare le condizioni sociali e normative sfavorevoli. Il tasso di criminalità – il rapporto tra denun­ce contro autori noti e il totale della popola­zione – per gli italiani è dello 0,75%, per gli immigrati regolarmente soggiornanti è 1,24%. Non il quintuplo, dunque. Un dato che si riduce analizzandolo per fasce di età. Gli immigrati sono infatti una popolazione molto giovane. Il 95,5% delle condanne a stranieri è nella fascia 18- 44 anni, mentre i condannati italia­ni 'coetanei' sono il 78,6%. Nella fascia 45- 64 delin­quono invece di più gli ita­liani: il 17,9%, tra gli stra­nieri il 5,3%. « Se anche tra gli italiani i giovani di 18-44 anni fossero il 92,5% del to­tale – afferma la ricerca – le denunce per questa fascia aumenterebbero di più di 200 mila unità. La popolazione ita­liana avrebbe un tasso di criminalità dell' 1,02%, vicino all' 1,24% dei regolari». Obiezione: ma sono gli irregolari e i clande­stini i veri delinquenti. La ricerca ha una ri­sposta anche per questo. Prima una premes­sa è lessicale. Chi non ha le carte in regola per il 64% è irregolare, cioè titolare di un per­messo scaduto, gli overstayers. Il 23% è entrato clandestinamente via terra, solo il 13% via mare. E la portavoce dell'Acnur Laura Bol­drini invita a non generalizzare nemmeno tra questi ultimi, definendoli «clandestini» , vi­sto che il 75% degli sbarcati fa richiesta di a­silo, accolta nella metà dei casi. Senza di­menticare, afferma la Caritas, che 2 dei 4 mi­lioni di immigrati regolari, ieri erano irrego­lari, emersi grazie alle sanatorie. In effetti però tra le persone denun­ciate circa il 75% sono irre­golari. Molti sono crimina­li veri, molti però finisco­no nelle statistiche ( 550.590 reati nel 2005) proprio per infrazioni alla legge sull'immigrazione ( 21.996), o reati minori co­me la riproduzione di cd e film ( 5.294).«La mobilità degli immigrati – spiega l'avvocato Lucio Barletta – fa sì che a volte non vengono informati di procedimenti pe­nali. Così non possono concordare riti ab­breviati o patteggiamenti. La precarietà al­loggiativa poi non permette alternative do­miciliari al carcere». Infine: l'andamento del­le denunce è stabile dal 1991, primo anno dell'era immigrazione. Ma se gli stranieri so­no raddoppiati tra 2001 e 2005, le denunce nei loro confronti sono salite del 45,9%.
Luca Liverani

venerdì 26 giugno 2009

RUANDA, LA VERGOGNA DEI MEDIA

Ruanda, la guerra sporca dei media

In una mano il machete, nell’al­tra una radio a pile. È andata così in Ruanda. Almeno 937 mila persone trucidate nella mat­tanza dei cento giorni. Con la radio statale a fare da colonna sonora di un genocidio che l’Occidente non voleva vedere. «Senza armi da fuo­co, machete o altri oggetti, voi ave­te provocato la morte di migliaia di civili innocenti». Così l’allora giudi­ce Navanathem Pilay introdusse il verdetto nel processo internazio­nale ai mass-media ruandesi, per la prima volta nella storia ricono­sciuti colpevoli di genocidio al pari degli organizzatori e degli esecuto­ri materiali dell’olocausto africano.«Sfruttando i media (soprattutto la radio, in un Paese dove circa 66 per cento della popolazione era anal­fabeta e viveva nelle zone rurali, in cui nessun altro mezzo d’informa­zione poteva arrivare facilmente), i responsabili del genocidio potero­no rendere la carneficina una cosa di cui parlare senza vergogna». L’osservazione è dello studioso ca­merunense Fonju Ndemesah Fau­sta, che ha appena pubblicato in I­talia La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio in Ruanda (Infinito edizioni, pp. 144, euro 12). «Servendosi della lingua parlata in tutto il Paese, il Kinyarwanda, e a­busando del grande rispetto che i ruandesi avevano per le informa­zioni date dalle radio importanti, i genocidari – spiega Ndemesah Fausta – produssero un mondo do­ve il pensiero genocidario era la norma, sia per le vittime che per gli assassini». Nel 1994 il sistema informativo contava l’emittente governativa Radio Rwanda e nove periodici. Unica voce libera erano erano i giornali della Chiesa catto­lica, Kinyamateka e Dialogue, di­retti dai Padri bianchi. Era dal 1980 che padre Sylvio Sindambiwe, di­rettore del mensile Kinyamateka, criticava la politica del governo. Seguirono pressioni e minacce. Non tutti nella Chiesa gli stettero a fianco. Il 28 dicembre 1985 Sin­dambiwe lasciò l’incarico. Due an­ni dopo morì in un mai chiarito in­cidente. Le battaglie dei giornalisti cattolici però non si fermarono. Furono proprio i redattori di Kinyamateka a captare per primi le voci dell’odio. «Nell’ottobre 1988 André Sibomana, laureato in gior­nalismo all’Università Cattolica di Lione, fu no­minato direttore. Appro­fittando della protezione della Chiesa cattolica – ricostruisce Fonju Nde­mesah Fausta –, iniziò a criticare aspramente la politica del governo chiedendo più libertà». Poco dopo fu arrestato insieme ad altri tre gior­nalisti, liberati solo in seguito alle forti pres­sioni internazionali. Fu allora che nacque il giornale filogovernativo Kangura. Le intenzioni furono chiare da subito: «La voce che cerca di risvegliare e guidare il popolo maggioritario», c’era scritto sotto alla testata. Il «popolo mag­gioritario » era l’etnia hutu. Nel suo numero dell’inizio di dicembre 1990 Kangura pubblicò «I dieci co­mandamenti degli hutu». Il primo: «I tutsi hanno sete di sangue e di potere. Vogliono imporre la loro e­gemonia sulla gente del Rwanda con cannoni e spade». E l’ultimo: «Gli hutu non devono più avere pietà dei tutsi». Quattro anni dopo accadrà davvero. Intanto i semina­tori di rancore decisero di compie­re il passo decisivo. L’apertura di u­na radio che parlasse il dialetto lo­cale. Diventerà l’oracolo della di­struzione. «I giornalisti della Rtlm – spiega il ricercatore camerunense – sapendo che la maggioranza dei ruandesi era cattolica, caricarono i loro messaggi di simboli della reli­gione cristiana». Parlavano dei tut­si come di «fratelli che non hanno imparato a costruire, che non capi­scono altro che la distruzione». E poi citazioni bibliche strumenta­lizzate per colpire i nemici. Lo ster­minio, secondo l’Onu fu «pro­grammato » e accuratamente pre­parato da un gruppo organizzato di estremisti dell’etnia bantu degli hutu. Il segnale di avvio fu l’atten­tato del 6 aprile 1994 contro l’aereo su cui viaggiavano l’allora presi­dente ruandese, Juvenal Habyari­mana e il suo omologo burundese Cyprien Ntaryamira. Meno di tren­ta minuti dopo, e prima ancora che il presidente Habyarimana – considerato dagli estremisti un hu­tu moderato – fosse morto si scate­narono i massacri. In soli cento giorni furono uccise, secondo le autorità locali, quasi un milione di persone. Le milizie hutu diven­tarono autentiche macchine da guerra. Perpetrarono in tutto il Paese razzie, stupri e massacri si­stematici. La comunità interna­zionale, traumatizzata dalla di­sfatta della missione Onu dell’an­no precedente in Somalia, assi­stette senza intervenire. La gran parte della stampa mondiale se­condo l’autore de La radio e il ma­chete affrontò la questione adope­rando i soliti stereotipi dell’Africa arretrata e barbara. Solo il 16 mag­gio, per la prima volta sui giornali apparve la parola «genocidio». Non era merito di una intuizione giornalistica. Il giorno prima, men­tre i leader delle potenze mondiali facevano a gara per non lasciarsi trascinare in un possibile Vietnam africano, Karol Wojtyla durante il Regina Coeli fu il primo a usare ot­to parole che cambieranno in tutto il mondo il modo di guardare agli avvenimenti di quei giorni: «Si trat­ta di un vero e proprio genocidio». Ma questa notizia la radio ruande­se non la trasmise mai.
Nello Scavo

