giovedì 26 marzo 2009

PAPA BENEDETTO E L'AIDS

NON SI PUO’ CONCEPIRE LA VITA, COME AI TEMPI DEL SIGNORE DI FIRENZE LUDOVICO IL MORO, IN CUI SI AFFERMAVA: CHI VUOL ESSER LIETO SIA DI DOMAN NON V’E’ CERTEZZA…. PERCHE’ IL NOSTRO CORPO E’ LA COSA PIU’ BELLA CHE IL CREATORE HA FATTO E NOI, NON POSSIAMO DISTRUGGERLO CON GESTI SCONSIDERATI!


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25 Marzo 2009
Chiesa e sviluppo
L’Aids in Africa: noi, scienziati col Papa
Le «evidenze» che confermano come combattere il virus
Il rischio di contrarre il virus Hiv usando i preservativi durante i rapporti sessuali è nell’ordine del 15%. Questa conclusione è con­tenuta in uno studio pubblicato dalla nota rivista scientifica bri­tannica The Lancet nel 2000. È una delle conferme scientifiche di quanto affermato da papa Bene­detto XVI la settimana scorsa in A­frica, ovvero che l’Aids non si scon­figge distribuendo i preservativi, ma attraverso un’educazione alla dignità umana. A sostenere la cor­rettezza scientifica della posizione del Papa non è dunque soltanto Edward Green, il celebre studioso di Harvard le cui posizioni sono state riportate su Avvenire del 21 marzo. Al contrario, sfogliando le riviste scientifiche e mediche di questi vent’anni di lotta all’Aids, troviamo numerose conferme alla fallibilità dei profilattici. L’effetto «cinture di sicurezza». Ri­prendendo il citato articolo del Lancet ( John Richens, John Imrie, Andrew Copas, Condoms and seat belts: the parallels and the lessons) si fa un interessante parallelo con le cinture di sicurezza per gli inci­denti automobilistici, che (anche loro) non hanno portato i benefici sperati. In pratica, sostengono gli autori dello studio, il senso di sicu­rezza moltiplica i comportamenti a rischio. È il fenomeno noto come «teoria della compensazione del ri­schio ». Nel caso dei preservativi la responsabilità è di chi sostiene sia­no «la» soluzione definitiva del pro­blema, inducendo perciò un senso di falsa sicurezza che moltiplica i rapporti promiscui, principale cau­sa della diffusione della malattia. Ciò è dimostrato dal fatto – sostie­ne lo studio – che in Africa i Paesi dove il preservativo è più diffuso (Zimbabwe, Botswana, Sudafrica e Kenya) sono anche quelli con i tas­si di sieropositività più alti. «L’effi­cacia del preservativo – concludo­no i ricercatori – è legata soltanto al reale cambiamento dei compor­tamenti a rischio». Preservativo troppo rischioso. Sui tassi di inefficacia del profilattico concordano molti studi scientifici. Secondo una ricerca condotta da S. Weller e K. Davis e pubblicata su Family Planning Perspective (una rivista scientifica dell’Alan Gutt­macher Institute, emanazione del­l’organizzazione abortista Interna- tional Planned Parenthood Fede­ration), l’efficacia del preservativo nel prevenire la trasmissione del­l’Hiv è stimabile intorno all’ 87%, ma può variare dal 60 al 96%. Dati confermati anche dal­lo studio di J. Trussell e K. Yost e presentati (senza che si levassero voci scandalizzate) al­la Conferenza Onu di Rio de Janeiro nel 2005. Ancora su Family Planning Perspective viene citato uno studio di Marga­ret Fishel secondo cui in coppie sposate con un partner sieroposi­tivo, l’uso del preservativo come protezione ha prodotto l’infezione dell’altro partner nel giro di un an­no e mezzo nel 17% dei casi. Perché i preservativi non funzio­nano. Uno studio presentato nel 1990 sul British Journal of Family Planning mostra che in un test ef­fettuato in Inghilterra nel 52% dei casi, gli utilizzatori del profilattico ne hanno sperimentato la rottura o lo scivolamento. C. M. Roland, scienziato esperto del lattice e di­rettore di Rubber Chemistry Land Technology, nel 1992 spiegava in u­na lettera pubblicata dal Washing­ton Times che già nella prevenzio­ne delle gravidanze si registra un 12% di fallibilità malgrado i pori del lattice (5 micron) siano 10 volte più piccoli dello sperma. Una fallibilità che aumenta esponenzialmente nel caso del virus dell’Aids perché questo ha una dimensione di 0,1 micron, ovvero può facilmente tro­vare un passaggio nel profilattico anche ipotizzando un suo uso ot­timale. Questi rischi sono ancora più elevati in Africa perché il caldo e le modalità di conservazione dei profilattici contribuiscono note­volmente a deteriorare il lattice. Il metodo ABC. Sono ancora gli studi scientifici a dimostrare che l’arma davvero efficace contro il vi­rus dell’Aids – oltre ovviamente ai farmaci antiretrovirali, di cui an­che il Papa ha ricordato l’impor­tanza – è l’educazione alla integra­lità dell’uomo, che in termini di strategie è stata tradotta nell’ABC: (A, astinenza), fedeltà a un unico partner ( B, be faithful)), C ( con­dom, preservativo), dove l’accen­to è messo soprattutto sulle prime due strade. È il caso dell’Uganda, l’unico Paese dove si sia riscontra­ta una diminuzione nel tasso di in­cidenza dell’epidemia, a dimostra­re la bontà di questo approccio, scelto dal presidente Museveni già all’inizio degli anni ’ 90. Secondo un rapporto di UsAid (l’agenzia go­vernativa statunitense che si occu­pa di aiuti allo sviluppo) in 15 an­ni c’è stata una riduzione nel tasso di infezioni del 75% nel gruppo di età tra i 15 e i 19 anni, del 60% tra i 20 e i 24 anni, e del 54% nel suo complesso. E questo perché è sta­to ridotto del 65% il sesso con part­ner casuali. Questa conclusione viene condivi­sa dalla rivista Science con un arti­colo pubblicato già nel 2004 in cui si esclude che l’uso dei profilattici abbia avuto un ruolo significativo nella positiva evoluzione. Dato ul­teriormente confermato dalla lun­ga ricerca condotta sul campo, in Africa, da Helen Epstein, che ha raccolto i dati in un libro pubbli­cato nel 2007 ( La cura invisibile: l’Africa, l’Occidente e la lotta contro l’Aids), in cui attacca l’Occidente perché si ostina a ignorare che l’u­nica strategia che funziona contro l’Aids è, appunto, la «cura invisibi­le » , ovvero l’educazione, il cam­biamento dei comportamenti ses­suali.
Riccardo Cascioli

QUANDO LA VITA VALE 30 DENARI

C’ERA UNA VOLTA, UN ITALIA POVERA FATTA DI FAMIGLIE NUMEROSE. DOVE IN TAVOLA C’ERANO CINQUE PERSONE A MANGIARE C’ERA POSTO ANCHE PER IL SESTO. EVIDENTEMENTE SI FIDAVANO DELLA PROVVIDENZA. SI RACCONTA CHE QUANDO NACQUE PAPA GIOVANNI XXIII AL SECOLO ANGELO RONCALLI IL SUO PAPA’ VOLEVA BUTTARLO VIA PERCHE’ ERANO GIA TROPPI IN FAMIGLIA, MA SUO ZIO ZAVERIO PER FORTUNA LO FERMO’…. QUEL BAMBINO DI TROPPO, IN SEGUITO, DIVENNE PAPA. MENTRE OGGI L A VITA NASCENTE VIENE VALUTATA IN BASE ALLA SALUTE DEL BAMBINO DALLE CONIZIONI ECONOMICHE COME DESCRIVE QUESTO ARTICOLO DI AVVENIRE, LA PROVVIDENZA PUO’ ASPETTARE