venerdì 12 giugno 2009

PAPA PIO XII LE BUGIE, HANNO LE GAMBE CORTE

Pio XII, operazione verità
Che ci sia stata cattiva co­scienza storica su Pio XII, più va avanti il dibattito più ap­pare evidente; proprio per questo In difesa di Pio XII, l’agile saggio cura­to da Giovanni Maria Vian sposta la questione: per lo storico è impor­tante adesso spiegare non tanto e non più l’infondatezza del giudizio riservato a questo Pontefice, quanto perché sia nata la leggenda nera che vuole Papa Pacelli nientemeno che il «Papa di Hitler». Il libro, edito da Marsilio, è stato presentato a Roma alla presenza degli autori che hanno offerto il loro contributo e del Segretario di Stato Vati­cano, il cardinale Tarcisio Bertone, per il quale è in­giusto « per una cattiva co­scienza storica ridurre un Papa della statura di Pio XII, per gli atti che ha compiuto e per la visione complessiva che aveva della Chiesa, in un angolo così ristretto per i suoi presunti silenzi». Per Giovanni Maria Vian, storico e direttore dell’Os­servatore Romano, il rovesciamento d’immagine di Papa Pacelli si spiega in due modi: per la sua scelta anti­comunista e per la contrapposizio­ne che si crea con il suo successore, Giovanni XXIII, che non fu il Papa di transizione che tutti avevano credu­to. «La questione del silenzio del Pa­pa – afferma Vian – è diventata pre­ponderante, spesso tramutandosi in polemica accanita. Così l’intermi­nabile guerra sul suo silenzio ha fi­nito per oscurare l’obiettiva rilevan- za di un pontificato importante, an­zi decisivo nel passaggio dall’ultima tragedia bellica mondiale a un’epo­ca nuova». La cattiva coscienza ha perfino (fat­to insolito trattandosi di un elemen­to così complesso) una data di na­scita che corrisponde con la messa in scena di quell’indigesto dramma di Rolf Hochhuth, Der Stellvertre­ter( «Il Vicario»), che, dopo Berlino, fu messo in scena in mezza Europa. Ne­gli anni Sessanta, però, nasce anche un moda culturale che – dice Ro­berto Pertici – «tra mille virgolette può chiamarsi progressista. La po­sta in gioco non era Pio XII – spiega – ma il ruolo della Chiesa nella sto­ria contemporanea, per cui gli equi­voci creati dalla cattiva coscienza ser­vivano a mettere in una lista tutto quanto avrebbe favorito il progresso e in un’altra, invece, quello e quelli che l’avrebbero ostacolato». Il gioco è fatto, e i sussurri diventano grida. «Nessuno nota – continua Pertici – che Stalin una sola volta cita gli ebrei e lo sterminio, ma del resto la sto­riografia occidentale del dopoguer­ra aveva già preferito dedicarsi ai si­lenzi del Papa e agli atteggiamenti acquiescenti delle democrazie occi­dentali ». Paolo Mieli ( coautore con Saul Israel, Andrea Riccardi, Rino Fisichella, Gianfranco Ravasi e Tarcisio Bertone del libro che registra anche giudizi di Benedetto XVI) riprende questo tema nel suo breve saggio: «Prende­re per buone le accuse a Pacelli – di­ce – equivale a trascinare sul banco dei presunti rei, con gli stessi capi di imputazione, Roosevelt e Churchill, accusandoli di non aver pronuncia­to parole più chiare nei confronti del­le persecuzioni antisemite». Mieli vanta sangue ebraico nelle sue vene e si dice colpito direttamente dalla Shoah per i familiari che ha per­so nella persecuzione e nello ster­minio nazista, ma aggiunge con for­te convincimento: «Io non ci sto a mettere i miei morti sul conto di u­na persona che non ne ha responsa­bilità ». Lo storico, superata l’emo­zione, aggiunge: «La Chiesa mise a disposizione degli israeliti tutta se stessa: quasi ogni basilica, ogni chie­sa, ogni seminario, ogni convento o­spitò e aiuto gli ebrei. Tant’è che a Roma, a fronte dei duemila ebrei de­portati, diecimila loro correligionari riuscirono a salvarsi». Come appunto Saul Israel, nato a Sa­lonicco, biologo, medico e scrittore che ottenne la cittadinanza italiana nel 1919 e della quale fu poi privato con le leggi razziali. Israel è morto nel 1981; suo figlio Giorgio ha offer­to nel libro un suo inedito: è una let­tera scritta nel 1941 quando, con al­tri ebrei, aveva trovato rifugio nel convento di Sant’Antonio di via Me­rulana. E così si salvò la vita. È una pagina struggente. «Non fu qualche convento o il gesto di pietà di pochi – dice Giorgio Israel – e nessuno può pensare che tutta questa so­lidarietà che offrirono le chiese e i conventi avvenis­se all’insaputa del Papa o ad­dirittura senza il suo con­senso. Quella su Pio XII resta la leggenda più assurda che si sia fatta circolare». Come suo padre, tanti si salvarono proprio per la scelta di Pio XII che – spiega Tarcisio Ber­tone – «scelse quell’atteggia­mento non per paura né per connivenza, ma per un cal­colo preciso, finalizzato a salvare la vita del numero maggiore possibile di ebrei». Bertone ha invitato gli sto­rici a studiare tutti i documenti vati­cani di quando Eugenio Pacelli fu Se­gretario di Stato con Pio XI. Aiute­rebbero – in attesa di rendere pub­blici anche quelli che vanno dal 1939 al 1945 – a capire come e perché può nascere una cattiva coscienza stori­ca. E bene farebbero ad aprire i loro archivi anche tutti gli altri che li pos­seggono.

mercoledì 10 giugno 2009

LA PAURA DI SAPERE CHE DIO ESISTE

Scienza e fede, il flop dei «nuovi atei»

I «nuovi atei»? Sono l’alter ego «laico» dei creazionisti, i cristiani fondamentalisti convinti che il racconto della Genesi sia un dato scientifico assodato. Richard Dawkins, Sam Harris e Christopher Hitchens (i 'neo laici' di maggior successo) sono 'illogici e incoerenti' rispetto ai grandi pensatori atei del passato, ad esempio Nietzsche e Camus. Alterna il fioretto dell’argomentazione e la sciabola della polemica John Haught, teologo americano di vaglia, nel suo ultimo convincente lavoro, Dio e il nuovo ateismo (Queriniana, pp. 167, euro 13,80). Senior Fellow al Science & Religion Woodstock Theological Center della Georgetown University di Washington, nei giorni scorsi Haught ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, per la sua pluridecennale ricerca sul rapporto tra teologia e scienza. Professor Haught, nel suo saggio distingue l’ateismo 'hard-core' di Sartre, Camus e Marx, da quello 'soft-core' di Hitchens, Dawkins e Harris: qual la principale differenza? «Gli atei 'duri' volevano che si pensasse in maniera logica alle implicazioni dell’ateismo. Nietzsche, Sartre e Camus insistevano sul fatto che Dio non esiste e quindi non c’è una base eterna ai nostri valori etici. Se Dio non c’è, non esistono nemmeno gli assoluti! Ogni cosa è relativa e noi siamo i creatori dei nostri propri valori. Perciò gli atei 'duri' pensavano che ci volesse una coerenza enorme per essere un ateo, visto che non esiste più un appoggio morale. Per questo Sartre definiva l’ateismo 'un affare crudele'. La maggior parte della gente non sarebbe capace di essere veramente atea perché troppo debole nel vivere senza valori incondizionati. I 'nuovi atei' credono che certi principi siano assoluti, come la ricerca della verità scientifica oppure i diritti civili. Ma gli atei 'duri' direbbero che questi 'neo-atei' sono deboli e codardi come i credenti in Dio, dato che si aggrappano a valori assoluti». Lei considera 'simili' i 'nuovi atei' e i creazionisti. Qual è il loro comune errore nell’approcciare il 'problema-Dio'? «Come i creazionisti, anche Dawkins, Harris e Hitchens considerano la Bibbia incompatibile con la scienza moderna, in particolare con l’evoluzione. Al pari dei cristiani fondamentalisti essi si approcciano ai testi religiosi antichi per provare la loro pertinenza in quanto fonti di informazioni scientifiche. Ma la Bibbia non ha mai voluto essere all’origine di verità scientifiche. Ad Hitchens, ad esempio, fanno problema i racconti dell’infanzia di Gesù in Matteo e Luca. La maggior parte degli studiosi cristiani resta affascinata dall’irriducibilità narrativa di tali passi. Questi ultimi riconoscono che gli evangelisti stanno introducendo con quei testi alcuni temi poi ampliati nel corso delle loro opere. Tali racconti si preoccupano di trasformazioni spirituali, non di informazioni scientifiche. Ma Hitchens si domanda: come possono essere ispirati queste narrazioni se Matteo e Luca non concordano sui fatti storici? E finisce per definirli 'una frode immorale'. Anche Dawkins condivide con Hitchens un certo gusto litteralistico a livello esegetico. Egli però non vedrebbe nessun contrasto tra la Genesi e l’evoluzione se non condividesse con i creazionisti l’aspettativa che una Bibbia veramente ispirata potrebbe essere una fonte di affidabili informazioni scientifiche. Ancora più penoso il caso di Harris, il quale si domanda come mai la Bibbia, se è 'scritta da Dio', non possa essere 'la fonte più ricca a livello matematico che l’umanità abbia mai conosciuto'. Per lui, se la Bibbia è ispirata, avrebbe dovuto dirci qualcosa 'sull’elettricità, sul Dna o sull’attuale misura dell’universo'». È preoccupato dalla diffusione di questo 'nuovo ateismo'? «Il problema è che la maggior parte delle persone non possiede una preparazione teologica per rispondere ai 'nuovi atei'. Gli operatori di media, poi, non sanno come valutare i loro scritti dal momento che non hanno riferimenti teologici o filosofici. I lettori possono facilmente essere d’accordo con i 'nuovi atei' visto che gli scandali tra i preti o gli attentatori suicidi in nome di Dio sono fatti che capitano tutti i giorni. Per molte persone questo è il lato più visibile della religione. Ho scritto il mio libro come un piccolo tentativo per mostrare che c’è molto di più di questo 'lato oscuro' nella religione, e che esistono risposte positive e teologicamente elaborate al 'nuovo ateismo', così come all’ateismo 'duro' di cui si diceva». A suo giudizio, c’è una risposta specificatamente 'cattolica' ai 'nuovi atei'? «Sì. Anzitutto, sarebbe necessario che la Chiesa e i suoi membri confessassero il proprio coinvolgimento nei peccati che i 'nuovi atei' elencano in maniera fervorosa (e anche divertita). Una confessione come questa sarebbe una testimonianza potente della nostra professione di fede più fondamentale, ovvero che il mondo è avvolto in una bontà e in un amore infinito, una bontà che il nostro peccato ha offeso e oscurato: in questo modo il nuovo ateismo troverebbe fiducia e giustificazione. Però possiamo notare che, ironicamente, gli stessi atei testimoniano questa stessa dimensione di bontà nell’accusare i cristiani di immoralità. In che modo potrebbero esseri sicuri che i credenti sono cattivi senza essere toccati dalla bontà che stabilisce i criteri della loro stessa accusa? I cattolici chiamano Dio la fonte di questa bontà».