Crisi, uno spettro chiamato aborto
Crisi economica, perdita di la­voro, caduta di fiducia nel fu­turo. E se nel frattempo, una famiglia si trova ad affrontare una gra­vidanza, crescono le paure. Si riper­cuote anche nella difesa della vita na­scente il momento di difficoltà eco­nomica che il nostro Paese sta viven­do in conseguenza della crisi econo­mico- finanziaria mondiale. Lo ha de­nunciato alcuni giorni fa il direttore della Clinica Mangiagalli di Milano, Basilio Tiso, segnalando un aumento di richieste di aborto per motivi eco­nomici. Lo confermano coloro che hanno la presenza più capillare sul territorio per aiutare a evitare gli aborti, vale a dire i Centri di aiuto alla vita (Cav). «Siamo alle prese con la raccolta dati per il nostro rapporto an­nuale – spiega Ubal­do Camilotti, che cu­ra il lavoro con Luigino Corvetti e Giorgio Medici – ma è senz’altro con­fermata la tendenza degli scorsi anni: i problemi economici incidono sem­pre di più nelle cause per cui una don­na si rivolge ai Cav. Sono sempre sta­ti la prima motivazione, ma se nel 1990 erano il 23 per cento le donne che adducevano il motivo economi­co quale difficoltà alla gravidanza, questa quota nel 2007 è arrivata al 44 per cento». Con una ulteriore preci­sazione: c’è un altro 12 per cento che lamenta la disoccupazione, e un al­tro 10 per cento che parla di alloggio insufficiente o mancante. Quindi an­cora cause legate alle risorse econo­miche: sommando le tre motivazione si raggiunge il 66 per cento, i due ter­zi del totale. «Non abbiamo ancora i dati definitivi – continua Camilotti – ma la sensazione è che la percentua­le nel 2008 sia cresciuta». Dati confermati da Erika Vitale, coor­dinatrice del Progetto Gemma, al «Re­dattore Sociale»: «Nelle ultime setti­mane sono nettamente in aumento le richieste che ci provengono da don­ne italiane». Al Nord soprattutto (ma anche a Roma), dove le straniere era­no il 70%, il rapporto si è riequilibra­to. La chiusura di fabbriche e aziende crea disoccupazione, e quindi diffi­coltà ai bilanci familiari: a questo pun­to «una gravidanza spaventa moltis­simo ». Infatti casalinghe (37%) e di­soccupate (31%) sono le principali condizioni lavorative delle donne che si rivolgono ai Cav. Conferme che vengono anche dai Cav sul territorio. A Fonte Nuova (Roma) opera il Cav Tor Lupara: «Si sente mol­to il contraccolpo delle difficoltà eco­nomiche – spiega la presidente Maria Luisa Di Ubaldo – e se un tempo era­no principalmente straniere le donne che si rivolgevano a noi con questa motivazione, ora anche nella popo­lazione italiana si fa sentire il bisogno economico». Si tratta di una tenden­za in crescita negli ultimi mesi, tanto che ormai le richieste di aiuto sono metà e metà tra stranieri e italiani: «Le spese gravano spaventano e gravano molto sulla scelta di non avere un fi­glio. La gente non si sente in grado di acquistare omogeneizzati, carne, ve­stiario per i neonati». E se le richieste di aiuto alimentare vengono inviate al banco Caritas, ci sono altre storie emblematiche: «Pochi giorni fa a una signora che lamentava di non poter acquistare il latte per il bambino, ab­biamo suggerito di farsi spiegare dal pediatra come passare gradualmen­te al latte vaccino, visto che il piccolo aveva già otto mesi.Ma lei ci ha ri­sposto che era già passata al latte vac­cino, ma le pesava acquistare anche quello». Il latte artificiale è un grosso proble­ma anche a Fasano (Brindisi), dove il locale Cav (il primo nato in Puglia) è presieduto da Cenzina Ricco: «È cam­biata la tipologia della richiesta di aiu­to. Se un tempo ci chiedevano un aiu­to per trovare lavoro, oggi spesso do­mandano di essere sostenute per ac­quistare il latte artificiale o i pannoli­ni. non tutte le donne riescono ad al­lattare e il latte costa anche 37 euro a confezione. Noi abbiamo un contat­to diretto con il reparto di Pediatria dell’ospedale di Fasano, ma le offerte si sono ridotte e questa voce pesa mol­to ». È la preoccupazione economica è la prima causa di richiesta di aiuto: «È importante poter offrire una pro­spettiva di sostegno economico. In questo senso il “Progetto Gemma” è stata un’àncora di salvezza per evita­re aborti: sapesse quante persone piangono davanti a noi quando ero­ghiamo l’ultima rata!». Nel comples­so «attualmente il motivo economico spinge almeno il 40% delle donne che si ri­volgono a noi. E di solito quando si offre una soluzione eco­nomica, il figlio non è più un problema. Ho presente un caso serio, di pochi giorni fa: una mamma alla quarta gra­vidanza, preoccupata per la casa pic­cola e il mutuo ancora da pagare: vo­leva il figlio ma era disperata». Si sale nella Penisola, ma la crisi non cambia, anche se presenta aspetti di­versi. Al Cav di Monfalcone, presie­duto da Chiara Bressan, le richieste più problematiche vengono dalle straniere. «Tra le italiane incerte se te­nere il bambino, le difficoltà econo­miche si pareggiano con quelle di al­tro tipo, per esempio un rifiuto del partner». Ma la crisi economica pesa in maniera diversa tra gli stranieri: «Da noi c’è una forte presenza di benga­lesi, in massima parte musulmani molto osservanti. Fino a poco tempo fa, non prendevano neanche in con­siderazione l’ipotesi di abortire. In quest’ultimo anno, invece, risentono delle difficoltà economiche e ci pen­sano: soprattutto quando sanno che il nascituro è una femmina. Se maga­ri è la seconda, la terza o la quarta, il padre è spaventato: per loro non è de­coroso non poter offrire loro una do­te adeguata».
131.018 LE INTERRUZIONI DI GRAVIDANZA NEL 2006 127.038 NEL 2007 9,4 X 1.000 DONNE DAI 15 AI 49 ANNI: IL TASSO DI ABORTIVITÀ NEL 2006 9,1 X 1.000 NEL 2007 (DATI UFFICIALI MINISTERO DELLA SALUTE 21 APRILE 2008)
Enrico Negrotti

lunedì 23 marzo 2009

LA CHIESA STA CONCRETAMENTE ACCANTO ALL'UOMO DI OGNI GIORNO!

1. Di certo si è prolungato, oltre ogni buon senso, un pesante lavorio di critica − dall’Italia e soprattutto dall’estero − nei riguardi del nostro amatissimo Papa, a proposito dapprima della remissione della scomunica ai quattro Vescovi consacrati da Monsignor Lefebvre nel 1988, e al caso Williamson che imponderabilmente vi si è come sovrapposto. Sul merito di queste due vicende, quello che di importante c’era da dire l’abbiamo sollecitamente detto appunto in occasione della precedente prolusione. Nessuno tuttavia poteva aspettarsi che le polemiche sarebbero proseguite, e in maniera tanto pretestuosa, fino a configurare un vero e proprio disagio, cui ha inteso porre un punto fermo lo stesso Pontefice con l’ammirevole Lettera del 10 marzo 2009, indirizzata ai Vescovi della Chiesa Cattolica. Di proposito non vogliamo tornare sulle accuse maldestre rivolte con troppa noncuranza al Santo Padre. Merita molto di più invece concentrarci sulla citata Lettera che, come atto autenticamente nuovo, ha subito attirato un vasto consenso. La grande impressione che essa ha suscitato è per buona parte dovuta alla forza interiore che emerge dall’intero testo e da ciascuna delle sue parole, anche le più amare. La sua disamina, per certi versi conturbante, degli ultimi episodi − ma, per analogia, anche di certe discutibili e ricorrenti prassi ecclesiali − ha fatto emergere come per contrasto il candore di chi non ha nulla da nascondere circa le proprie reali intenzioni, le motivazioni concrete delle proprie scelte, la coerenza di una vita vissuta unicamente all’insegna del servizio più trasparente alla Chiesa di Cristo. Per questo non stentiamo affatto a riconoscere nell’iniziativa papale l’azione di quello Spirito di Dio che svela i disegni dei cuori e sa trarre il massimo bene anche dalle situazioni più irte e penose. Il che non significa naturalmente attenuare la severità di un giudizio che nella carità va pur dato circa atteggiamenti e parole che hanno portato a una situazione cui non si sarebbe dovuti arrivare, alimentando interpretazioni sistematicamente allarmistiche e comportamenti diffidenti nei riguardi della Gerarchia.
Con ferma e concreta convinzione facciamo nostro l’appello alla riconciliazione più genuina e disarmata cui la Lettera papale sollecita l’intera Chiesa. E questo naturalmente esclude che si perpetuino letture volte a far dire al Papa ciò che egli con tutta evidenza non dice. Che è un modo discutibilissimo, persino un po’ insolente, per costruirsi una posizione distinta dal corretto agire ecclesiale. Molto meglio identificarsi in quella che è la migliore tradizione del nostro cattolicesimo: stare con il Papa, sempre e incondizionatamente. Il che da una parte comporta il nostro sintonizzarci sulle ancor più evidenti priorità del suo ministero: «Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia» e «avere a cuore l’unità dei credenti», priorità che coinvolgono tutti, ciascuno per la propria responsabilità. E, dall’altra, esige di pregare intensamente per lui e con lui, ossia con le sue stesse intenzioni: e questo aiuta a purificare il nostro sguardo sulla Chiesa, mistero di salvezza per il mondo.
2. In queste ore peraltro il Santo Padre sta portando a termine un’importante visita apostolica nel Camerun e in Angola. Nelle sue intenzioni essa aveva «per orizzonte» l’intero continente africano (cfr Benedetto XVI, Saluto all’arrivo a Luanda, 20 marzo 2009). Si è trattato di un viaggio impegnativo e ad un tempo ricco di speranza. Ciò che lì è avvenuto e il magistero che vi si è esplicato hanno avuto localmente una grande eco, come in noi hanno suscitato un profondo coinvolgimento e una viva commozione: per questo non mancheremo di ritornare sul significato di codesto pellegrinaggio, che fin dall’inizio è stato sovrastato nell’attenzione degli occidentali da una polemica – sui preservativi − che francamente non aveva ragione d’essere. Non a caso, sui media africani non si è riscontrato alcun autonomo interesse, se non fosse stato per l’insistenza pregiudiziale delle agenzie internazionali, e per le dichiarazioni di alcuni esponenti politici europei o di organismi sovranazionali, cioè di quella classe che per ruolo e responsabilità non dovrebbe essere superficiale nelle analisi né precipitosa nei giudizi. Si è avuta come la sensazione che si intendesse non lasciarsi disturbare dalle problematiche concrete che un simile viaggio avrebbe suscitato, specie in una fase di acutissima crisi economica che richiede ai rappresentanti delle istituzioni più influenti una mentalità aperta e una visione inclusiva. Non ci sfugge tuttavia che nella circostanza non ci si è limitati ad un libero dissenso, ma si è arrivati ad un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici. L’irrisione e la volgarità tuttavia non potranno far mai parte del linguaggio civile, e fatalmente ricadono su chi li pratica. Infatti, la conferma più significativa circa la pertinenza delle parole del Papa sull’argomento è venuta da quanti – professionisti, politici e volontari – operano nel campo della salute e dell’istruzione. C’è da promuovere un’opera di educazione ad ampio raggio, che va inquadrata nella mentalità degli africani e si concretizza in particolare nella promozione effettiva della donna; soprattutto bisogna alimentare le esperienze di cura e di assistenza, finanziando la distribuzione di medicinali accessibili a tutti. Com’è noto la Chiesa, compresa quella italiana, è coinvolta con persone e mezzi in questa linea di sviluppo. Ma chiediamo anche ai governi di mantenere i propri impegni, al di là della demagogia e di logiche di controllo neo-colonialista. E mentre invitiamo i diversi interlocutori a non abbandonare mai il linguaggio di quel rispetto che è indice di civiltà, vorremmo anche dire – sommessamente ma con energia − che non accetteremo che il Papa, sui media o altrove, venga irriso o offeso. Per tutti egli rappresenta un’autorità morale che questo viaggio ha semmai fatto ancor più apprezzare. Per i cattolici è Pietro che, con le reti del pescatore e nel nome del Signore Gesù, continua a raggiungere i lidi del mondo. Noi, che con trepidazione e preghiera l’abbiamo accompagnato in questo pellegrinaggio, ci apprestiamo ora a salutare con affetto il suo felice ritorno.
3. La dinamica contestativa di cui dicevamo, per le forme subdole che talora assume ma anche per gli appoggi clamorosi di cui gode, è una delle tracce che ci portano a identificare la cifra più marcata del nostro tempo qual è il secolarismo. È su questo che vorrei dire oggi una parola. Sembra a me infatti che vari segnali ci rendano vieppiù avvertiti che il trapasso culturale dentro al quale ci troviamo vada assumendo il carattere di un vero e proprio spartiacque. Chi, tempo addietro, paventava uno scontro di civiltà, facendolo magari derivare in parte da divaricanti matrici religiose, oggi si trova dinanzi agli occhi una situazione alquanto diversa, e non necessariamente più complessa da descrivere: si fronteggiano sostanzialmente due culture riferibili all’uso della ragione. Al centro di entrambe c’è – come sempre – una specifica risposta alla domanda sull’uomo. Da cui discendono due diverse, per molti aspetti antitetiche, visioni antropologiche. Su un versante c’è la cultura che considera l’uomo come una realtà che si differenzia dal resto della natura in forza di qualcosa di irriducibile rispetto alla materia. Qualcosa che è qualitativamente diverso e che costituisce la radice del suo valore e il fondamento della sua dignità. In altri termini, l’uomo − prima di metter mano a se stesso – si accoglie come dono che ha un’identità e una consistenza iscritte nella struttura del suo essere. Dono che non dipende da lui, che precede ogni sua autodeterminazione, e che ne fa quello che egli è: persona, appunto. È a partire da questo dato ontologico, e tenendolo fermo quale fatto oggettivo, che il soggetto cresce e si compie nello sviluppo della vita. In questa prospettiva, la natura umana, dentro lo scorrere della storia, è un perno fermo e insieme bussola per l’esercizio della libertà personale. Nel gioco stesso dell’uomo, la libertà trova così i riferimenti oggettivi per le scelte e i comportamenti coerenti alla sua autentica umanità. Nell’altro versante, invece, si esplica una cultura per la quale il soggetto umano è un mero prodotto dell’evoluzione del cosmo, ivi inclusa la sua autocoscienza. In quanto risultato di un processo evolutivo mai concluso, l’uomo sarebbe solamente un segmento di storia, sganciato cioè da qualunque fondamento ontologico permanente e comune a tutti gli uomini, privo quindi di riferimenti etici certi e universali. Essendo semplicemente uno sghiribizzo culturale fluttuante nella storia, l’individuo si trova sostanzialmente prigioniero di sé ma anche solo con se stesso. E se è ovvio che non sia questa la sede per richiamare, neppure nelle sue coordinate generali, la questione dell’evoluzionismo, di cui s’è infatti parlato recentemente in sedi autorevoli (cfr la Conferenza internazionale svoltasi alla Pontificia Università Gregoriana su «Evoluzione biologica: fatti e teorie», Roma 3-7 marzo 2009), dobbiamo tuttavia segnalare come si annidi, proprio nella posizione che prima evocavamo, un’interpretazione esasperata e unilaterale del paradigma evoluzionistico.
Nel contempo, collegata alle due citate visioni antropologiche, e alla dialettica che le contrassegna, c’è una diversa concezione della libertà. Da una parte si ritiene – in base ad una riflessione millenaria e all’esperienza universale – che la libertà umana sia uno dei valori più grandi (per i cristiani essa è addirittura dono di Dio creatore), non però un valore assoluto né solitario. La libertà infatti deve fare i conti con altri valori − come la vita, la pace, la giustizia, la solidarietà… − che in qualche modo vengono prima e le danno come sostanza, anzi la rendono vera in quanto sono per il bene dell’uomo, e lo realizzano secondo quella linea di appartenenza che si identifica nella natura umana e con i vettori che dall’interno le danno sviluppo pieno. Il tipo di società che ne deriva è chiaramente aperto e solidale: in essa il farsi carico degli altri – specialmente dei più deboli, dei meno dotati ed efficienti – è congenito e vitale. Dall’altra parte, invece, si afferma una libertà individuale non solo come valore, ma come valore assolutamente primo, sciolto da qualsiasi altro vincolo che lo possa misurare, con il pretesto che la libertà non può negare se stessa, andando con ciò − se occorre − anche contro la persona. In questa prospettiva, la libertà sembra priva di relazione, è legge a se stessa, al di fuori di ogni contesto relazionale. L’individuo, paradossalmente, finisce schiacciato dalla propria libertà, e ritenendo di essere pieno e assoluto padrone di se stesso arriva a disporre di sé a prescindere da ciò che egli è fin dal principio del suo esistere. E concepisce ogni suo desiderio, magari confuso in qualche caso anche con l’istinto, quale diritto che la società dovrebbe riconoscere come elemento costitutivo di se stessa. In questa direzione, si scivola inevitabilmente verso un nichilismo di senso e di valori che induce alla disgregazione dell’uomo e ad una società individualista fino all’ingiustizia ed alla violenza. Anzi, verso un nichilismo gaio e trionfante, in quanto illuso di aver liberato la libertà, mentre semplicemente la inganna rispetto ad una necessaria e impegnativa educazione della stessa.