martedì 26 maggio 2009

TUTTO E' GRAZIA, ANCHE L'HANDYCAP

Cottolengo, altro che "mostri deformi" tenuti in vita ad oltranza

Porta Palazzo, Torino sembra una casba, un mercato mediorienta­le ondeggiante di chador, vo­ciante di richiami maghrebini. Poi giri a destra, e ti si para davanti il Cotto­lengo con le sue imponenti intermi­nabili facciate. La strada si fa silenzio­sa. Caritas Christi urget nos, è scolpito sull’ingresso, la carità di Cristo ci spro­na. Entri. Sotto ai tigli secolari ti sem­bra d’essere in una città diversa. 112 mila metri quadri di padiglioni, 3000 pasti al giorno, una mensa per i pove­ri, una scuola per infermieri, un mo­nastero di clausura, il seminario, l’o­spedale, e poi le case per disabili e an­ziani, in tutto oltre seicento letti. Una città, davvero. Ti inoltri per i viali in un viavai di suore in veste bianca – ce ne sono oltre seicento qui – e di ospiti che camminano adagio, claudicanti, o in carrozzella. La reazione istintiva del vi­sitatore è di inquietudine – quella che provi quando immagini di dover vede­re da vicino il dolore. Del resto, un’au­ra di mistero gravava un tempo su que­sta Piccola casa della Provvidenza. «Laggiù stanno i mostri», si diceva a To­rino. Lo dice ancora del resto, sull’E­spresso, Giorgio Bocca, che ha scritto di «un culto della vita ad ogni costo che lascia perplessi i visitatori della pia i­stituzione del Cottolengo, dove tengo­no in vita esseri mostruosi e deformi». E dunque chi entra immagina una im­mersione nel dolore. Belli i viali albe­rati, ma, dietro quelle finestre? Don Carmine Arice, responsabile della Pa­storale della Casa, è un pugliese arri­vato qui da oltre vent’anni. Ci porterà per i reparti, in un labirinto infinito di corridoi e stanze e sotterranei dove, ti fa notare, un uomo in carrozzella può andare ovunque senza incontrare un gradino: e sì che l’anno di fondazione della casa precede di 150 anni le leggi sulle 'barriere architettoniche'. Quel prete, san Giuseppe Cottolengo, ci a­veva già pensato. Passi per l’ospeda­le con gli ambulato­ri affollati , riesci di nuovo, verso la chiesa. Qui il via vai delle suore si fa più intenso. Allo scade­re dell’ora vanno e vengono le sorelle che si alternano per tutto il giorno nella laus perennis. C’è sempre qualcuno, in questa chiesa, che prega. Sentinel­le, che s’alternano alla guardia. Perché pregare, diceva il fondatore, è 'il pri­mo lavoro'. Quando aveva bisogno di nuove strutture, fondava un nuovo mo­nastero di clausura. Quasi che vera­mente fondante fosse il pregare. Sin­golare logica, pensa fra sé il visitatore del 2009, a tutt’altro sguardo abituato; ma si direbbe, a giudicare dall’allar­garsi prodigioso di questa casa dal 1832, che funziona. E siamo arrivati ai Santi innocenti, il reparto dei 'mostri' nella leggenda popolare. 122 ricovera­ti, quasi tutti disabili gravi. Morti or­mai i macrocefali dalla testa enorme, gli ospiti qui sono quasi tutti handi­cappati anziani, età media 65 anni ( da quando esistono le ecografie, certi fi­gli raramente vengono al mondo. Li in­dividuano, e vengono eliminati). Ai Santi innocenti i ricoverati sono di­visi in dieci 'famiglie', ciascuna con u­na propria casa. Grandi stanze lumi­nose, odore di pulito. Qualche ospite passeggia e risponde al saluto degli in­fermieri con un gesto di familiare con­suetudine. Una, ancora giovane, esile, un moncone al posto di una mano, al­l’abbraccio di una suora risponde pri­ma con uno scuotersi spastico del bu­sto; poi le si calma fra le braccia. Le ri­coverate qui, anche le più vistosamen­te colpite da una disabilità che ne an­nebbia lo sguardo o rende incerto il movimento delle mani, lavorano. Il la­vorare con un senso, e uno scopo, al Cottolengo è considerato essenziale per l’uomo.Allora al pomeriggio trovi le donne ai tavoli dei laboratori, inten­te ad assemblare lentamente pezzi di giocattoli. O, le più abili, a lavorare al­l’uncinetto, le mani che con lucida pre­cisione tramano pizzi elaborati. Una legge da un quaderno spalancato: 'VII93XC2P', e tutta la pagina è un sus­seguirsi di formule astruse, scritte a mano. È l’ordine dei punti del merlet­to, spiega