La divina Provvidenza ci dona quest’ora da amare con fede e intelligenza: e quest’ora vogliamo servire con tutto noi stessi. La comunità cristiana deve però lasciar da parte improvvisazione e autoreferenzialità, ingenuità ed empirismo – lo dico anche alle nostre associazioni, e ai nostri movimenti e gruppi – per investirci tutti della responsabilità credente, dell’«esserci» con simpatia e competenza, e con larga capacità di dialogo e di sensata interlocuzione rispetto alle più diverse situazioni di vita. Tra l’altro, ci sono alcuni nostri strumenti culturali e mediatici che proprio a questo mirano: a servircene saremmo semplicemente utili a noi stessi.
4. E siamo al caso che più ha colpito il nostro Paese nell’ultimo periodo, quello di Eluana Englaro, la ragazza lecchese che per 17 anni è vissuta in stato vegetativo persistente e che è stata fatta morire a Udine il 9 febbraio scorso. Benché non fosse attaccata ad alcuna macchina – dato che l’opinione pubblica ha scoperto solo con grande fatica – e benché sia da tempo invalso nei vari ambiti della nostra vita sociale quel saggio «principio di precauzione» per il quale nulla di irripristinabile va compiuto se i dati scientifici non consentono una valutazione obiettiva del rischio, s’è voluto decretare che a certe condizioni poteva morire. Un procedimento che, in un solo atto, avrebbe voluto ribaltare tutta una cultura giuridica minuziosamente costruita sul favor vitae, contraddicendo un’intera civiltà basata sul rispetto incondizionato della vita umana, e smentendo un lungo processo storico che ci aveva portato ad affermare l’indisponibilità di qualunque esistenza, non solo a fronte di soprusi o violenze, ma anche di condanne penali quale la pena di morte. Tutto, per certe intenzioni, messo a repentaglio, attraverso una operazione tesa ad affermare un «diritto» di libertà inedito quanto raccapricciante, il diritto a morire, cioè a darsi e a dare la morte in talune situazioni da definire. Come se la vita potesse, in alcuni frangenti − i più critici −, cessare di essere un «bene relazionale». E come se la vita a ciascuno di noi così cara, e così salvaguardata ed educata a caro prezzo anche dalla collettività, di colpo divenisse un bene «inerme», anzi un non-bene. E non fosse vero piuttosto che, proprio quando è più fragile, l’esistenza di ciascuno di noi diventa allora più moralmente preziosa, nel senso che è più direttamente protesa a cementare il bene comune suscitando in ciascuno e nella società ulteriori energie di altruismo e di dedizione. L’ammanto di pietà attraverso cui, con grande sforzo, si cerca di far passare questo ulteriore improbabile «diritto», non può non indurre la persona equipaggiata di intelligenza a porsi una serie di interrogativi consequenziali, il primo dei quali è: non stiamo attribuendo al «sistema» un diritto all’eliminazione dei soggetti inabili, quasi che costoro possano configurarsi come cittadini di serie B? E questo «diritto», che per ora si affaccia appena, una volta immesso nel corpus giuridico e nel costume pubblico, non è forse destinato a diventare col tempo più incalzante e spietato? E tale meccanismo non riguarderà anzitutto coloro che sono più deboli, bisognosi di assistenza e di premura da parte della collettività, perché segnati dalla vecchiaia o dalla malattia o dalla fragilità mentale? E se la “qualità della vita” è fatta dipendere principalmente dalle relazioni consapevoli, quanti altri sono i soggetti che di tali relazioni non hanno coscienza, pur non vivendo in stato di coma vegetativo persistente? Che cosa ci autorizza ad escludere che, al di là delle nostre più ravvicinate determinazioni, potremmo un giorno restarne in un modo o nell’altro coinvolti? E un’autorizzazione legalizzata di questo segno, cosa potrà produrre in termini di cultura, e dunque di gestione delle cure, nelle più diverse strutture sanitarie come nell’intero sistema socio-assistenziale, fino alle compatibilità ultime di budget? Qualunque deriva eutanasica, per quanto tecnicamente circoscritta o concettualmente edulcorata, è in realtà per gli uomini d’oggi, se ci si pensa bene, «una falsa soluzione» (cfr. Benedetto XVI, Discorso all’Angelus, 1° febbraio 2009). Falsa soluzione rispetto agli stessi disagi personali gravi, che richiedono non la soppressione della vita ma la vicinanza e l’accompagnamento delle persone. La prima cura, per qualsiasi forma di malattia, è non far sentire solo il malato, solo con il suo male, e abbandonato a se stesso. Garantirgli una presenza competente, amorevole e quotidiana, è per la società una responsabilità più ardua e impegnativa rispetto ad altre “scorciatoie” apparentemente pietose. Ma è qui, non nei proclami astratti e ripetuti, che una società getta come la maschera e rivela il suo vero volto, manifestando il proprio livello di umanità o, al contrario, di inciviltà. Nelle moderne democrazie, la vita va difesa perché è indispensabile limitare il potere «biopolitico» sia della scienza sia dello Stato, il che trova sostanza nel fermo «sì» alla tutela dei diritti umani di tutti, di chi economicamente è in grado di difendersi come di chi non può farlo, e in un altrettanto netto «no» alla pena di morte, al commercio degli organi, alle mutilazioni sessuali, alle alterazioni fecondative, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, pur se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti.
5. Ha peraltro qualche componente grottesca il fatto che si sia tentato di far passare la tribolata vicenda − con profili in realtà civilmente tanto rilevanti e potenzialmente tanto intrusivi rispetto al vissuto di ciascuno − come mera conseguenza di un altolà della Chiesa, ossia come un’iniziativa di polemica ideologica, quando di ideologia qui non c’era nulla, ma solo concretezza palpitante di vita e pertinenza all’umano dell’uomo. Allorché un cuore batte in autonomia, il corpo è caldo, i polmoni respirano, gli occhi si aprono alla luce del giorno e poi si chiudono, come si può parlare di morte? E cosa c’entrano i guelfi e i ghibellini? Qui c’entra anzitutto il vero, c’entra il reale-concreto, non perché sia alienante il riferimento al progetto di Dio sulle proprie creature, anzi, ma perché nessuno può darsi impunemente degli alibi allorché si tratta di constatare che si va verso l’alterazione del principio di eguaglianza tra tutti i cittadini. Per questo motivo ci ha causato una grande tristezza la storia dolorosa eppure umanissima di Eluana, con l’obnubilamento in cui si è caduti circa i limiti che sono intrinseci all’esistenza terrena, quasi che essa potesse esistere solo nei termini in cui la desideriamo noi, priva di imperfezioni e asperità, di imprevisti o evenienze, che comunque fanno parte del suo impasto. Non essere all’altezza dello standard vigente non può equivalere a una squalifica. Il rifiuto anche solo dell’idea di malattia, di vecchiaia, di sofferenza fisica e morale è qualcosa che merita una riflessione rigorosa su se stessi, e ha a che fare con un’autocoscienza bonificata dal risentimento verso un destino percepito amaro o ingiusto. So bene che qui si entra nel sacrario dei pensieri e dei sentimenti che ogni persona custodisce gelosamente dentro di sé. Ma in una cultura in cui giustamente si vuol far valere il criterio della ragione e della ragionevolezza, questo non può avvenire solo fino ad un certo punto. Bisogna piuttosto vigilare sui meccanismi nascosti dell’auto-indulgenza, ed essere moralmente forti, ossia interiormente attrezzati, nell’accettare la vita per quello che è, e partendo da questo dato operare per migliorarne le condizioni. Con tutti gli avanzamenti, i progressi, le innovazioni che essa offre, ma anche con le sue sospensioni, le sue incompletezze, le sue incongruità, le sue aporie. Alla fine è sulla nostra maturità che siamo sfidati, e sull’effettiva disponibilità a solidarizzare con il più debole: non a parole o a tratti, ma con la vita vissuta, che non per questo cesserà di rivelare panorami di bellezza indicibile. Quando il dolore bussa, e non può essere neutralizzato del tutto, quando chiede ascolto, quando ci domanda di essere introdotto come un nuovo parametro di ordinarietà e dedizione, non bisogna fuggire. E serve a poco imprecare, fino a isterilirsi. Domanda: come pensiamo di cavarcela con i nostri giovani rispetto a quella innegabile componente della vita che, in un modo o nell’altro, si presenta ed è rappresentata dal dolore, dalla sofferenza, dalla fatica magari ingrata, dalla possibilità di far fronte all’insuccesso e all’ineluttabile? Non stiamo qui, per caso e involontariamente, ponendo le basi verso un’infelicità strutturale delle nuove generazioni, con i presupposti di una loro fatale inadeguatezza e i criteri non dichiarati, eppure meschini, di un nuovo tipo di selezione alla vita?
6. Un fatto tuttavia ci ha confortato, e cioè che più si palesava l’azione mossa nei confronti della vita di Eluana, più la gente è sembrata farsi cauta, quasi pensosa, come intuisse in maniera un po’ più nitida l’effettiva posta in gioco. Al momento della morte – evento che avremmo voluto scongiurare – si è percepito un sentimento di diffuso dolore, come di una sorella comune che non si era riusciti a salvare. Ebbene, è opportuno ora che questa tensione non evapori dentro il turbinio mediatico. Oltre a pregare per la sua anima, per i suoi parenti e i suoi amici, oltre a pregare per quanti si trovano nelle sue condizioni, dobbiamo immaginare una reazione morale e culturale capace di trasformare lo sgomento in un riscatto: se è possibile, in una crescita di consapevolezza e di iniziativa. Su un versante molto importante spetta alla politica agire nell’approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti, un inequivoco dispositivo di legge che – in seguito al pronunciamento della Cassazione − preservi il Paese da altre analoghe avventure, ponendo attenzione a coordinarlo con l’altro sospirato provvedimento relativo alla cure palliative, e mettendo mano insieme alle Regioni ad un sistema efficace di hospice, che le famiglie attendono non per sgravarsi di un peso ma per essere aiutate a portarlo. Sull’altro versante tocca alla società civile mobilitarsi per acquisire in prima persona una coscienza più matura della posta in gioco in termini antropologici e culturali, così da evitare nel futuro ingorghi concettuali e tentazioni di delega. In questo ambito, c’è in campo l’iniziativa appena annunciata dai tre organismi di collegamento laicale − Scienza & Vita, il Forum delle Associazioni familiari e RetinOpera – che, nel tessuto vivo delle parrocchie, delle aggregazioni laicali, come degli ambienti e dei mezzi di comunicazione, merita di essere da noi incoraggiata e sostenuta. Come Vescovi non possiamo non avere a cuore il superamento di qualunque rassegnazione culturale, mentre occorre portare conforto e far sentire una concreta vicinanza a tutte quelle famiglie che fanno fronte con sacrifici e dignità alle prove della vita.
Ma c’è un grazie speciale che noi Vescovi vogliamo oggi dire, ed è alla Suore Misericordine della clinica Beato Talamone di Lecco e alla loro splendida, ineffabile testimonianza. Sappiamo che a loro non piace stare in alcun modo sulla ribalta, che rifuggono da quella notorietà che fare il bene talora procura, che sono disposte a subire anche l’ingiustizia piuttosto che protestare dinanzi a ingiurie e falsità. Ma questo non significa che la comunità cristiana non sappia riconoscere in loro delle autentiche campionesse della carità secondo l’inno di san Paolo: «[...] La carità è paziente, è benigna […], non è invidiosa […], non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta […]». (1Cor 13,1-13). Quell’invocazione mansueta e quasi dolente che loro hanno rivolto − «Se c’è chi considera Eluana morta, lasciatela a noi che la sentiamo viva» − è stata per l’opinione pubblica un’autentica scossa, è stata finalmente uno scandalo buono. In quel «sentire viva» c’era certo l’abilità professionale ma c’era, ad informare l’abilità, l’allenamento del cuore che rende capaci di riconoscere la vita e, nei limiti del possibile, farla palpitare anche nell’immobilità e nell’incoscienza. «Lasciateci – concludevano le stesse Suore – la libertà di amare e di donarci a chi è debole». Certo che gli uomini d’oggi ve la lasciano, Sorelle care, questa libertà benedetta, antica e nuova, mite e benefica, che al di là di ogni clamore è garanzia vera per i non garantiti di questa società. Anzi, proprio questa vostra libertà additiamo alle giovani e ai ragazzi come il destino di una vocazione felice. Vi ringraziamo, come ha già fatto il vostro Arcivescovo Cardinale Tettamanzi, per ogni giorno del vostro dono, e per il vostro donarvi, come ad Eluana, ad ogni altra creatura che vi è affidata. Insieme a Voi, ringraziamo quanti Religiose e Religiosi sono sulla vostra stessa filiera di servizio, quanti si chinano ogni giorno con naturalezza e affidamento sui fratelli più piccoli e indifesi, e consumano i loro giorni e se stessi per gli altri. La loro testimonianza commuove la Chiesa e misteriosamente la edifica nel cuore del mondo. Ma edifica anche l’umanità intera nella sua autentica e intrinseca vocazione a non abbandonare nessuno, ma a farsi prossimo e solidale con tutti e con ciascuno nell’ora della maggiore debolezza.
7. Mi pare giusto richiamare a questo punto il Convegno - «Chiesa nel Sud, Chiese del Sud: nel futuro da credenti responsabili» - che si è tenuto a Napoli il 12 e 13 febbraio scorso, e al quale ho avuto la gioia di partecipare almeno per la Concelebrazione eucaristica che si è svolta nella cattedrale partenopea, su invito amabile del confratello Cardinale Crescenzio Sepe. Il loro riunirsi a vent’anni dallo storico incontro che produsse, tra l’altro, il documento Cei - «Chiesa italiana e Mezzogiorno» - è stata l’occasione per identificare le novità ma anche la persistenza di talune condizioni economiche e sociali del nostro Meridione. Dalla ricognizione dei drammi e delle risorse di questa parte stupenda e martoriata del nostro Paese, è venuta una rinforzata consapevolezza su una serie di sfide che vanno affrontate con le armi del Vangelo, e forti della compagnia di Gesù Cristo. In particolare su alcune denunce: un senso di abbandono da parte della collettività nazionale, un tasso di disoccupazione sproporzionato rispetto al resto del Paese, la presa tentacolare della malavita, che peraltro non si autolimita al Meridione essendo ormai presente su varie piazze del Nord come del Centro. Tutti dobbiamo interrogarci con profonda onestà intellettuale, superando qualunque tentazione divisoria. Dal canto loro, le Chiese del Sud, diverse ma unite, si sono dette pronte a mettere in rete energie e competenze, con l’obiettivo comune di far lievitare la vitalità ecclesiale. Devo dire che noi tutti Vescovi d’Italia avvertiamo l’impeto che ci proviene da queste comunità radicate per storia e tradizioni, e che più di quanto forse non avvenga altrove sanno mantenere il profilo di una identità rigogliosa e popolare che è un patrimonio prezioso dell’intera Chiesa italiana. Non mancheranno le occasioni per riprendere adeguatamente le fila dei discorsi avviati a Napoli, per tesserli in una circolarità di verifiche e di scambio, avendo a cuore il bene reciproco e la forza intrinseca della comunione che è la vera testimonianza da offrire a tutto il Paese.
Guardando più al largo, troviamo sempre qui gli elementi per uscire dalle «sabbie mobili» di una condizione di mediocrità spirituale, e per lasciarci ogni volta «prendere per mano» − che è come un’irruzione che ci cambia il cuore − lungo un cammino di conversione che è meta perenne dei discepoli di Cristo (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 25 gennaio 2009). È ciò che ci siamo proposti per il tempo forte della Quaresima che è in atto nelle nostre Chiese e che amiamo considerare alla luce dei fondamentali della vita cristiana. Il tema del digiuno su cui il Santo Padre ha inteso soffermarsi nel Messaggio di quest’anno ci pare particolarmente adatto per ricomprendere il senso di un impegno che è attuale nella misura in cui riesce ad incidere sul serio sulla nostra vita, inducendoci a prendere le distanze dalle voracità che la zavorrano, e liberarla in considerazione anche dei bisogni dei fratelli.
8. Questo ci porta a dire una parola ancora sulla gravissima crisi economica che sta attanagliando il mondo intero, con esiti rovinosi in tutta una serie di Paesi, non esclusi alcuni europei. L’impressione è che purtroppo non si sia ancora toccato il fondo, o quanto meno che non ci sia nessuno in grado di dire con certezza a che punto si è della perigliosa attraversata. Ci sostiene ancora una volta la parola lucida del Santo Padre che se da una parte scorge il bisogno di «competenza» per parlare con credibilità e fuori da facili moralismi, dall’altra avverte necessaria «una grande consapevolezza etica» informata da una coscienza illuminata dal Vangelo (cfr Discorso all’Incontro con il Clero di Roma, 26 febbraio 2009). Come già si disse nella precedente prolusione, si rivela sempre più urgente e necessario affermare in modo chiaro e forte e riscoprire a livello concreto l’anima etica della finanza e dell’economia. Ma l’attuale congiuntura diverrà l’occasione, si chiede il Santo Padre, per capire che «esiste realmente il peccato originale?». Diversamente non comprenderemo come, nonostante i grandi discorsi e le acute analisi, la ragione è come «oscurata da false promesse» e la «volontà curvata» sul proprio tornaconto: infatti si incappa in una «idolatria che sta contro il vero Dio» falsificandone l’immagine con quella di mammona. Bisogna risalire alla «radice dell’avarizia», a quell’egoismo che «sta nel volere il mondo per me», quando occorre invece trovare «la strada della ragione, e della ragione vera» (ib). Il compito che Benedetto XVI intravvede per la Chiesa è quello «di essere vigilante», così da «cercare essa stessa con le migliori forze che ha […] di farsi sentire, anche ai diversi livelli nazionali e internazionali, per aiutare e correggere», ostacolando «la dominazione dell’egoismo, che si presenta sotto pretesti di scienza e di economia». Il Papa ci invita ad «essere realisti. […] La giustizia si realizza solo se ci sono i giusti». Questo è il punto, avverte, in cui la macroeconomia coincide con la microeconomia: ma «i giusti non ci sono se non c’è il lavoro umile, quotidiano, di convertire i cuori. […] Perciò il lavoro dei parroci è così fondamentale, e non solo per la parrocchia, ma per l’umanità. Perché se non ci sono i giusti, la giustizia rimane astratta. E le strutture buone non si realizzano se si oppone l’egoismo fosse pure delle persone competenti» (ib).
Nello stesso discorso al clero di Roma, il Santo Padre aveva posto una domanda interessante: «Chi conosce gli uomini di oggi meglio del parroco?». E aggiungeva: «Dal parroco gli uomini normalmente vanno senza maschera […]. Nessun’altra professione, mi sembra, dà questa possibilità di conoscere l’uomo com’è nella sua umanità» (ib). Questa affermazione ci suona tra l’altro particolarmente efficace dinanzi all’iniziativa dell’«Anno sacerdotale», appena indetto dal Papa in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, e che prenderà avvio il prossimo 19 giugno (Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero, 16.3.2009). I sacerdoti, insieme ai religiosi e alle religiose, ma anche a moltissimi laici che partecipano direttamente alla pastorale, sono il volto quotidiano e immediato di una Chiesa tutt’altro che «rigida e fredda»; sono il volto amico di una Chiesa che cammina con la gente. Il fatto ha una serie di applicazioni importanti e aiuta a individuare la collocazione della Chiesa anche nell’ambito di questa drammatica crisi: stare dalla parte delle persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti, senza tuttavia tralasciare il quadro generale, ma essendo capace dentro a questo quadro di esprimere una preferenza ragionata, sulla quale sollecitare anche i pubblici poteri, in particolare quando sono a rischio i posti di lavoro (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 1 marzo 2009). E molti sono già persi! È vero che oggi sembra di cogliere una maggiore consapevolezza circa le dimensioni reali di quel che ci attende e la necessità di fare della crisi l’occasione per riassorbire gli squilibri maggiori, ma proprio per questo va intensificata un’azione di supporto concreto e subito efficace verso i soggetti più deboli, e le famiglie che si trovano più scoperte. A livello pastorale, è noto il fiorire in tantissime diocesi di iniziative di solidarietà concreta, cui si unisce l’importante impegno ai vari livelli della Caritas, come degli Istituti di vita consacrata. Già è stata annunciata, in seguito all’ultimo Consiglio Permanente, l’istituzione di un fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà, che nascerà da una colletta comune da farsi nei modi che decideremo. La nostra gente sappia che i Vescovi le sono decisamente vicini e che la nostra Chiesa non ha altra ambizione che curvarsi sui più bisognosi, e interpretare in prima persona e senza risparmio nella situazione data la parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10,30-37).
Vi ringrazio, venerati Confratelli, per l’attenzione che avete voluto prestare alle mie parole introduttive, ad un tempo, al dibattito che ora segue sugli stessi temi e quindi agli argomenti che sono all’ordine del giorno. Ci aiuti il pensiero delle nostre Chiese, e la solidarietà che esse puntualmente esprimono a noi pastori. Ci aiuti soprattutto lo Spirito a cercare e a fare la volontà del Signore Gesù. Lo chiediamo per intercessione di Maria, che venereremo mercoledì nel mistero gaudioso dell’Annunciazione, e per intercessione di san Giuseppe e dei Santi nostri protettori.
Angelo Card. BagnascoPresidente