la suora; e rimani attonita a contemplare il lavorio di quelle mani. Splendidi, degni di un altare, i pezzi fi­niti. Le donne riconoscono don Car­mine, gli sorridono. Pare un convivio di vecchie di paese intente ad antichi femminei mestieri. Dov’è, ti domandi, il dolore cocente che paventavi en­trando in queste stanze? Le donne sembrano serene nel loro lavorare, in una dimestichezza affettuosa con le as­sistenti. Forse che il problema di que­ste persone, ti domandi, stia più negli occhi di chi li guarda che in loro? Per­ché noi dobbiamo essere efficienti, au­tonomi, capaci; e allora ci sembra un povero niente, quel faticoso lavorio di dita per assemblare una scatola di ma­tite. Ma loro, le donne dei Santi inno­centi, ti dicono: «L’ho fatto io», e ne so­no contente. Ci han messo un’ora, a or­dinare quei pastelli. Ma qui, dice don Carmine, «il tempo è al servizio degli uomini, e non gli uomini al servizio del tempo». Armadi colmi di giochi ad incastro per bambini. Banchi incrostati di anni di pitture. I quadri dei disabili sembrano opere di impressionisti, sgargianti, tra­cimanti di colore. Un grande foglio ap­peso al muro è tutto nero: le ospiti lo hanno dipinto così. per raccontare la morte. Un altro è un’esplosione di lu­ce: quello, spiega la suora, è, secondo loro, il Paradiso. Vai avanti e parli meno, e resti assorta a guardare. Certo, nelle mani treman­ti, negli sguardi persi riconosci come un piegarsi della vita sotto al giogo di un antica condanna. Una ferita oscu­ra, originaria, in queste donne è evi­dente. «Dove la ferita è più grande, la domanda è più grande. Queste perso- ne sono come un grido, una più forte domanda di Cristo», dice don Carmi­ne, intuendo ciò che ti stai chiedendo. (Forse per questo, per questa doman­da evidente portata dalla sofferenza, oggi i figli malformati si sopprimono?) No, non ci sono creature 'metà caval­lo e metà uomo' qui al Cottolengo, co­me fantasticavano una volta nei paesi del Torinese. Ma solo uomini con un 'di meno', che agli occhi dei sani è in­sopportabile. ( E accadeva che li la­sciassero qui con l’inganno. Li porta­vano per una visita e li abbandonava­no, perché quella diversità era onta fra i sani). Eppure Angela, sorda, muta e cieca, si alza di scatto nell’avvertire la voce a­mica del prete, gli afferra le mani, ini­zia un intenso discorso di gesti che la suora che le è accanto – grossa, beni­gna, materna – capisce. Le risponde. Ridono fra di loro. Oltre la maschera che, fuori, noi sani portiamo, qui den­tro intravvedi cos’è davvero un uomo. Oltre a ogni apparenza. «Vede – dice don Arice – questo giardino, come è perfettamente curato. Le finestre di fronte sono quelle dei malati di Alzhei­mer. Ecco, questo giardino lo curiamo così perché ognuno dei malati che lo guarda ha per noi un valore infinito». È una concezione dell’uomo molto grande, quella che regge questo allar­garsi di case e stanze da 170 anni nel cuore di Torino. Quando un canonico quarantenne si trovò di fronte allo scandalo della ingiustizia e del dolore: una donna incinta e malata respinta da due ospedali e lasciata morire in u­na stalla. Don Giuseppe Cottolengo cambiò vita. Le sue case nacquero u­na dopo l’altra, senza un progetto,ri­spondendo al quotidiano bisogno. I soldi, all’occorrenza, arrivavano. Si mo­strava evidente, quasi in un’eco di ciò che il Manzoni proprio in quegli anni scriveva, che «la c’è, la Provvidenza». Malati segregati, poveri 'mostri' da im­boccare e amare, confluirono nella Ca­sa. Oggi nuovi poveri premono alle por­te della cittadella dietro a Porta Palaz­zo. Vecchi dementi, lasciati soli in case vuote: la nuova emergenza, sono i vec­chi. La Piccola Casa resta nel cuore del­la Torino del Duemila, crocevia di mil­le etnie, come un segno. Giovanni Pao­lo II qui disse: «Se non si comincia da questa accettazione dell’altro, comun­que egli si presenti, in lui riconoscen­do un’immagine vera anche e offusca­ta di Cristo, non si può dire di amare ve­ramente ». Tutto un altro amore. Tutta un’altra logica, da quella di cui scrivo­no i giornali

CHIESA E GALILEO OCCASIONE PERDUTA?

Galileo, occasione fallita o proficua lezione?