sabato 21 marzo 2009

QUANDO IL DIRITTO FA RIMA CON LA VITA...

La Corte Suprema ha decretato che LA riserva Raposa-Serra do Sol NON SIA DIVISA
I giudici brasiliani stanno con gli Indios
Una sentenza blocca una lobby di coltivatori di riso che voleva impossessarsi dell'area dove vivono 5 tribù
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La scheda sui popoli indigeni che abitano nella zona di Raposa-Serra do Sol
VIDEO: Uno degli assalti nella riserva da parte dei mercenari al soldo dei coltivatori
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Un indios di Raposa durante la visita al Papa BRASILIA - I giudici del Brasile hanno dato ragione agli Indios dell'Amazzonia e, in particolare, al loro diritto di abitare una terra che non sia invasa e divisa. La Corte Suprema brasiliana ha decretato infatti che la riserva indigena conosciuta con il nome di Raposa-Serra do Sol deve restare indivisa. Una potente lobby di coltivatori di riso che vivono all’interno del territorio indigeno voleva far modificare i confini di Raposa con l’obiettivo di non essere costretti ad andarsene. Il caso specifico riguarda circa 18mila indiani, delle tribù Makuxi, Wapixana, Tuarepang, Ingarikò e Patamona, contrapposti a un esiguo numero di coltivatori di riso che si sono impossessati nel 2005 di gran parte dei quasi due milioni di ettari della riserva Raposa Serra do Sol. Fiona Watson, coordinatrice delle campagne di Survival, associazione che difende i popoli indigeni nel Mondo, ha visitato la riserva molte volte. «Al cuore di questa vertenza - ha commentato - è un sollievo straordinario non solo per i 20mila abitanti di Raposa ma anche per tutti gli altri centinaia di migliaia di Indiani che popolano il paese. Al cuore della vertenza giudiziaria c’era un principio controverso ma molto semplice: possono gli Indiani che abitano da tempo immemorabile nella stessa terra continuare ad abitarla in pace, o deve essere data la possibilità ad allevatori e latifondisti, che sono così potenti in tutto il Sud America, di cacciarli via nel nome dello sviluppo? La Corte ha fortunatamente preso una posizione decisamente favorevole agli Indiani e ha respinto la vergognosa propaganda dell’esercito che da anni continua a sostenere che le aree indigene costituiscono un pericolo per la sovranità nazionale”.
L'IMPORTANZA DELLA SENTENZA - Con 10 voti a favore e 1 solo contrario, i giudici hanno sentenziato che la riserva deve rimanere intatta. «Le basi, le condizioni e le procedure che abbiamo definito con questo caso» ha chiarito il Presidente della Corte Suprema, «dovranno essere usati come linee guida per altre vertenze. Stiamo mettendo fine a tutte le contese che riguardano casi come questo». Il Consiglio indigeno di Roraima (CIR), che rappresenta la maggioranza degli Indiani della riserva, ha applaudito la sentenza con la speranza che le loro comunità possano finalmente vivere in pace. La Corte aveva già espresso una sentenza provvisoria e parziale in dicembre ma il verdetto definitivo è stato pronunciato solo giovedì. Anche l’esercito voleva che la riserva venisse ridotta e smembrata sostenendo che la presenza di aree indigene lungo i confini costituisse una minaccia alla sicurezza nazionale. Ma i giudici hanno respinto anche queste le argomentazioni.
GLI ATTACCHI DEI LATIFONDISTI - Per anni, gli Indiani della regione hanno subito l’attacco violento dei latifondisti che avevano resistito a ogni tentativo di allontanamento compiuto dalle autorità. Nel 2008, l'associazione Survival, che difende i popoli indigeni in tutto il Mondo, aveva diffuso le immagini di uno di questi assalti.
VISITA AL PAPA E A SCHIFANI - Tra la fine di giugno e i primi di luglio, una delegazione di Indiani da Roraima ha incontrato anche il presidente del Senato Renato Schifani e Papa Benedetto XVI, che avevano entrambi promesso loro solidarietà.
20 marzo 2009