La condanna di Galileo non poteva accadere in un momento meno propizio: le ultime due generazioni avevano di fatto assistito ad una rivoluzione culturale senza precedenti, di cui la Chiesa cattolica era stata il promotore e il diffusore. Nel 1582 il papato aveva proposto al mondo la riforma del calendario: era stata così dimostrata la perizia degli astronomi cattolici. Il calendario gregoriano (da papa Gregorio XIII) era opera della stupenda ricerca matematica accolta e sviluppata dalla Chiesa, soprattutto dai padri gesuiti del Collegio romano. Rimane come un monumento permanente della Controriforma cattolica. Gli interlocutori incontrati da Galileo a Roma – che l’avevano festeggiato con molti onori – erano convinti di avere ammaestrato il tempo: avevano dotato il mondo di un calendario 'perpetuo', con la più esatta (e quasi perfetta) misura del tempo. Le potenze protestanti avevano respinto una tale riforma, che rendeva manifesto ai loro occhi quanto la Roma papale fosse la sede dell’Anticristo, la nuova Babilonia, che voleva sostituirsi a Dio stesso nel dominio del tempo, cancellando la datazione pasquale stabilita dal Concilio di Nicea e sottraendo dieci giorni alla durata del mondo, anticipando così il regno del Anticristo. La riforma del calendario è stato il segno più patente della dominante competenza degli scienziati cattolici. Ma era inserita in tutta una serie di misure decise dal Concilio di Trento per incrementare la formazione del clero – seminari maggiori creati dai vescovi, collegi dei gesuiti e di altre congregazioni e ordini, accademie scientifiche: Roma aveva moltiplicato le istituzioni di insegnamento e di ricerca, con un vigore educativo che voleva essere la risposta alle riforme universitarie dei protestanti (basta ricordare Melantone, «il precettore della Germania»). Numerosi religiosi erano impegnati nel campo della ricerca scientifica, scambiandosi dati sperimentali, osservazioni astronomiche, documenti vari, nel proficuo «commercio epistolare» della respublica litteraria. All’inizio della Controriforma la Chiesa si è voluta dotare dei mezzi disciplinari ed educativi idonei per combattere e bloccare l’estensione del movimento riformatore. Questa politica si è rivelata feconda, e ha contributo a gran parte de la riconquista cattolica (soprattutto nella Germania meridionale e nell’Europa centrale).Dal canto loro, i pontefici romani si sono affermati come mecenati delle scienze e degli arti, ad un livello mai uguagliato. Galileo stava tra i lumi di questa scienza cattolica, era stato festeggiato dai gesuiti romani e godeva dell’amicizia di tanti cardinali, tra i quali Maffeo Barberini (papa Urbano VIII dal 1623 al 1644). G li studiosi hanno ricostruito i motivi della sua condanna: sono di natura politica, diplomatica, disciplinare (il non avere obbedito alla cosiddetta «ingiunzione del 1616» di non pubblicare nulla sull’eliocentrismo), personale (aveva perso la fiducia del papa). La dimensione dottrinale del reato è scarsa, e i giudici non hanno insistito su questo aspetto. Il «caso» non ha suscitato dibattiti teologici, si trattava per i contemporanei di un caso disciplinare. Tanto più che i decreti delle congregazioni romane non erano ricevuti nella maggior parte dell’Europa cattolica, dove i regni (Spagna, Francia, Sacro Impero) e tanti altri Stati (Venezia) erano molto gelosi della propria indipendenza dalle decisioni romane: Index non viget era la parola d’ordine della maggioranza dei Paesi cattolici. Eppure i danni dalla sentenza del 1633 sono stati cospicui: si è consumata la rottura tra la Chiesa e la visione moderna, scientifica, del mondo. Si è detto che la condanna di Fénelon, nel 1699, era stata «il tramonto dei mistici» (Louis Cognet), allo stesso modo, la condanna di Galileo è stata il tramonto della scienza cattolica. Le sequele del decreto si sono allargate ben al di là del semplice fatto di una messa all’Indice. La scienza moderna si è da allora in poi sviluppata spesso senza la Chiesa e spesso contro di lei. Il colpo tirato nel campo della cosmologia ha fatto tante vittime collaterali nella critica storica e filologica e nel campo dell’erudizione. Il modernismo del primo Novecento, la cui ombra ha coperto la storia intellettuale cattolica per mezzo secolo, mi pare una lontana eppure genuina sequela di questa condanna del 1632. È palese che Galileo Galilei rimane un eroe scomodo per gli zelanti dello scientismo laicista; non era certo un metafisico e, nonostante le prove subite dalla sua Chiesa, è rimasto un buon cristiano. Arthur Koestler ha ricordato le debolezze del grand’uomo: non ha inventato il cannocchiale, né il microscopio, né il pendolo isocrono, ha sbagliato in diversi campi (le maree), non ha rilevato le macchie solari e non ha potuto provare il copernicanesimo. Eppure, è stato il padre della dinamica – e questo basterebbe perché sia considerato tra i padri della scienza nuova. La sua condanna ingiustificata ne ha fatto il martire del oscurantismo clericale e il simbolo dell’autonomia del pensiero scientifico. Le Chiese ortodosse sono rimaste a lungo anti-copernicane; i grandi riformatori protestanti si sono opposti all’eliocentrismo. Purtroppo, il caso Galileo è rimasto come una macchia per la sola Chiesa cattolica e ha inquinato le relazioni tra la Chiesa e la scienza per due secoli. Invano la condanna è stata cancellata, la Chiesa si è voluta riconciliare con la scienza contemporanea (basta ricordare l’abate agostiniano Gregor Mendel o, nel secolo scorso, il canonico belga Georges Lemaître), «ha invitato i premi Nobel al Vaticano» (si ricorda il bel libro di Regis Ladous), ha incoraggiato le istituzioni scientifiche (la Specola vaticana, l’Accademia pontificia): ci vorranno parecchie generazioni, e gli sforzi meritevoli di tanti papi (tra quali Pio XI e Pio XII), per riconciliare pienamente la Chiesa e la scienza moderna e ricucire i loro legami, senza mai allontanare totalmente il sospetto di opportunismo (in parte verificato, negli ambienti romani, intorno alla figura di Teilhard de Chardin). Eppure, nonostante i danni, non si può dare del caso Galileo un giudizio del tutto negativo. Si può sostenere pure che questa condanna fatale è stata di fatto molto utile nella storia del pensiero dottrinale e dell’insegnamento magisteriale della Chiesa cattolica. La memoria della condanna e delle sue sequele ha lasciato una traccia segnata: un atteggiamento di grande cautela nei confronti di ogni giudizio sulle nuove teorie scientifiche. Si è avverata una chiara distinzione di ordine tra le verità rivelate e quelle inventate dall’ingegno umano. Può darsi che la causa sia il timore di sbagliarsi di nuovo, di non volere aprire un 'nuovo caso Galileo', o la convinzione dei piani diversi della scienza e della Rivelazione. I due libri, quello delle Scritture e quello della Natura (per proporre un’immagine familiare, dal Medioevo in poi, alla mente occidentale), richiedono un’ermeneutica diversa, con delle regole proprie; la loro lettura non si può mescolare. L’evoluzionismo, avversato dalle Chiese fondamentaliste americane, non è stato condannato. Sempre attenti alle norme morali e al rispetto della dignità umana, i pontefici romani hanno accolto con interesse e benevolenza i progressi della genetica, delle neuroscienze, le grandi tesi della cosmologia. I nuovi dati scientifici sono insegnati nelle scuole cattoliche; da mezzo secolo, non c’è più un Indice, e Sigmund Freud non è stato anatematizzato... L’ apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio, voluta dall’attuale pontefice, ha svelato un’amministrazione molto preoccupata della disciplina interna e cosciente della sua debolezza nel controllare la produzione intellettuale. Galileo era troppo noto agli ambienti romani (e curiali) e la sua 'disubbidienza' troppo patente per rimanere illeso. Ma la Chiesa ha approfittato del caso: questa occasione fallita è stata una proficua lezione, che ha facilitato nel Novecento l’aggiornamento cattolico nei confronti dei nuovi orizzonti scientifici.
*Ordinario di Storia delle idee religiose e scientifiche nell’Europa moderna presso l’Ecole pratique des hautes études alla Sorbona
di Jean-Robert Armogathe*