venerdì 20 marzo 2009

PAPA BENEDETTO E LA FAMIGLIA CRISTIANA AFRICANA

Voi vedete, noi domandiamo al Signore di custodire sempre la Chiesa sotto la sua costante protezione – ed Egli lo fa! – esattamente come Giuseppe ha protetto la sua famiglia e ha vegliato sui primi anni di Gesù bambino.Il Vangelo ce lo ha appena ricordato. L’Angelo gli aveva detto: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa» (Mt 1,20), ed è esattamente quello che ha fatto: «Egli fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore» (Mt 1,24). Perché san Matteo ha tenuto ad annotare questa fedeltà alle parole ricevute dal messaggero di Dio, se non per invitarci ad imitare questa fedeltà piena di amore?La prima lettura che abbiamo appena ascoltato non parla esplicitamente di san Giuseppe, ma ci dice molte cose su di lui. Il profeta Natan va a dire a Davide su ordine del Signore stesso: «Io susciterò un tuo discendente dopo di te» (2 Sam 7,12). Davide deve accettare di morire senza vedere la realizzazione di questa promessa, che si tradurrà in atto «quando i suoi giorni saranno compiuti» ed egli dormirà «con i suoi padri». Così vediamo che uno dei desideri più cari dell’uomo, quello di essere testimone della fecondità della sua azione, non è sempre esaudito da Dio. Penso a quelli tra di voi che sono padri e madri di famiglia: essi hanno molto legittimamente il desiderio di dare il meglio di loro stessi ai lori figli e li vogliono vedere pervenire ad una vera riuscita. Tuttavia, non bisogna ingannarsi circa questa riuscita: quello che Dio domanda a Davide è di darGli fiducia. Davide stesso non vedrà il suo successore, colui che avrà un trono «stabile per sempre» (2 Sam 7,16), perché questo successore annunciato sotto il velo della profezia è Gesù. Davide si fida di Dio. Ugualmente, Giuseppe dà fiducia a Dio quando ascolta il suo messaggero, il suo Angelo, dirgli: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Giuseppe è, nella storia, l’uomo che ha dato a Dio la più grande prova di fiducia, anche davanti ad un annuncio così stupefacente.E voi, cari padri e madri di famiglia che mi ascoltate, avete fiducia in Dio che fa di voi i padri e le madri dei suoi figli di adozione? Accettate che Egli possa contare su di voi per trasmettere ai vostri figli i valori umani e spirituali che avete ricevuto e che li faranno vivere nell’amore e nel rispetto del suo santo Nome? In questo nostro tempo, in cui tante persone senza scrupoli cercano di imporre il regno del denaro disprezzando i più indigenti, voi dovete essere molto attenti. L’Africa in generale, ed il Camerun in particolare, sono in pericolo se non riconoscono il Vero Autore della Vita! Fratelli e sorelle del Camerun e dell’Africa, voi che avete ricevuto da Dio tante qualità umane, abbiate cura delle vostre anime! Non lasciatevi affascinare da false glorie e da falsi ideali. Credete, si, continuate a credere che Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, è il solo ad amarvi come voi vi aspettate, che è il solo a potervi soddisfare, a poter dare stabilità alle vostre vite. Cristo è l’unico cammino di Vita.Solo Dio poteva dare a Giuseppe la forza di far credito all’angelo. Solo Dio vi darà, cari fratelli e sorelle che siete sposati, la forza di educare la vostra famiglia come Egli vuole. DomandateGlielo! Dio ama che gli si domandi quello che egli vuole donare. DomandateGli la grazia di un amore vero e sempre più fedele, ad immagine del Suo amore. Come dice magnificamente il Salmo: il suo «amore è edificato per sempre, [la sua] fedeltà è più stabile dei cieli» (Sal 88, 3).Come in altri continenti, oggi la famiglia conosce effettivamente, nel vostro Paese e nel resto dell’Africa, un periodo difficile che la sua fedeltà a Dio l’aiuterà a superare. Alcuni valori della vita tradizionale sono stati sconvolti. I rapporti tra le generazioni si sono modificati in una maniera tale da non favorire più come prima la trasmissione della conoscenze antiche e della saggezza ereditata dagli antenati. Troppo spesso si assiste ad un esodo rurale paragonabile a quello che numerosi altri periodi umani hanno conosciuto. La qualità dei legami familiari ne risulta profondamente intaccata. Sradicati e resi più fragili, i membri delle giovani generazioni, spesso –ahimè! - senza un vero lavoro, cercano rimedi al loro male di vivere rifugiandosi in paradisi effimeri e artificiali importati di cui si sa che non arrivano mai ad assicurare all’uomo una felicità profonda e duratura. A volte anche l’uomo africano è costretto a fuggire fuori da se stesso, e ad abbandonare tutto ciò che costituiva la sua ricchezza interiore. Messo a confronto col fenomeno di una urbanizzazione galoppante, egli abbandona la sua terra, fisicamente e moralmente, non come Abramo per rispondere alla chiamata del Signore, ma per una sorta di esilio interiore che lo allontana dal suo stesso essere, dai suoi fratelli e sorelle di sangue e da Dio stesso.Vi è dunque una fatalità, una evoluzione inevitabile? Certo che no! Più che mai dobbiamo «sperare contro ogni speranza» (Rm 4,18). Voglio rendere omaggio qui con ammirazione e riconoscenza al notevole lavoro realizzato da innumerevoli associazioni che incoraggiano la vita di fede e la pratica della carità. Ne siano calorosamente ringraziate! Trovino nella Parola di Dio un ritorno di forza per portare felicemente a termine tutti i loro progetti al servizio di uno sviluppo integrale della persona umana in Africa, e in particolare in Camerun.La prima priorità consisterà nel ridare senso all’accoglienza della vita come dono di Dio. Per la Sacra Scrittura come per la migliore saggezza del vostro continente, l’arrivo di un bambino è una grazia, una benedizione di Dio. L’umanità è oggi invitata a modificare il suo sguardo: in effetti, ogni essere umano, anche il più piccolo e povero, è creato «ad immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,27). Egli deve vivere! La morte non deve prevalere sulla vita! La morte non avrà mai l’ultima parola!Figli e figlie d’Africa, non abbiate paura di credere, di sperare e di amare, non abbiate paura di dire che Gesù è la Via, la Verità e la Vita, che soltanto da lui possiamo essere salvati. San Paolo è l’autore ispirato che lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa per essere il «maestro dei pagani» (1Tm 2,7), quando ci dice che Abramo «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza» (Rm 4,18).«Saldo nella speranza contro ogni speranza»: non è una magnifica definizione del cristiano? L’Africa è chiamata alla speranza attraverso voi e in voi! Col Cristo Gesù, che ha calpestato il suolo africano, l’Africa può diventare il continente della speranza. Noi tutti siamo membri dei popoli che Dio ha dato come discendenza ad Abramo. Ciascuno e ciascuna di noi è pensato, voluto e amato da Dio. Ciascuno e ciascuna di noi ha il suo ruolo da giocare nel piano di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. Se lo scoraggiamento vi invade, pensate alla fede di Giuseppe; se l’inquietudine vi prende, pensate alla speranza di Giuseppe, discendente di Abramo che sperava contro ogni speranza; se vi prende l’avversione o l’odio, pensate all’amore di Giuseppe, che fu il primo uomo a scoprire il volto umano di Dio nella persona del bambino concepito dallo Spirito santo nel seno della Vergine Maria. Benediciamo Cristo per essersi fatto così vicino a noi e rendiamoGli grazie di averci dato Giuseppe come esempio e modello dell’amore verso di Lui.Cari fratelli e sorelle, ve lo dico di nuovo di tutto cuore: come Giuseppe, non temete di prendere Maria con voi, cioè non temete di amare la Chiesa. Maria, Madre della Chiesa, vi insegnerà a seguire i suoi Pastori, ad amare i vostri Vescovi, i vostri preti, i vostri diaconi e i vostri catechisti, e a seguire ciò che vi insegnano e a pregare secondo le loro intenzioni. Voi che siete sposati, guardate l’amore di Giuseppe per Maria e per Gesù; voi che vi preparate al matrimonio, rispettate la vostra o il vostro futuro coniuge come fece Giuseppe; voi che vi siete consacrati a Dio nel celibato, riflettete sull’insegnamento della Chiesa nostra Madre: «La verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità soni i due modi di esprimere e di vivere l’unico mistero dell’Alleanza di Dio col suo popolo» (Redemptoris custos, 20).Vorrei ancora rivolgere una esortazione particolare ai padri di famiglia, poiché san Giuseppe è il loro modello. San Giuseppe rivela il mistero della paternità di Dio su Cristo e su ciascuno di noi. E’ lui che può loro insegnare il segreto della loro stessa paternità, egli che ha vegliato sul Figlio dell’Uomo. Anche ogni padre riceve da Dio i suoi figli creati ad immagine e somiglianza di Lui. San Giuseppe è stato lo sposo di Maria. Anche ogni padre di famiglia si vede confidare il mistero della donna attraverso la sua propria sposa. Come San Giuseppe, cari padri di famiglia, rispettate e amate la vostra sposa, e guidate i vostri bambini, con amore e con la vostra presenza accorta, verso Dio dove essi devono essere (cfr Lc 2,49).Infine, a tutti i giovani che sono qui, io rivolgo parole di amicizia e di incoraggiamento: davanti alle difficoltà della vita, mantenete il coraggio! La vostra esistenza ha un prezzo infinito agli occhi di Dio. Lasciatevi prendere da Cristo, accettate di donarGli il vostro amore e, perché no, voi stessi nel sacerdozio o nella vita consacrata! È il più alto servizio. Ai bambini che non hanno più un padre o che vivono abbandonati nella miseria della strada, a coloro che sono separati violentemente dai loro genitori, maltrattati e abusati, e arruolati a forza in gruppi militari che imperversano in alcuni Paesi, vorrei dire: Dio vi ama, non vi dimentica e san Giuseppe vi protegge! Invocatelo con fiducia.Dio vi benedica e vi custodisca tutti! Vi dia la grazia di avanzare verso di Lui con fedeltà. Doni alle vostre vite la stabilità per raccogliere il frutto che Egli si aspetta da voi! Vi renda testimoni del suo amore, qui, in Camerun, e fino alle estremità della terra! Io Lo prego con fervore di farvi gustare la gioia di appartenerGli, ora e per i secoli dei secoli.