sabato 23 maggio 2009

SUICIDI GIOVANILI, PERCHE'?

Suicidi giovanili, strazio che interroga
Lui, un quindicenne di origine indiana, adottato da una famiglia di Potenza, ha forse deciso di farla finita per una delusione d’amore. Così si è dato fuoco ed è morto. Lei, stessa età, milanese, si è gettata sotto il metrò. È stata salvata in extremis, ma perderà un braccio. Perché? Forse non aveva accettato la separazione dei genitori. Forse, forse, forse... Occorre ripeterlo mille volte quando si tenta di indagare le ragioni che por­tano un adolescente a scegliere di 'chiamarsi fuori', di non vivere più. Per­ché anche quando la motivazione sembrerebbe evidente – il giovane lu­cano aveva inviato un sms per spiegare il suo gesto – in realtà non c’è mai una sola ragione, un solo impulso. Dietro quella scelta di morte si intrec­ciano e si sovrappongono decine di sollecitazioni negative, di pensieri di­storti e fuorvianti. Forse, neppure loro, i ragazzi che non vogliono più vi­vere, potrebbero dire spiegare cosa c’era davvero dietro quel loro, terribi­le, innaturale, tragico salto nel nulla. Ieri Pransath Folliero, aveva mandato tre messaggini alla sorella, a un vi­cino di casa e a un amico: «Non ce la faccio più, sto per buttarmi. Mi tro­verete sull’asfalto», Così, per una delusione d’amore, si è suicidato dan­dosi fuoco con la benzina e gettandosi poi da una scalinata. Era stato a­dottato nel 1996 da una famiglia di Pignola (Potenza). Ieri mattina ha pre­so un autobus e invece di dirigersi al Liceo scientifico «Galilei», dove fre- quentava la IH, ha raggiunto una scalinata in centro. Dopo aver posato lo zai­netto, in cui aveva messo una bottiglia piena di benzina, ha preso il cellulare e ha inviato i tre sms. Poi il gesto fatale. Poco dopo l’arrivo della madre e del­la sorella (di due anni più grande). La ragazza era a scuola, all’istituto tecni­co commerciale «Nitti», alla periferia della città. In centro è stata accompa­gnata da un collaboratore scolastico a cui, durante il tragitto in automobile, aveva raccontato che Prasanth da alcuni giorni era triste, non mangiava. Tut­to a causa di «una cotta» sfortunata. Null’altro. Almeno in apparenza. I due fratelli, infatti, erano perfettamente integrati, benvoluti e amati dai genitori. Lui frequentava la parrocchia con un passato da chierichetto, si divertiva con chitarra e tastiere, non disdegnava lo sport. Senza particolari problemi né di studio né di amicizie. Molto simile la vicenda della ragazzina milanese che ha tentato di togliersi la vita. Ieri mattina, invece di andare a scuola, è scesa nella stazione Primatic­cio della Linea 1 del metro e si è gettata sotto il treno. Un gesto, avrebbe spie­gato la mamma, mai preannunciato prima. Qualche difficoltà l’aveva già in­contrata: una bocciatura scolastica, i genitori separati, forse un po’ di gelosia verso il fratello più piccolo. «La mamma - hanno riferito i carabinieri - ha det­to che la figlia l’anno scorso era stata bocciata e che era seguita da uno psi­cologo». Ma il nonno, Pietro V., ha smentito categoricamente che soffrisse di problemi psichici. «Non aveva mai assorbito il colpo della separazione dei ge­nitori, ma non c’era nessun segnale che facesse presagire un gesto simile». Suor Roberta Vinerba«Anche il dolore dà senso alla vita ma nessuno lo insegna ai ragazzi»Lucia BellaspigaMorire facendo rumore. Gettarsi sotto un metrò nell’ora di punta o diventare una torcia umana nella piazza centrale, per dire a tutti «io esisto». Un comportamento incomprensibile, che però trova una spiegazione nell’analisi di chi di adolescenza è esperto: «A questa età i ragazzi non concepiscono il futuro, sono travolti dalle emozioni del presente, bello o brutto che sia, e quindi le vivono in maniera totalizzante», spiega suor Roberta Vinerba, docente di teologia morale, studiosa dell’affettività negli adolescenti e autrice del libro "Se questo è amore" (ed. Paoline).L’impulsività è tipica dei ragazzi, ma come si arriva ad eccessi tanto violenti?Non esiste disagio adolescenziale senza una responsabilità da parte di noi adulti. Abbiamo sottratto loro la capacità di decodificare le emozioni, di inserirle in un progetto di vita che preveda un domani e nel quale entri in gioco anche la capacità di portare un dolore...E così qualsiasi sofferenza diventa insormontabile, al punto da uccidersi?Nessuno tempra più i ragazzi, non gli si insegna che la sofferenza si può sopportare e addirittura può dare un senso alla vita, può essere preziosa per crescere. E d’altra parte i cattivi maestri, tra gli adulti, sono un po’ ovunque e danno l’esempio.A chi si riferisce?A una cultura dilagante. Vorrei precisare che non conosco queste due povere famiglie e certo non addosso a loro alcuna responsabilità: è la società intera che inganna gli adolescenti. Oggi gli adulti sono i primi a comportarsi da adolescenti, si lasciano travolgere dal presente davanti ai figli, fanno vedere che ogni passione nel momento in cui la provi è totalizzante e padrona di noi, del nostro agire, e non c’è freno razionale che tenga. Lo si predica in tivù, nei salotti che contano, e i ragazzi sono continuamente chiamati a dare le dimissioni dalla vita. Non gli si insegna l’onore, la responsabilità, la parola