mercoledì 4 marzo 2009

LA CONCRETEZZA DEL CRISTIANO

Ecco perché il cristiano è “l’uomo della realtà”
di Rai Vaticano 24 Febbraio, 2009
Vorrei qui sostenere una tesi e ragionarci un po’ sopra. Anche se molti sostengono il contrario, a me sembra che il cristiano sia l’uomo della realtà. E sapete da che cosa lo si capisce? Dalle parole che usa. Faccio qualche esempio. Il cristiano vede un feto e dice “quella è vita”. Non dice: quella è una cosa che assomiglia alla vita, oppure è vita al quaranta per cento. Che sia vita lo vedono tutti, però chi non è uomo della realtà, perché magari ne ha paura o perché vuole imporre una sua idea contro la realtà stessa, si inventa altre definizioni. Lo stesso dicasi per la morte. Quando il cristiano deve parlare di una persona che è morta dice che è morta. Non teme la realtà e non la vuole cambiare. Chi invece la teme e la vuole cambiare, anche contro ogni evidenza, dice che quella persona se n’è andata, o è passata a miglior vita, è volata via oppure (come ho sentito dire) è “terminata”. Tutto va bene purché non si usi la parola morte.Perché mi preme sottolineare che il cristiano è l’uomo della realtà? Perché il cristiano, proprio in quanto uomo della realtà, si comporta su base morale, e su questa base si impegna nei confronti di se stesso e degli altri. Anche la morale è reale. Estremamente reale perché estremamente umana. Il cristiano lo sa e si comporta di conseguenza. L’uomo ideologico invece lo nega, dice che la morale è una “sovrastruttura”, e così trova il modo di fare quello che gli pare, che gli fa più comodo, che gli procura più piacere. Che il suo non sia un comportamento morale, e quindi non umano, lo sa anche lui. Ma nega l’evidenza.Il cristiano, quando si imbatte in un’altra persona, anche se questa persona ha il colore della pelle diverso dal suo e parla una lingua diversa dalla sua, vede immediatamente nell’altro un suo simile. Vedendolo simile prova nei suoi confronti senso di solidarietà. E con quel suo simile vuole parlare, vuole confrontarsi, vuole creare un rapporto. Tutto ciò fa parte semplicemente della realtà, perché noi siamo fatti così. Siamo essere morali. Invece l’uomo che, ideologicamente, nega la realtà che cosa fa? Magari prende a pretesto il colore della pelle per dire che quella persona è meno persona delle altre. O magari prende a pretesto la lingua, o il paese di provenienza, o la religione, o il colore degli occhi, o dei capelli. Chi vuol negare la realtà ha mille pretesti a disposizione, uno più utile dell’altro. Non c’è che da scegliere.Ecco perché per il cristiano l’impegno, nel senso di impegno morale, non è una scelta fra tante, ma è semplicemente l’unica scelta, perché è l’unica che corrisponde alla realtà delle cose.Faccio un esempio banale. Tempo fa vicino a casa nostra abitava una signora che, per motivi vari, si era messa a bere, rovinando così la propria vita e quella della sua famiglia. Si era così abbruttita che un certo giorno i familiari la buttarono fuori di casa. Lei venne a bussare alla nostra porta chiedendo aiuto e solidarietà. Io, con un atteggiamento ideologico, dissi: “Niente da fare, ci procurerebbe troppe noie, mica siamo un ente di beneficenza, vada in parrocchia, o alla asl”. Mia moglie invece, non avendo paura di riconoscere l’umanità di quella persona (umanità che anch’io ovviamente avvertivo ma volevo negare per il mio interesse), la ospitò, le diede assistenza e le permise di affrontare una fase difficilissima della sua vita. Mia moglie ha riconosciuto la realtà. Si è comportata moralmente, cioè umanamente. E quando le ho detto “brava, sei stata una vera cristiana”, mi ha giustamente risposto: “Perché, c’era un’altra scelta?”.Quando il cristiano si china sul suo simile, come il samaritano, non fa che riconoscere la realtà. Questo fratello ha bisogno di me, è evidente. Così come è evidente che siamo tutti nella stessa barca, perché solo un pazzo, o un ideologo, può negare che tra i comportamenti delle persone non ci sono rapporti di causa-effetto. Tutti noi siamo legati: ogni ingiustizia da me commessa è pagata da qualcuno, ogni mia violenza si ripercuote contro qualcuno, ogni mia omissione ha conseguenze negative su qualcuno. Questa è la realtà dei fatti. Che il cristiano riconosce. Mentre l’uomo ideologico, per motivi suoi, cerca di piegarla, in vario modo, fino a trasformarla in qualcosa di totalmente diverso. Il cristiano vede rosso e, moralmente, dice rosso. L’uomo ideologico vede rosso e, se gli fa comodo, ideologicamente dice giallo.Si può essere ideologi inconsapevoli. Per esempio lo è il figlio che sta fuori fino alle quattro del mattino fregandosene altamente delle preoccupazioni che procura ai genitori. Nega il dolore dei genitori, che è evidente, perché gli fa comodo. Ma che si consapevole o meno, il comportamento ideologico va sempre nella direzione dell’egoismo e dell’affermazione di sé contro l’altro.Vogliamo parlare di solidarietà? Bene, non c’è molto da dire. E’ chiaro che si tratta di qualcosa che sta dentro ciascuno di noi. Nessuno che voglia essere sincero con se stesso può dire che la presenza di una persona che soffre non gli fa problema. L’uomo che al semaforo tende la mano verso il finestrino della nostra auto ci fa problema. Il bambino africano con la pancia gonfia e la gambine secche ci fa problema. Il bambino soldato o la bambina violentata ci fanno problema. Il villaggio spazzato dalla tempesta di sabbia fa problema. Il popolo condannato a morte dalla carestia fa problema. Il lebbroso mutilato e sfigurato fa problema. La realtà è che tutto ciò ci fa problema. Il cristiano questa realtà la riconosce e moralmente (cioè nell’unico modo umano) l’assume su di sé trovando mille modi per aiutare l’altro. L’uomo ideologico ci pensa su e poi dice che è colpa dei cristiani che non permettono la contraccezione. Ottenendo così un triplice scopo: di sentirsi a posto perché ci ha pensato, di sentirsi progressista perché vuole la contraccezione e di mettere in ridicolo il cristiano retrogrado.Vogliamo parlare di interdipendenza e multiculturalità? Anche queste sono realtà sotto gli occhi di tutti. In un mondo in cui si comunica sempre di più e sempre di più si entra in contatto, siamo tutti quanti multiculturali nel senso che le nostre culture si confrontano continuamente e tutti siamo chiamati a metterci in gioco in questo confronto lavorando per il bene comune. E’ una realtà lampante. Lo è in quanto realtà morale e dunque umana. E infatti il cristiano la riconosce. L’uomo ideologico invece la rifiuta. E così nascono, per esempio, le teorie sociologiche sul fallimento della multiculturalità, secondo le quali il mondo per andare avanti avrebbe bisogno dell’affermazione di identità forti. Ecco il linguaggio ideologico che si insinua, ecco le parole che pretendono di forzare la realtà per piegarla alle esigenze dell’ideologia. Quell’uomo che è chiaramente un mio fratello diventa di volta in volta un extracomunitario, un clandestino, un richiedente asilo, o come lo vogliamo chiamare. Le parole sfornate dall’ideologia servono sempre ad allontanare la realtà, a renderla meno umana e quindi meno disturbante.Lo abbiamo visto benissimo nel caso di Eluana. Era una donna che per vivere aveva bisogno di qualcuno che le desse da mangiare e da bere perché da sola non poteva farlo. Le suore di Lecco le davano da mangiare e da bere, come si fa con i bambini molto piccoli, perché non avevano paura della realtà rappresentata da quella donna. L’ideologia invece, volendo negare la realtà di Eluana e volendo affermare che quella donna non era più una donna ma qualcosa di meno, qualcosa che non meritava più di vivere, ha incominciato a parlare di “protocolli” da applicare. Credetemi: quando le parole si fanno vaghe e indeterminate, quando le parole non richiamano più cose e persone, c’è di mezzo l’ideologia. E quando c’è di mezzo l’ideologia è in corso una discriminazione. C’è sempre un forte che discrimina a danno di un debole.Il cristiano lo sa, lo vede, lo dice. Non ha paura della realtà perché lui sa che la realtà è già stata redenta, tutta quanta, e che lui, come cristiano, deve propriamente continuare l’opera di redenzione. Per questo è uomo della realtà. E proprio per questo suo essere uomo della realtà è perseguitato.
Aldo Maria Valli