data, il fare della propria vita una sfida preziosa, tutte cose che i giovani avrebbero in sé, poiché detestano la mediocrità e amano i sogni...Troppa protezione e poca palestra di vita, insomma.Oggi l’ossessione degli adulti è evitare qualsiasi croce per i figli. Io da venti anni tengo corsi per centinaia di adolescenti e li porto in montagna: fa parte della mia pedagogia. Al mattino, prima dell’escursione, è normale per chiunque sentire l’ansia del salire e perciò lamentare un dolorino chiedendo di restare a valle. In realtà poi, salendo con il gruppo, l’ostacolo si supera: si chiama "la forza della cordata" ed è educativa. Ma da qualche anno assisto a padri e madri che quel mattino mi chiamano, da casa loro, per raccontarmi che il figlio ha male a un ginocchio e non salirà. Così si perde un’esperienza fondamentale: scoprire che in sé esistono le forze per superare l’ostacolo, stringendo i denti, guardando la meta da lontano.Una meta dura, che può essere l’amore, o il successo scolastico...Esattamente. Quante volte arriva giugno e sentiamo di ragazzini che si impiccano per una banale bocciatura? E le pare possibile che ogni anno dobbiamo sopportare che il ministro dell’Istruzione di turno vada al tg con schiere di psicologi a spiegare ai ragazzi che l’esame di maturità non è una tragedia? No, non è colpa dell’adolescente, che non voglia faticare o soffrire è normale, ma non c’è più l’adulto, la sponda contro cui possa andare a frangersi la marea di ansia giovanile. Manca qualcuno che gli dica chiaro dov’è la verità con la quale fare i conti, anche per rifiutarla.
Anna Oliverio Ferraris«Dobbiamo ricondurre l’impulso a un ragionamento razionale»Adolescenti, ovvero impulsivi: in un istante decidono e mettono in atto. E a spingerli verso l’estremo può bastare quello che all’occhio adulto sembra un nonnulla, ma che per loro significa tragedia: «Una delusione da parte degli amici o della persona amata, una brutta figura di fronte al mondo, che poi magari è solo un brutto voto preso a scuola. Ma sempre più spesso emerge anche una depressione giovanile, legata magari alla situazione familiare che genera infelicità...». C’è un po’ di tutto nell’analisi proposta da Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dell’età evolutiva alla Sapienza di Roma e autrice di un recente libro dedicato ai suicidi adolescenziali ("Chiamarsi fuori", ed. Giunti), quasi un riassunto delle due vicende avvenute ieri.Due casi molto diversi, comunque.Entrambi hanno scelto una morte plateale, ma poi ogni storia è sempre a sé. Il ragazzino di Potenza, pare deluso per un amore finito, si è ucciso per rimanere sempre nella memoria della sua ragazzina: come a dirle tu mi volevi scordare e io entrerò per sempre nella tua memoria. Inoltre era stato adottato e questo potrebbe comportare nel suo passato fratture antiche con una figura di riferimento... ma va detto che certo non tutti i figli adottivi reagiscono così. Certo è che in entrambi i casi di ieri si vede la propensione a vivere le difficoltà della vita come drammi insostenibili.È un atteggiamento tipico degli adolescenti, un aspetto fondamentale della loro impulsività: a questa età si decide tutto in tempi brevi e un qualsiasi fatto negativo riempie il loro orizzonte attuale, non si vede altro. A una ragazzina fragile può bastare il considerarsi bruttina in un mondo che valorizza l’aspetto estetico, per sentirsi infelice... Per questo bisognerebbe che ci fosse sempre una persona adulta pronta a mostrare loro l’altra faccia della medaglia, che riconduca l’impulsività a un ragionamento razionale. Che insomma dia loro la forza per superare il disagio.Ma come può essere che un ragazzino non abbia la forza per dimenticare un amore perduto o la vergogna della bocciatura, ma poi trovi il coraggio per gettarsi sotto il metrò o darsi fuoco?Sono adolescenti che non hanno la percezione del dolore cui andranno incontro, si buttano sotto il treno che arriva senza pensare all’impatto. Vivono davvero solo l’istante presente, agiscono d’impulso, infatti di solito non premeditano. La ragazzina di Milano ha agito così...Non il ragazzo di Potenza, però.Il suo invece è un gesto certamente preparato, ha persino scelto lo scenario al centro del quale urlare la sua autoaffermazione.Secondo la sua inchiesta, c’è qualche differenza tra ragazzi e ragazze che arrivano a scelte estreme?I ragazzi riescono più spesso a morire, le ragazze frequentemente si fermano al tentativo di suicidio ma sopravvivono: agiscono con meno determinazione perché non cercano di morire, la loro è invece una richiesta di aiuto, comunicano che stanno male. Non è però il caso della adolescente milanese: lei ha scelto un metodo "maschile", drastico, era determinata...<+nero>C’è una recrudescenza di questi casi?<+tondo>In Italia minima, non significativa. D’altronde si sa che l’adolescenza è una fase critica. Poi, verso i vent’anni, l’impulsività cala anche per motivi fisiologici: prima di quell’età la corteccia prefrontale nel cervello, quella che appunto regola questo agire improvviso, non è ancora del tutto mielinizzata. Si capisce bene, allora, quanto sia fondamentale la vicinanza di un adulto che nel momento critico, del dolore, sappia ragionare con e per loro.